PER UN’ESTETICA DELL’IMPURITÀ. 5 Primo Levi e il primato teorico dell’errore

Non occorre certo rammentare che Levi nasce uomo di scienza: chimico, ancor prima che scrittore; la cultura scientifica è per lui un lievito dell’intelligenza, un indispensabile nutrimento dell’anima, un’attitudine mentale che si rivela in ogni sua dichiarazione, in ogni progetto, in ogni pagina scritta.

Con eccezionale precocità, già verso i quindici anni, il giovane Primo sceglieva «di interessarsi di chimica» per il bisogno di indagare sotto la superficie delle cose, di cercare, senza accontentarsi del primo risultato, le “chiavi”, le “formule” capaci di penetrare i segreti della natura:

…perché mi appassionava il parallelismo tra formula scritta sulla carta e quello che avviene nella provetta: mi sembrava già allora qualcosa di magico e la chimica mi sembrava la chiave principale per aprire i segreti del cielo e della terra…[1]

La chimica, dunque, intesa come strumento per «forzare le porte della natura», per scoprire i «sommi veri», per soddisfare quella sete di sapere che muove ogni uomo che possa dirsi tale. Per lo scrittore torinese, l’appartenenza alla “razza” ebraica (impura per definizione…)[2] e il «mestiere» di chimico, di «trasmutatore di materia» (non “professione” – si badi – ma “mestiere” di chi si ustiona le mani o se le sporca tra preparati e limature) sono due fattori biografici fondamentali che lo conducono fatalmente a diffidare del concetto di “purezza” (nell’arte, come nella storia e nella geografia dei popoli) e a preferire il più fertile (e ideologicamente inoffensivo) concetto di “impurità”. Chi opera – come fa il chimico militante – nel campo delle scienze sperimentali sa bene che un elemento lasciato allo stato vergine, non mescolato a nessun’altra sostanza, è freddamente sterile, incapace di qualsivoglia modificazione e, dunque, privo di vitalità. La purezza, la perfezione sono concetti dal fascino equivoco, miti dall’appeal irresistibile, ma anche terribilmente spaventoso; lo ha ben evidenziato Leonardo Sinisgalli (altro scrittore-scienziato) in un suo celebre “dialoghetto filosofico”:

IL RE: L’uovo se non chiudesse dentro il suo guscio una verità ambigua, un dilemma, spaventerebbe la mente nostra.
L’INDOVINO: È infatti così compiuta la sua forma che non sa neppure crescere[3].

La forma compiutamente perfetta dell’uovo susciterebbe apprensione, addirittura ribrezzo, se non celasse al suo interno un mistero commovente, quello della vita. Se la purezza è, dunque, odiosa e scientificamente improduttiva (in quanto sinonimo di staticità, di inerzia, di assenza di vita), le contaminazioni, le mescidanze, gli azzardi, gli errori – anche su questo punto Sinisgalli e Levi concordano – sono, viceversa, procedimenti redditizi e, in base alla moderna epistemologia, ingredienti indispensabili del progresso scientifico. Karl Popper, fondatore di una rivoluzionaria «dottrina dell’errore», attraverso la celebre metafora di «Einstein e l’ameba», spiegava, al principio degli anni ’70, che solo l’animale non impara nulla dai propri sbagli, resta invischiato nelle proprie false soluzioni, ne è vittima inconsapevole. L’essere umano, invece, e ancor di più lo scienziato, segue una logica comportamentale evoluta: sa come trarre profitto dai propri errori, sa discernere con spirito critico il vero dal falso, sa scartare le soluzioni sbagliate e, quindi, è in grado di riprendere ogni volta il proprio cammino di ricerca con un “bottino” di informazioni e di conoscenze in più. Einstein impara dai propri errori, l’ameba muore con essi[4]:

Per noi, dunque, la scienza non ha niente a che fare con la ricerca della certezza, della probabilità o dell’attendibilità. Non siamo interessati allo stabilimento di teorie scientifiche in quanto sicure, certe o probabili. Consapevoli della nostra fallibilità, siamo soltanto interessati a criticarle e a controllarle con la speranza di scoprire dove sbagliano, di apprendere dagli errori e, se abbiamo fortuna, di pervenire a teorie migliori[5].

Insomma, l’uomo di scienza, che procede – secondo la dottrina popperiana – tra “congetture e confutazioni”, ipotesi e smentite, tentativi falliti e successi provvisori, sa metabolizzare le sconfitte, sa affrontare le incognite e gli imprevisti del proprio mestiere senza restare impaniato. Sia pure con una lieve forzatura, Levi chiama in causa gli amatissimi personaggi conradiani, e le loro straordinarie imprese, per descrivere i procedimenti “avventurosi” e i molteplici rischi connessi al mestiere di chimico; l’autore del Sistema periodico è consapevole che manipolare la materia è un lavoro «diversissimo da quello di un capitano di mare», ma pure ritiene molto «simili» questi due mestieri, nel senso che ad entrambi è concesso «un vasto margine di errore»[6]. Il chimico e il capitano di mare, infatti, hanno entrambi il gusto del rischio e dell’avventura! Mettono sempre in conto la possibilità di sbagliare, di «ripetere una prova infinite volte» finché non la si «imbrocca», di esporsi al fallimento confrontandosi di continuo col mondo esterno. E d’altro canto proprio l’eventualità dell’insuccesso, dell’errore e, dunque, il senso di inadeguatezza che ne scaturisce (il pensiero di non farcela…)[7] conferiscono all’individuo – non solo allo scienziato o all’uomo di mare – spessore morale e, soprattutto, dignità umana.

Certo – ammonisce Joseph Agassi – non tutti gli errori sono uguali o ugualmente difendibili! Il noto epistemologo popperiano, infatti, introduce una distinzione tra errori preziosi e “intelligenti” – che permettono di “rettificare” le nostre conoscenze e le nostre azioni nel senso di una sempre maggiore approssimazione al vero – ed errori stupidi e infruttuosi, dovuti unicamente a negligenza, irresponsabilità, inettitudine di chi li commette[8]. Ma Levi non fa distinzioni tipologiche o qualitative quando afferma, perentorio, che:

Chi fa un lavoro in cui non si sbaglia mai è fuori dalla condizione umana[9].

In definitiva, il primato teorico dell’errore – ovvero il riconoscimento della sua indiscussa efficacia pedagogica e redditività concettuale[10] – è pienamente rivendicato da Levi sia sul piano socio–antropologico che su quello schiettamente filosofico. E ciò anche in virtù di una ricca esperienza umana e professionale e di uno stimolante percorso formativo e lavorativo a contatto con scienziati e scrittori, filosofi e operai, intellettuali e dirigenti aziendali.

È stato detto che la congettura erronea e quella esatta, il tentativo riuscito e quello fallito (soli cardini del progresso scientifico, secondo il “criterio di falsificabilità” introdotto da Popper) sono, senza dubbio, i due volti correlati del mestiere di chimico; un mestiere tanto più affascinante se condotto alla maniera antica, al confine tra scienza e alchimia. La chimica amata da Levi, infatti, non è quella praticata dalle grandi équipes operanti nei centri di ricerca delle industrie, ma è «la chimica solitaria, inerme e appiedata, a misura d’uomo» (come leggiamo ne L’altrui mestiere), che parte dall’osservazione naturalistica, si esercita in laboratori solitari tra erbe e medicamenti, cristalli e vetri, rocce e metalli, e approda infine a magnifiche scoperte individuali, spesso affatto casuali, come quelle degli antichi alchimisti. A guardar bene, in questa figura di lavoratore solitario, libero e individualista, spesso vagheggiata da Levi nelle sue note e riflessioni sul mondo del lavoro, sono affatto riconoscibili i tratti distintivi della personalità di Libertino Faussone, l’operaio specializzato protagonista de La chiave a stella che, alla catena di montaggio, ha preferito il lavoro di montatore di gru e di ponti sospesi, per poter girare il mondo e per poter lavorare in autonomia:

Vede, a me non piace né comandare né essere comandato. A me piace lavorare da solo, così è come se sotto al lavoro finito ci mettessi la mia firma[11].

Levi, insomma, ha in grande considerazione l’aspetto manuale, tecnico, artigianale del lavoro scientifico, perché il vero scienziato, il ricercatore, deve essere in grado di manipolare la materia per poterne afferrare la struttura, per misurarne la consistenza, per scorgerne i mutamenti, per poterla espugnare. È ciò che emerge dal dialogo con il fisico Tullio Regge, in cui Levi ricorda la sua “prima volta” in laboratorio all’Università di Torino:

Un’esperienza straordinaria. In primo luogo perché toccavi con mano: alla lettera, ed era la prima volta che mi capitava, anche se magari ti scottavi le mani o te le tagliavi. Era un ritorno alle origini. La mano è un organo nobile, ma la scuola, tutta presa ad occuparsi del cervello, l’aveva trascurata[12].

Ma se la mano è un «organo nobile», indispensabile e finissimo strumento di ricerca, la chimica (che tra le scienze è certamente quella più legata all’aspetto manuale) ha origini decisamente «ignobili, o almeno equivoche». Nel Sistema periodico, infatti, Levi non nasconde un certo ribrezzo per gli esperimenti esoterici degli antichi alchimisti, dei quali condanna l’«abominevole confusione di idee e di linguaggio», il «confessato interesse per l’oro», gli «imbrogli levantini da ciarlatani o da maghi»[13]. Tuttavia è proprio nella contaminazione di verità e superstizione, curiosità e avidità, rigore scientifico e ritualità magica che risiede il fascino di questa scienza dal- le origini antichissime: un fascino ambiguo e sospetto, lontano anni luce dalla «strenua chiarezza», tipicamente occidentale, dell’altra scienza pure amata (ma in misura minore) da Levi, e cioè la fisica. Quest’ultima, Levi se ne accorse presto, può servire a tradurre l’Universo in leggi e numeri, a conferire ordine e chiarezza al «mondo delle apparenze», ma non può svelare «la verità, la realtà, l’intima essenza delle cose»:

La fisica era prosa, elegante ginnastica della mente, specchio del Creato, chiave al dominio dell’uomo sul pianeta; ma qual è la statura del Creato, dell’uomo e del pianeta[14]?

Il fisico, insomma, opera ai limiti dell’inconoscibile, al chimico invece spetta varcare quel limite, è un suo preciso dovere, oltre che una legittima aspirazione; deve riuscire a comprendere la natura in tutte le sue manifestazioni ed espressioni, sfidare la materia e i suoi elementi. L’esigenza di attingere il Vero, di spingersi oltre la cortina delle apparenze, si manifesta molto presto nel giovane e impaziente Primo:

Guardavo gonfiare le gemme in primavera, luccicare la mica nel granito, le mie stesse mani e dicevo dentro di me: “capirò anche questo, capirò tutto […] Troverò una scorciatoia, mi farò un grimaldello, forzerò le porte”[15].

Tuttavia, l’età matura e le tragiche circostanze della guerra e della deportazione, smorzeranno in parte quell’entusiasmo giovanile, o meglio dirotteranno altrove l’intelligenza, la curiosità di Levi, sempre più attratto dal mestiere di scrittore, «sperimentatore» di generi letterari (dall’autobiografia al romanzo, dalla poesia alla novella, dal racconto fantastico alla pura fantascienza), capace di penetrare con gli strumenti della parodia, della riflessione, dell’osservazione paziente i segreti dell’animo umano, con le sue debolezze, le sue manie, i suoi tic:

Levi è un narratore strano. Non rientra in nessuna categoria prestabilita. […] narratore ibrido, impuro, spurio, un vero e proprio centauro del racconto, metà narratore realista metà narratore fantastico[16].

Il mestiere di scrittore condurrà, appunto, il “centauro” Levi verso la dimensione, affatto congeniale, del fantastico: un naturale percorso dalla scienza alla fantascienza, un approdo coerente e prevedibile, se teniamo conto che la fantascienza, per l’autore delle Storie naturali e di Vizio di forma, è «uno strumento non evasivo, pur se divertente, per interpretare la condizione umana», «attraverso la specola scientifica» e «l’intermediazione dell’ironia»[17]. In definitiva, il messaggio che Levi – ex apprendista scienziato, divenuto chimico e narratore – consegna ai lettori è che non bisogna mai rinunciare a capire e a conoscere la verità delle cose, lasciarsi abbattere da una sconfitta provvisoria, arrendersi «alla materia incomprensibile»[18]. Quest’ultima «è viva», mutevole e, dunque, vulnerabile; può essere «madre e nemica, neghittosa e alleata», inerte o pericolosa, l’importante è affrontarla con sicurezza e intelligenza, non temere il rischio[19]:

Non ci si deve mai sentire disarmati: la natura è immensa e complessa, ma non è impermeabile all’intelligenza: devi girarle attorno, pungere, sondare, cercare il varco o fartelo[20].

Il segreto sta forse nella capacità dell’individuo di aderire con assoluta flessibilità intellettuale alla realtà, alla vita, con tutte le sue sfumature, «contraddizioni», «eccezioni», «licenze»; queste ultime non vanno temute o sanate per forza, ma accettate «come un ingrediente immancabile della vita» e, forse, una speranza per il futuro:

…la vita è regola, è ordine che prevale sul Caos, ma la regola ha pieghe, sacche inesplorate di eccezione, licenza, indulgenza e disordine. Guai a cancellarle, forse contengono il germe di tutti i nostri domani…[21]

In virtù della sua «coscienza mescolante» di chimico[22], Levi ha piena consapevolezza dello «stato impuro, dello stato misto della materia»[23], all’interno della quale agiscono, combinati fra loro, tutti quegli elementi che, proprio perché mescolati, e solo in virtù di tale fertile contaminazione, garantiscono la ricchezza e la varietà del mondo e la continuità del ciclo vitale. Ecco perché l’«impurezza», non solo è accettata e preferita da Levi rispetto all’inutile e temibile «purezza» (che si ottiene solo artificialmente, dipanando il “groviglio” di elementi di cui si compone la materia con complessi processi di filtrazione e di distillazione), ma è celebrata quale indispensabile elemento fecondativo che «dà adito ai mutamenti» e dunque alla vita[24]:

Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, com’è noto, se ha da essere fertile[25].

In definitiva, lo scrittore – che pure, da uomo di scienza, ha creduto nell’esattezza e nell’ordine («in me, attorno a me e nel mondo»[26]) come unico baluardo dinanzi al «caos ultimo a cui siamo votati»[27] – ha sempre cercato di mettere in guardia i suoi lettori dal mito «detestabile» (e ideologicamente rischioso…) della «purezza», denunciandone, in più occasioni, il fascino ambiguo e «disgustosamente moralistico»:

…l’elogio della purezza, che protegge dal male come un usbergo; l’elogio dell’impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. Scartai la prima, disgustosamente moralistica, e mi attardai a considerare la seconda, che mi era più congeniale. […] Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape[28].

E, naturalmente, dietro quel «grano di sale e di senape», dietro quella fertile «diversità», si cela lo stesso Levi, giovane studente ebreo all’Università di Torino, fiero – alla vigilia della pubblicazione de la Difesa della Razza – della propria presunta «impurezza»:

…sono io l’impurezza che fa reagire lo zinco, sono io il granello di sale e di senape. L’impurezza, certo: poiché proprio in quei mesi iniziava la pubblicazione di «La Difesa della Razza», e di purezza si faceva un gran parlare, ed io cominciavo ad essere fiero di essere impuro[29].

 

[1] Dall’intervista a F. Camon del 1986

[2] Cfr. P. Levi, Zinco, in Il sistema periodico, Torino, Einaudi, 1975 pp. 3637.

[3] Cfr. L. Sinisgalli, L’Indovino. Dieci dialoghetti, in Id., Furor mathematicus, Milano, Silva, 1967, pp. 567.

[4] Cfr. K. Popper, Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972. Popper, al principio degli anni Settanta, giunse a demolire l’epistemologia empiristica allora in voga, esemplificata dal cosiddetto “circolo di Vienna” e fondata sulla convinzione che partendo da procedimenti induttivi, attraverso una serie di generalizzazioni, è possibile pervenire a leggi scientifiche di valore universale. Nella sua dottrina, Popper confuta il criterio della “verificabilità”, nega cioè che il progresso della scienza possa dipendere da osservazioni di volta in volta verificate, legittimate e trasformate in leggi universali, e propone, di contro, quello della “falsificabilità”: solo attraverso la formulazione di ipotesi, di congetture, di volta in volta confermate o confutate dai fatti, è possibile l’avanzamento delle conoscenze scientifiche. Si veda in proposito l’opera più “rivoluzionaria” del filosofo austriaco: Logica della scoperta scientifica, Torino, Einaudi, 1970.

[5] K. Popper, Scienza e filosofia. Problemi e scopi della scienza, Torino, Einaudi, 1969, pp. 392393.

[6] Intervista a Giuseppe Grassano (17 novembre 1979), riportata in G. Grassano, Primo Levi, Firenze, La Nuova Italia, 1981, p. 5.

[7] Joseph Agassi sostiene che è assolutamente inutile, oltre che insensato, far coincidere l’errore con la colpa: non solo non c’è possibilità di evitare gli errori, ma, se pure fosse data questa possibilità, tutti gli uomini, scienziati e non, si rifiuterebbero di praticarla. Cfr. J. Agassi, Epistemologia, metafisica e storia della scienza, a cura di M. Baldini, Roma, Armando, 1978, e Id., La filosofia dell’uomo libero. Verso una storiografia della scienza, Roma, Armando, 1978.

[8] Sul ruolo e sulla valenza dell’errore in campo scientifico, si veda il numero tematico La scienza e l’errore della rivista «Nuova civiltà delle macchine» (XVIII, 2, 2000), in partic. l’editoriale di Umberto Bottazzini e il saggio di Massimo Baldini, Storia ed epistemologia dell’errore (pp. 820).

[9] Intervista a Giuseppe Grassano, cit., p. 5.

[10] «Ma, come avviene per tutte le espressioni e le costituenti fondamentali dell’esistenza umana, anche il processo di apprendimento, sia quello del saper fare che quello del saper essere, è accompagnato da tentativi ed errori, da sbagli e colpi che raggiungono il segno, da insuccessi e riuscite. […]. L’errore e il vero, in definitiva, fanno tutt’uno con l’essere umano, anzi gli appartengono e costituiscono entrambi fatti logici positivi, nel senso che rappresentano le esperienze e i fatti attraverso i quali egli forma la sua personalità e dai quali trae forza ed energia per cogliere le soluzioni dei suoi problemi e procedere, così, nella ricerca della verità.» (Cfr. G. Zollo, Il valore dell’errore nel processo di apprendimento, Università degli studi di Salerno, «Quaderni del dipartimento di Scienze dell’Educazione», I, 1990, pp. 183203).

[11] P. Levi, La chiave a stella, Torino, Einaudi, 1991, p. 66.

[12] Primo Levi e Tullio Regge. Dialogo, a c. di E. Ferrero, Torino, Einaudi, 1987, pp. 1920.

[13] Levi, Potassio, in Il sistema periodico, cit., p. 55.

[14] Ivi, p. 59.

[15] Levi, Idrogeno, in Il sistema periodico cit., pp. 23-24.

[16] M. Belpoliti, Il centauro e la parodia, in P. Levi, Tutti i racconti, a c. di M. Belpoliti, Torino, Einaudi, 2005, pp. VIIIIX.

[17] Grassano, La «musa stupefatta». Note sui racconti fantascientifici, in Primo Levi: un’antologia della critica, a c. di E. Ferrero, Torino, Einaudi, 1997, p. 124.

[18] Levi, Nichel, in Il sistema periodico, cit., p. 79.

[19] Cfr. Conferenza al Teatro Carignano di Torino, 19 novembre 1976, pubblicata in Poli- Calcagno, Echi di una voce perduta, cit., pp. 92112.

[20] Levi, Nichel, cit., p. 79.

[21] P. Levi, Il rito e il riso, in L’altrui mestiere, Torino, Einaudi, 1998, p. 184.

[22] Cfr. M. Porro, Scienza, «Riga», 13, 1997, pp. 434475.

[23] Cfr. P. Antonello, La materia, la mano, l’esperimento: il centauro Levi, in Id., Il ‘ménage’ a quattro. Scienza, filosofia, tecnica nella letteratura italiana del Novecento, Firenze, Le Monnier Università, 2005, pp. 8788.

[24] Levi, Zinco, in Il sistema periodico, cit., p. 35.

[25] Ibidem.

[26] Levi, Idrogeno, ivi, p. 23.

[27] Levi, Dello scrivere oscuro, in L’altrui mestiere, cit., p. 54.

[28] Levi, Zinco, cit., p. 35.

[29] Ivi, pp. 36–37.

2 pensieri riguardo “PER UN’ESTETICA DELL’IMPURITÀ. 5 Primo Levi e il primato teorico dell’errore

  1. Questo pezzo su Levi e la filosofia della scienza è davvero notevole… Popper però, più che sull’errore in sé, insisteva sul fatto che una teoria, per essere scientifica, deve essere formulata in modo da essere falsificabile (invece di verificabile, appunto), mi pare; e i suoi più grandi nemici erano infatti il marxismo e la psicanalisi, teorie omnicomporensive impossibili da falsificare, per lui. Il concetto di ‘errore nell’epistemologia è affascinante e non spesso sondato in tutte le sue sfaccettaure…Il falsificazionismo “ingenuo” di Popper è poi stato perfezionato da Lakaots per esempio e superato da Khun e Feyerabend che hanno proprio avvicinato la scienza all’arte, entrambe discipline basate sulla creatività più che su errore e verificabilità… E a proposito di kaos… la filosofa della complessità ha lavorato proprio sul ruolo dell’ordine che nasce naturalmente dal disordine…Ritrovare tutto questo filosofeggiare legato a Levi è una riflessione che mi mancava, molto stimolante! Chapeau.

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    1. Carissimo, chapeau lo dico io! Il tuo commento è ricco di spunti che meriterebbero ben altri approfondimenti…nel mio pezzo ho voluto solo offrire qualche suggestione (che tu come al solito hai colto in pieno), ma effettivamente c’è tanto da indagare. Grazie mille e a presto

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