PRIMO LEVI E IL “ROMANZO DELLA CHIMICA”

Nelle numerose interviste, conferenze e nelle tante prose autobiografiche pubblicate in rivista o in volume, Primo Levi non ha mai mancato di dichiararsi in debito verso il suo mestiere di chimico, di «trasmutatore di materia», che, oltre a fornirgli un «vasto assortimento di metafore», «un inventario di materie prime, di ‘tessere’ per scrivere, un po’ più vasto di quello che possiede chi non ha una formazione tecnica», gli ha consentito di sviluppare un buon numero di «virtù», affatto utili per il suo secondo mestiere di scrittore («precisione», «concisione», «pazienza») e una serie di preziose «abitudini»: «l’abitudine a scrivere compatto, a evitare il superfluo», «l’abitudine all’obiettività, a non lasciarsi ingannare dalle apparenze», «l’abitudine a pesare le parole, il non fidarsi delle parole approssimative»[1].

«Abitudini» (o forse dovrei dire attitudini), che fanno parte di una prassi metodologica acquisita in anni di studi tecnici e scientifici e consolidatasi a contatto con manuali d’uso, schede, rapporti, referti di laboratorio. Ma la chimica non è una scienza come le altre: non possiede la «strenua chiarezza» della fisica, la sua passione per la simmetria, la sua vocazione «a dare norma all’universo delle apparenze» (senza però riuscire a penetrarlo…)[2]; né si fonda, come l’algebra, sulle astrazioni del calcolo: il chimico militante preferisce usare le dita prima ancora del cervello! Ha sempre “le mani in pasta”, se le ustiona, se le taglia, se le sporca di continuo. Naturalmente, come tutte le altre scienze, che rifiutano l’obbedienza ai dogmi e procedono sperimentando protocolli provvisori, ma via via più raffinati ed efficaci (secondo la moderna epistemologia), anche la chimica segue procedimenti rigorosi, ha i suoi protocolli e le sue regole, ed è animata da un ambizioso obiettivo: interpretare l’intima struttura della realtà, mettere ordine nel caos degli elementi, rendere comprensibile l’indistinto: in tal senso, Mendeleev, con la classificazione degli elementi nella “tavola periodica”, condusse a termine un’impresa di eccezionale portata. Tuttavia, la chimica, in virtù delle sue origini assai remote e “contaminate” (per secoli è stato difficile distinguere l’alchimia dalla astrologia, dalla medicina, dalla magia), si discosta dalle altre scienze naturali e mostra anche un altro volto, per così dire, poco “nobile” e anche poco rassicurante: pensiamo, infatti, a quanti secoli sono occorsi per rimuovere dalla coscienza collettiva i molteplici pregiudizi intorno agli esperimenti degli antichi alchimisti e per trasformare, infine, in scienza moderna una disciplina fondata su credenze, superstizioni, pratiche magico-misteriche (talvolta moralmente abiette), e finalità a dir poco fantasiose (la ricerca della pietra filosofale, dell’elixir di lunga vita o dell’alkahest, ovvero l’acido capace di sciogliere tutte le sostanze).

Ma dell’ambiguo mestiere di chimico, in bilico tra la scienza moderna e l’antica alchimia, tra la tecnologia di precisione di oggi e il «provare e riprovare» di ieri, quale aspetto finisce col prevalere e condizionare la scrittura di Levi: quello razionale-pragmatico o quello magico-misterico? Fortemente attratto dall’esattezza, linearità, chiarezza proprie della scrittura-referto, ovvero della scrittura prodotta dal tecnico di laboratorio che compie esperienze e ne comunica i risultati, e infastidito dallo «scrivere oscuro» di tanti letterati suoi contemporanei, Levi subisce tuttavia il fascino di ciò che è strano, irrazionale, carico di mistero: «troppo chimico e chimico per troppo tempo per sentirmi un autentico uomo di lettere – scrive nella Premessa all’Altrui mestiere –, troppo distratto dal paesaggio variopinto, tragico o strano per sentirmi chimico in ogni fibra». E non occorre andare su Marte o sulla Luna per imbatterci in paesaggi strani o in situazioni assurde o paradossali!

I racconti fantastici e fantascientifici di Levi – accolti tiepidamente da pubblico e critica al momento della loro uscita, tra la metà degli anni sessanta e l’inizio dei settanta – dimostrano, infatti, oltre ogni dubbio che «lo straordinario, nei suoi risvolti inquietanti, o misteriosi, o pericolosi» non appartiene ad altri mondi possibili, ad universi alieni, ma è presente nella vita di tutti i giorni, all’interno di situazioni apparentemente normali. Vale la pena soffermarsi, sia pure brevemente, su questi racconti – mi riferisco naturalmente a quelli inclusi nelle due raccolte Storie naturali e Vizio di forma – nei quali Levi sperimenta, con grande disinvoltura, quasi tutti i registri narrativi. L’impegno e l’evasione, il tragico e il comico, il tono epico-apocalittico alla Wells e quello utopico-pessimistico alla Orwell o alla Huxley s’intrecciano e si sovrappongono in queste brevi storie, nelle quali la vena ironica di Levi è più che mai presente e filtra abbondantemente pur tra visioni minacciose, interrogativi inquietanti e privi di risposta, «punti di fuga verso nuove realtà, verso possibilità non ancora conosciute e sperimentate»[3]. Elemento unificatore e punto di partenza di ciascuna storia, pur nella loro eterogeneità, è il dato reale, che viene trasfigurato attraverso l’immaginazione, di modo che il razionale sconfina nell’irrazionale, la scienza approda alla fantascienza e non viceversa. Per Levi, infatti, la buona narrativa di fantascienza non può che fondarsi su presupposti rigorosamente scientifici ed è «del tutto insensato» (sono parole sue) mettersi a scrivere un romanzo di fantascienza senza avere, alla base, una solida e adeguata preparazione scientifica:

La fantascienza vera è quella che corre nella repubblica dei fisici. Era stata fondata da gente che un po’ di fisica e di biologia la sapeva, che era capace di una comunicazione, e difatti ha avuto un successo vastissimo[4].

In Levi, progettare con ordine e chiarezza la pagina scritta per poter «trasmettere in chiaro» le proprie esperienze esistenziali è un’esigenza primaria: ma non sempre l’autore, per fare ciò, sceglie la chiave della narrazione autobiografica. C’è un altro modo per raccontare di sé, delle proprie origini, della propria esistenza travagliata, oppure per esprimere il proprio punto di vista, polemico o ironico, sulla società e sul mondo. Quest’altro modo è costituito appunto dal racconto fantastico o di fantascienza, che, anche quando sembra nascere dal genio visionario dello scrittore, implica sempre un intento autobiografico più o meno scoperto. È quanto accade anche nei due racconti fantastici, Piombo e Mercurio, inclusi nel Sistema periodico: lo straordinario «romanzo della chimica» pubblicato nel ’75, in cui i momenti cruciali dell’esistenza di Levi sono collegati ai 21 elementi della tavola di Mendeleev. Eterodossi rispetto agli altri diciannove racconti presenti nella raccolta e isolati rispetto a questi, anche graficamente, per l’uso del corsivo, Piombo e Mercurio, frutto, almeno in apparenza, della pura fantasia dello scrittore, sembrano (per restare nel linguaggio metaforico leviano) due atomi di carbonio sfuggiti ad un esperimento di laboratorio.

In realtà anche la storia di Rodmund – cercatore di piombo, irrequieto viaggiatore, amante dei paesaggi aspri e rocciosi – e quella di Maggie e del caporale Abrahams – confinati su di un’isola deserta, ricca solo di uova di gabbiano e di mercurio – hanno la loro scaturigine in episodi, grandi e piccoli, della vita privata dell’autore. La lettura dei classici greci e latini (innanzitutto quella del De bello gallico di Cesare), una vacanza con la moglie Lucia in Sardegna (l’Icnusa descritta in Piombo), la passione per l’alta montagna e per i paesaggi alpini, sono dettagli piccoli ma significativi della biografia dell’autore: letture, esperienze, frammenti di vita vissuta che agiscono all’interno della storia di Rodmund conferendo spessore e umanità al personaggio e rendendo più gustosa la narrazione dei suoi viaggi fantastici. L’autore non dice in quale età della storia viva Rodmund, ma senz’altro ci muoviamo in un evo antichissimo, tra regioni inaccessibili e città immaginarie, dietro le quali solo in taluni casi sono riconoscibili luoghi reali. Il paese natale di Rodmund, Thiuda, con grandi foreste, fiumi e paludi, con inverni lunghissimi e piovosi, ci fa pensare a certe impervie regioni del nord Europa, poco battute anche oggi, mentre il paese d’arrivo, quello dove il cercatore di piombo decide infine di stabilirsi e di far nascere un figlio, è Icnusa, «l’isola dei metalli», dietro la quale si cela la più familiare Sardegna. Rodmund, guidato solo dagli Dei e dagli insegnamenti degli avi, attraversa decine di paesi, conosce una moltitudine di persone, entra in contatto con culture, tradizioni e, soprattutto, lingue differenti: la sua difficoltà a comunicare con le persone che incontra, ma anche la sua capacità di “arrangiarsi”, di adattarsi, apprendendo le poche parole necessarie per vivere e commerciare, chiaramente ci riportano con la memoria all’inferno del Lager, la spietata Babele descritta in Se questo è un uomo dove «tutti urlano ordini e minacce in lingue mai prima udite» e dove conoscere qualche parola di tedesco, di inglese, di francese poteva essere un fattore decisivo di sopravvivenza.

Anche in Mercurio, l’altro racconto fantastico del Sistema periodico – che segue Piombo e precede i due racconti Fosforo e Oro, con i quali ci rituffiamo nella narrazione autobiografica tradizionale e nella realtà drammaticamente vera della guerra e della lotta partigiana – biografia e fantasia si mescolano, pur se in modo più sottile e meno facilmente decifrabile. Il caporale Abrahams e sua moglie Maggie sono i protagonisti di questo racconto: hanno scelto di restare, soli, sull’isola immaginaria di Desolazione dopo che gli altri soldati della guarnigione, di stanza in quel luogo sperduto, sono andati via in seguito alla morte di un personaggio illustre confinato in un’isola vicina (scopriremo più avanti nella lettura che il personaggio illustre è Napoleone e l’isola vicina è Sant’Elena). Ad un certo punto, però, giungono a Desolazione quattro nuovi e stravaganti personaggi: uno di questi, Hendrik, di origini olandesi, è approdato a Desolazione non si sa bene perché, è piuttosto anziano e – dettaglio non trascurabile – ha «le mani da signore» nonostante il suo mestiere di alchimista, «trasmutatore di metallo», seguace di Ermete Trismegisto. Hendrik, con il suo parlare «delle sette chiavi […] dell’unione dei contrari e di altre cose poco chiare»[5] seduce Maggie e, viceversa, istilla sentimenti di «paura, rabbia e ribrezzo» nell’onesto e sprovveduto caporale Abrahams. La personalità di Hendrik è fredda e sfuggente, le sue pratiche esoteriche suscitano attrazione e repulsione, il suo rapporto con la Natura e con i suoi elementi è intenso, pericoloso, assolutamente equivoco: insomma l’olandese racchiude in sé le qualità che sono proprie del metallo di cui ha bisogno per i suoi esperimenti di alchimista: «aveva negli occhi una luce sbieca e mobile come quella del mercurio stesso – leggiamo ad un certo punto del racconto -; sembrava diventato mercurio, che gli corresse per le vene e gli trapelasse dagli occhi»[6].

[Il mercurio] è veramente una sostanza bizzarra: è freddo e fuggitivo, sempre inquieto […] Non soltanto ci galleggia sopra il crocifisso sacrilego di Hendrik, ma anche i sassi, e perfino il piombo.[…] Insomma è una materia che non mi piace, e avevo fretta di […] liberarmene[7].

Ecco allora risolto un mistero: non quello di Hendrik l’alchimista, presto svelato (è approdato sull’isola desolata per sfuggire alla forca che lo attendeva in Olanda), ma quello certamente più intrigante che riguarda la scelta leviana di inserire, in una sequenza compiuta di racconti autobiografici, due testi di pura invenzione che interrompono la catena perfetta, guastano la simmetria, “sciupano” la purezza del reticolo narrativo (ma è pur vero che per Levi la perfezione, la purezza sono concetti detestabili e, a suo dire, «disgustosamente moralistici»). Voglio dire che Piombo e Mercurio, racconti fantastici, stanno presumibilmente lì, accanto a quelli più schiettamente autobiografici del Sistema periodico, per qualche ragione. Il piombo e il mercurio sono due elementi che non piacciono a Levi, le cui qualità e caratteristiche suscitano nello scrittore sentimenti misti di paura (il piombo è il «metallo della morte»)[8] e di repulsione, di ribrezzo (il mercurio è «materia fredda e viva», ma sfuggente). Sono due elementi che evocano nello scrittore paure ancestrali e ricordi penosi, risvegliano traumi lontani, ma ancora vivi, dai quali egli intende prendere le distanze. Ma il piombo e il mercurio, però, con i due racconti cui danno il titolo, sono insieme difesa ed esorcismo del trauma: l’ambientazione fantastica infatti allontana il vissuto, e la favola filtra e media le asperità dell’autobiografia.

Il piombo è un «metallo che senti stanco» – racconta Rodmund, il cercatore – «forse stanco di trasformarsi e che non si vuole trasformare più»[9] e non c’è niente di più triste e pericolosamente inerte (specie agli occhi di un chimico) di un elemento che rifiuta di trasformarsi in qualcos’altro, che nega la vita e cede all’autodistruzione. Il piombo, insomma, rappresenta quella misteriosa tendenza alla dissipazione (la “pulsione di morte” contro la quale Levi ha lottato, invano, tutta la vita) che spingerebbe alcuni soggetti più deboli (o forse tutti gli uomini, sia pure a livello inconscio) a desiderare la resa, la rinuncia, l’annullamento di sé. Ma ancora più inquietante e odioso del piombo è il mix di sensazioni, immagini, ricordi sgradevoli e dolorosi suscitato dal mercurio: una materia così «fredda» e ingannevole, sfuggente e irritante, infida e frenetica, che trasforma l’oro in stagno, sottraendo virtù e dignità a tutto ciò che è veramente prezioso e unico; un elemento “corruttore”, dunque, che non può non evocare nella mente di chi scrive (e naturalmente di chi legge) circostanze raccapriccianti e, soprattutto, individui abominevoli drammaticamente collegati all’esperienza concentrazionaria.

Concludo riportando un brano di un’intervista del ’72, nella quale Levi – scienziato rigoroso, paladino della razionalità e dell’esattezza – collegava, inaspettatamente, proprio al mestiere di chimico e al lavoro quotidiano in laboratorio la scelta di portare nei suoi numerosissimi racconti i temi dell’irrazionalità e dell’insensatezza:

Il mio lavoro quotidiano non si fonda che raramente su «formule esatte»: molto più spesso comporta invece una lotta faticosa contro problemi confusi. Sovente mi viene spontaneo capovolgere questi problemi, ridurli ad una irrazionalità totale per poterne ridere magari con un riso amaro[10].

La versione integrale del saggio è stata pubblicata nel mio volume L’esperienza dell’impuro. Filosofia, fisiologia, chimica, arte e altre “impurità” nella scrittura di Valéry, Ungaretti, Sinisgalli, Levi, Aracne, Roma 2006, alle pp. 145-151e poi ripubbl. in «Italia magica». Letteratura fantastica e surreale dell’Ottocento e del Novecento, a cura di G. Caltagirone e S. Maxia, Cagliari, AM&D Edizioni, 2008.

[1] E. Ferrero (a c. di), Primo Levi e Tullio Regge. Dialogo, Einaudi, Torino 1987, pp. 59-61.

[2] Cfr. P. Levi, Potassio, in Id., Il sistema periodico, Einaudi, Torino 1994, pp. 58-59.

[3] Cfr. G. Borri, Le divine impurità. Primo Levi tra scienza e letteratura, Luisè Editore, Rimini 1992, p. 52.

[4] E. Ferrero (a c. di), Primo Levi e Tullio Regge. Dialogo, cit., p. 51.

[5] Levi, Mercurio, in Id., Il sistema periodico, cit., p. 104.

[6] Ivi, p. 107.

[7] Ivi, p. 110.

[8] «[…] se si va oltre le apparenze, il piombo è proprio il metallo della morte: perché fa morire, perché il suo peso è un desiderio di cadere, e cadere è dei cadaveri, perché il suo stesso colore è morto-smorto, perché è il metallo del pianeta Tristo, che è il più lento dei pianeti, cioè il pianeta dei morti» (Levi, Piombo, in Id., Il sistema periodico, cit., p. 91).

[9] Ibid.

[10] C. Toscani, Incontro con Primo Levi, «Il ragguaglio librario», n. 3, 1972, p. 89.

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