Se rileggiamo le prime folgoranti poesie del giovanissimo Ungaretti – quelle scritte dietro la spinta emotiva della guerra e con l’urgenza di chi sa di avere poco tempo a disposizione per tirar fuori e mettere su carta quel «grumo di sogni», quel «grido unanime» che preme con violenza alle pareti della coscienza[1] – se rileggiamo, ripeto, quelle poesie giovanili, dalla versificazione essenziale, così irregolare e nuova, ciò che salta immediatamente all’occhio (sul piano dei contenuti) è senz’altro la penosa condizione di «girovago», di «straniero», di «sradicato» più volte proclamata dal poeta, che fatica a trovare la propria identità («in nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare») e a riconoscersi, infine, italiano («Ma il tuo popolo è portato / dalla stessa terra / che mi porta / Italia»). È certo superfluo insistere su questo aspetto, ormai ampiamente investigato, della poesia del primo Ungaretti[2].
Ciò che, invece, preme sottolineare, ai fini del nostro discorso, è come il poeta dell’Allegria tenga a rivendicare, in molte delle sue prime composizioni poetiche, la fecondità e unicità della propria formazione plurilinguistica e multiculturale; un «nomadismo intellettuale» (Saccone) che si traduce, in poesia, nella fiera consapevolezza di essere un prodotto “ibrido”, un miscuglio di razze, lingue, culture diverse, un frutto “impuro” «maturato in una serra», come impure, anzi torbide, sono le acque dei fiumi che hanno “generato” il poeta e nelle quali egli immagina di immergersi, di rimescolarsi ancora una volta (probabilmente per non dimenticare, ed anzi rimarcare, quella propria originaria, vivificante, “impurezza”):
Finalmente mi avviene in guerra di avere una carta d’identità: i segni che mi serviranno a riconoscermi (e proprio nel momento in cui, dopo lunghe peripezie vane, il mio reggimento può balzare in avanti), i segni che mi aiuteranno a riconoscermi da quel momento e di cui in quel momento prendo conoscenza come i «miei» segni: sono fiumi che mi hanno formato. Questa [I fiumi] è una poesia che tutti conoscono ormai […] è la poesia dove so finalmente in un modo preciso che sono un lucchese, e che sono anche un uomo sorto ai limiti del deserto e lungo il Nilo. E so anche che se non ci fosse stata Parigi, non avrei avuto parola; e so che se non ci fosse stato l’Isonzo, non avrei avuto parola originale[3].
Dunque, una naturale vocazione all’“impurità” – che fa tutt’uno con l’irrequietezza e l’insanabile pena del poeta-déraciné e si trasforma, sul piano formale, in insofferenza verso gli istituti metrici tradizionali (impietosamente frantumati e ridotti alla misura del versicolo) – che convive, in continua tensione dialettica, con il suo opposto: un bisogno insopprimibile di ordine e di misura che induce il poeta, una volta “rotti gli argini” del verso classico, a ricostituirli nuovamente attraverso, però, il raggiungimento di nuovi, e più arditi, equilibri formali. Ungaretti, insomma, ci insegna che è possibile recuperare «l’integrità, il vero» – far rifiorire il «canto», far poesia in versi, laddove tutti ricercano la prosa[4] – solo a patto, però, che un’«esplosione» abbia precedentemente ridotto in briciole, in minuscoli frammenti, tutto quanto era preesistente:
L’«appropriazione» ungarettiana del barocco coincide dunque con il passaggio dalla misura franta, dalla dispersione (esistenziale oltre che metrico–prosodica), sancita dai versicoli dell’Allegria, alla ricomposizione formalizzata del Sentimento, all’attingimento di un’integrità e di una verità, conseguenti ad un’esplosione, ad una polverizzazione[5].
L’integrità (quella autentica, profonda, che riguarda l’intima struttura del verso) può esistere, dunque, solo come esito di un percorso, momento sintetico di un processo di distruzione e di ricostruzione. L’ordine, per attuarsi, ha bisogno dialetticamente del disordine, così come ogni cosa, per acquistare sostanza e significato, ha bisogno del suo contrario, lo contiene al suo interno, lo presuppone ogni istante:
Il vero ordine la include necessariamente [l’imperfezione], perché è tale solo quando è in continua tensione contro le forze che tendono a disgregarlo. L’ordine perfetto «puzza», è l’indizio di qualche cosa che non va, che il reale sta esplodendo o inversamente si sta fissando in un’eternità innaturale.
Ritengo che questa lucida osservazione di Cesare Cases, fatta a margine di uno studio sull’«alchimia linguistica» di Levi[6] (amante dei classici, ma anche ammiratore di Rabelais e di Folengo), sia assolutamente pertinente e funzionale anche al nostro discorso sulla versificazione ungarettiana che rivela, al suo fondo, una forte tensione dialettica: da un lato, la ricerca dell’ordine, inseguito spasmodicamente attraverso il recupero meditato della tradizione classica, dall’altro, la consapevolezza che nessuna perfezione, nessun equilibrio, nessun ordine, è possibile se non come momentanea vittoria sul disordine, sulle «forze che tendono a disgregarlo». All’«approdo», insomma, (che è soltanto un miraggio, una sosta temporanea rispetto all’incessante deriva dell’esistenza) ci si arriva quasi sempre al termine di una serie di avventure, di naufragi, di «veri disastri»:
[…] l’uomo in tutte le sue imprese anche quando crede di essere arrivato in porto, sì ci arriva, ma ci arriva da naufrago, ci arriva dopo aver lasciato molte illusioni se non aver subito dei veri disastri[7].
Ma vediamo cosa accade in Sentimento del tempo: qui il poeta sembra voler arginare la tentazione del verso irregolare, imbrigliando la naturale attitudine allo sperimentalismo nelle forme chiuse, levigate, della tradizione lirica classica rappresentata dall’asse Petrarca-Leopardi. Tuttavia la dialettica ordine/disordine, ovvero «la tensione tra ordine e avventura, armonia e dissonanza [che] caratterizza sin dall’inizio, senza mai definitivamente estinguersi, il lungo itinerario poetico di Ungaretti»[8], conduce fatalmente il poeta a riconsiderare, o meglio, a reinventare la classicità alla luce di un nuovo e ineluttabile «principio di furore»:
[…] ma da quando è successo il Barocco, l’arte sembra non possa più rinnovarsi se non per prodezze, riconosciamolo, pazze. Forse accadrà da allora più crudamente; ma la situazione d’invenzione di linguaggio, sempre ha in sé un principio di furore, come sempre quando il trantran della nostra vita s’interrompe, e il nostro vivere si turba, ci fa inquieti…[9]
È in questa chiave, dunque, che va interpretata l’adesione del poeta al barocco che «gli consentirà di esercitare in altro modo – nell’alveo, cioè, di una tradizione alta e legittimata, ma pur sempre discosta rispetto all’asse principale di quella italiana – il suo irrequieto sperimentalismo»[10]. Come già era accaduto negli anni giovanili con la breve infatuazione per i canoni eretici (le «prodezze…pazze»?) dell’arte futurista, attraversata e ben metabolizzata dal poeta, anche l’«“appropriazione” ungarettiana del barocco» – dello stato febbrile, del «sentimento di catastrofe», dell’horror vacui che quell’arte incarna – è dunque la testimonianza palese dell’incapacità del poeta del Sentimento di mettere a tacere definitivamente la sua innata vocazione all’“impurità” (che è desiderio di avventura, di irregolarità, di imprevisto) e lo sforzo invece di travasarla nelle forme ampie e flessuose di una tradizione lirica «alta e legittimata», ma pur sempre percorsa da una forza inquieta e misteriosa[11]:
Il barocco è qualche cosa che è saltato in aria, che s’è sbriciolato in mille briciole: è una cosa nuova, rifatta con quelle briciole, che ritrova l’integrità, il vero[12].
[1] Cfr. G. Ungaretti, Italia, in Id., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a c. di L. Piccioni, Milano, Mondadori, 1992, p. 57.
[2] Cfr. A. Saccone, ‘Italia’ di Ungaretti: identità poetica e identità nazionale, in L’identità nazionale nella cultura letteraria italiana, t. II, a c. di G. Rizzo, Lecce, Mario Congedo Editore, 2001, pp. 191–97.
[3] G. Ungaretti, Ungaretti commenta Ungaretti (1963), in Id., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a c. di M. Diacono e L. Rebay, Milano, Mondadori, 1986, p. 821.
[4] «Ma in quegli anni da noi non c’era chi non negasse valore alla poesia in versi. [Da] noi non si credeva che fosse ormai più possibile scrivere in versi. Si voleva prosa, poesia in prosa. La memoria pareva invece a me indicasse come unica ancora di salvezza solo il canto, e con umiltà tornavo a rileggere Jacopone, Dante, Petrarca, Guittone, Tasso, il Cavalcanti, il Leopardi, cercando nel loro canto un’indicazione che potesse far rifiorire il mio.» (Ivi, p. 824).
[5] A. Saccone, «Vertigini davanti al baratro»: il barocco secondo Ungaretti, in La civile letteratura. Studi sull’Ottocento e il Novecento offerti ad Antonio Palermo, vol. II, Napoli, Liguori, 2002, p. 195.
[6] C. Cases, L’ordine delle cose e l’ordine delle parole, in Primo Levi: un’antologia della critica, a c. di E. Ferrero, Torino, Einaudi, 1997, pp. 7–8.
[7] Saccone, «Vertigini davanti al baratro»…, cit., p. 816.
[8] Saccone, ‘Italia’ di Ungaretti, cit., p. 1
[9] Ungaretti, Góngora al lume d’oggi (1951), in Id., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, cit., pp. 533–34.
[10] Allegri, «Vita d’un uomo» di Giuseppe Ungaretti, in Letteratura Italiana. Le Opere, vol. IV, Torino, Einaudi, p. 448.
[11] Leonardo Sinisgalli, negli anni ’60, con gli occhi rivolti alle strepitose, dettagliatissime, architetture borrominiane e la mente immersa nei Pensées pascaliani, scriverà: «Il Barocco è un’irritazione della pazienza classica un dubbio sull’olimpicità, una saetta nell’empireo della stasi. Estasi allora, febbre e paradosso dell’infinitesimo, dello sfuggente, dell’indivisibile, matematica dei resti, dei flessi, delle cuspidi, disgusto alessandrino del pacifico letargo euclideo.» (Sinisgalli, Calcoli e fandonie, Milano, Mondadori, 1970, p. 123).
[12] Ungaretti, Nota a Sentimento del tempo, in Id., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit., p. 530.