PASCOLI, D’ANNUNZIO E LA RICERCA DELLA FELICITA’ – di Cristina Libertino

 

Cercare a tutti i costi la felicità è un desiderio legittimo. Forse il segreto per raggiungerla sta nel sapersi accontentare, nel riconoscerla nelle piccole cose che ci circondano e nell’affetto delle persone care. Di questo era consapevole il poeta Giovanni Pascoli per il quale la felicità risiede proprio nelle “piccole cose” (oggetti semplici, vita umile della campagna) e negli affetti sinceri, cioè nello spazio chiuso e tranquillo del “nido” familiare che comunica un senso di protezione e tiene lontano il dolore del mondo. In netta contrapposizione con questa idea di felicità c’è quella espressa dal poeta e scrittore Gabriele D’annunzio (contemporaneo di Pascoli), per il quale, invece, la felicità consiste nella “ricerca del piacere”, nel vivere una vita “inimitabile”, con intensità e passione, tuffandosi a capofitto in tutte le possibili esperienze (amori, duelli, debiti) per fare della propria esistenza “un’opera d’arte”. Il confronto tra questi due poeti sul tema della felicità, si riduce quindi ad una semplice domanda: accontentarsi o desiderare? Chiudersi nel proprio mondo per tenere lontano il male o tuffarsi nella vita anche a rischio di soffrire?

Pascoli e D’annunzio, com’è noto, sono i massimi esponenti della poesia decadente italiana, entrambi protagonisti, ciascuno a modo proprio, dell’età giolittiana; ebbero stili di vita completamente differenti e diverso fu quindi il loro rapporto con la politica, con la nascente società di massa, con la guerra, con l’amore, con la natura.

PASCOLI, dopo una breve parentesi socialista, si disinteressò della vita politica preferendo una vita ritirata in campagna con le sorelle, nel tentativo di ricostruire il nido distrutto. Fu estraneo alla vita della Belle époque, concentrato sulla professione accademica e sulla poesia. L’unica occasione di partecipazione politica fu la guerra di Libia (1911), quando scrisse il discorso La grande Proletaria si è mossa, nel quale invitava il paese povero e fatto di operai e contadini a colonizzare il territorio africano per ottenere terre e lavoro. D’ANNUNZIO fu protagonista assoluto della Belle époque, della quale rispecchiò la mentalità e gli ideali. Amante del lusso, delle belle donne e del successo, partecipò attivamente alla vita culturale e politica del suo tempo, frequentando salotti letterari e ambienti mondani, scrivendo per giornali e riviste e influenzando, con i suoi discorsi e le sue azioni, la massa borghese e popolare. In politica appoggiò la guerra di Libia, fu un acceso interventista allo scoppio della prima guerra mondiale, e all’età di cinquant’anni si arruolò dando vita a straordinarie imprese navali e aeree.

Anche rispetto al tema dell’amore, i due poeti ebbero una concezione assolutamente distante:

PASCOLI concepisce l’amore come affetto per i propri cari (vivi o morti). Non c’è nelle sue poesie l’amore verso una donna, anche perché gli furono preclusi il matrimonio e la costruzione di un proprio nido. L’unica poesia in cui si fa riferimento all’amore sensuale e al concepimento è il Gelsomino notturno. I traumi familiari lo porteranno a legarsi in modo ossessivo e morboso alle sorelle Ida e Maria. D’ANNUNZIO pone l’amore al centro di quasi tutte le sue opere narrative e poetiche. Egli intende questo sentimento sempre come un’esperienza raffinata e sensuale. Le donne protagoniste assolute delle sue opere, sono sempre bellissime, eleganti, appartenenti alla nobiltà o all’alta borghesia. Spesso sono seduttrici, “donne fatali” o “donne vampiro”, che conquistano e poi abbandonano i loro uomini. In definitiva anche l’amore (come l’arte, la politica, la guerra) per D’annunzio è un’esperienza estetica, nel senso che deve compiersi tra personaggi affascinanti, ricchi e appartenenti all’alta società.

Sappiamo, infine, che i due poeti ebbero idee diverse anche sul concetto di natura:

PASCOLI rappresenta una natura quieta, fatta di umili cose, di personaggi semplici, di piante, animali e oggetti di uso comune. I paesaggi sono quelli della Romagna e lui li osserva da lontano, non è mai pienamente immerso in essi. D’ANNUNZIO invece, si immerge anima e corpo nella natura, sente se stesso farsi tutt’uno con essa e sente la natura entrare nel proprio corpo; questa fusione con la natura (il cosiddetto “panismo”) è un’esperienza fortemente sensuale, riservata solo al “superuomo”.

A questo punto viene da chiedersi: “chi dei due riuscì ad essere felice?”: Pascoli, rinchiuso nel suo caldo nido, nell’isolamento della campagna romagnola, o D’Annunzio, spirito inquieto, amante instancabile del lusso e delle belle donne, impegnato a costruire il mito della propria esistenza? In cosa consiste la felicità? Nella “tranquilla ossessione del nido” inseguita dal primo o nell“irrequieta fame di vita” del secondo? Probabilmente nessuno dei due è riuscito ad essere veramente felice, in quanto se è vero che la felicità è innanzitutto condivisione, entrambi i poeti (per motivi diversi) hanno sperimentato una profonda solitudine affettiva: Pascoli si rivelò incapace di costruirsi una famiglia propria, D’Annunzio – che aveva amato tanto, ma in modo superficiale – visse da recluso i suoi ultimi anni a Gardone Riviera, prigioniero del suo stesso mito.

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