L’articolo di Claudia Crocco sulle Antologie di poesia italiana del XXI secolo (Le parole e le cose, 13 luglio 2017) fa emergere almeno un paio di questioni sulle quali vale la pena soffermarsi e che riassumo così: innanzitutto viene da riflettere sull’opportunità, nell’era della comunicazione globale – “orizzontale e democratica” – di proporre antologie e “mappature”, laddove ai lettori odierni è data la possibilità di navigare in assoluta autonomia, attraverso siti e social, alla ricerca di ciò che più incuriosisce o attrae, senza che vi sia una “guida” (critico/ professore / editore) ad indirizzarli nelle scelte. In secondo luogo, c’è la questione del “posizionamento ideologico” di colui che opera la famigerata selezione di autori e testi; una selezione puntualmente criticata e che suscita sempre diffidenza, per un motivo o per l’altro; ma va da sé che l’allestimento di un’antologia è sempre un’operazione ideologicamente orientata ed è inevitabile che i curatori puntino a costruire un canone del quale, tuttavia, pare che nessuno senta più la necessità.
Allora, che fare? Non credo che la soluzione sia quella di rinunciare alle antologie, considerandole un “oggetto desueto”, così come non credo che la (presunta) democrazia del web possa farci abdicare alla funzione critica. Credo che vi sia ancora bisogno di voci autorevoli, di critici esperti e intellettualmente onesti che siano in grado di tracciare una mappa della poesia italiana contemporanea: l’importante è “giocare a carte scoperte”, dichiarando apertamente la propria posizione ideo-estetica. Va detto inoltre che i lettori di poesia non sono solo gli esperti, gli accademici, i critici, i professori (che i libri di poesie se li vanno a cercare direttamente nelle librerie e/o nella “rete”), esistono lettori giovani e meno giovani ai quali bisogna dare strumenti e coordinate, punti di riferimento per fare delle buone scelte nel mare magnum dei poeti e poetini che proprio nel web hanno trovato l’habitat idoneo per proliferare. A questi lettori poco “attrezzati” la poesia va spiegata, commentata, contestualizzata e per costoro le antologie, con i loro apparati critici, sono ancora indispensabili.
Poi c’è la questione scuola. Come spiegare ai diciottenni di oggi, i cosiddetti nativi digitali, la poesia contemporanea, che non ammette “incasellamenti” ed “etichettature” ed è caratterizzata da una sostanziale anarchia formale? Come dar conto delle nuove modalità poetiche – “fuori canone”, anti-retoriche e anti-classiche – a ragazzi assuefatti alla lettura di Pascoli e D’Annunzio e convinti che la poesia finisca con i montaliani Ossi di seppia? L’impresa è ardua, soprattutto quando si tratta di analizzare le definizioni tipologiche di metrica libera (quella «restrittiva» di Mengaldo e l’altra, fin troppo ampia e inclusiva, di Giovannetti) e di spiegare di volta in volta le opzioni metriche e le scelte retoriche compiute dai singoli poeti, oscillanti tra versi lunghi e versicoli, tra «versi-frase», piegati ad esigenze colloquiali, e versi minuscoli che rivelano un’esigenza di massima concentrazione semantica. Insomma, se vi pare difficile il lavoro dell’esegeta/curatore che deve “mappare” i testi e gli autori più rappresentativi della poesia contemporanea italiana, pensate alla immane fatica dell’insegnante che quei testi li deve “spiegare” a lettori spesso distratti, frettolosi e dalla battuta facile. Una corsa ad ostacoli, una sfida ad armi impari per vincere la quale ogni strada va percorsa, anche se si tratta di prendere in prestito metafore, immagini e terminologia dalla fisica moderna, accostando l’anti-poesia (contemporanea) all’antimateria…
Ma vediamo come. Materia e antimateria sono tra di loro in un rapporto speculare, si corrispondono simmetricamente per quanto riguarda la loro massa, ma le particelle di materia hanno una carica inversa rispetto alle antiparticelle: all’atomo di idrogeno corrisponderà quello dell’antidrogeno, all’elettrone (caricato negativamente) corrisponderà il positrone (che ha carica positiva) e così via. Se la materia viene a contatto con l’antimateria si genera il fenomeno dell’annichilazione, che non significa distruzione, ma trasformazione della materia in energia. Un’energia immensa, incontenibile, tanto difficile da produrre in laboratorio, ma ancor più difficile da immagazzinare, da imbrigliare…
Lo stesso accade alla poesia dopo i Sessanta: la poesia entra in contatto con ciò che prima gli era precluso, si apre all’attualità, alla scienza, alla storia, alla filosofia, accoglie al suo interno anche le risorse dell’arbitrarietà, del gioco, dell’insensatezza, della bruttezza e si “annichila” in qualcosa di diverso e di esplosivo: si trasforma in anti-poesia. Ma se la sfida più audace degli scienziati (penso ai fisici del CERN di Ginevra) è oggi quella di imbrigliare l’antimateria, di catturare e ridurre all’obbedienza le antiparticelle di cui è composta (sfida ambiziosa che abbatterebbe per molti versi il confine tra scienza e fantascienza), la sfida più grande degli esegeti di poesia contemporanea è quella di catturare le strutture dell’anti-poesia, ovvero individuare quel “principio unitario” che lega e tiene insieme quelle esperienze poetiche difformi, particelle anarchiche e sfuggenti, maturate a partire dal secondo Novecento, che costituiscono nel loro insieme non la negazione della poesia, ma una trasformazione di quest’ultima in senso esplosivo.
Gli anni Sessanta, come è stato detto, costituiscono “il punto di non ritorno” il momento in cui assistiamo alla «massima circolazione e concentrazione di vecchi e nuovi surrealismi e dei più svariati sperimentalismi» (Afribo), all’affermarsi delle geometrie non euclidee e del pensiero di Wittgenstein (con la sua “teoria dei giochi linguistici”). In questi anni, la poesia venendo a contatto con il suo contrario, ovvero con tutto ciò che poesia non è (con la quotidianità e con il degrado, con la deformità e la scempiaggine, o anche con la tecnologia, l’attualità, la scienza), è esposta a un’onda d’urto formidabile. La prima conseguenza di questo processo irreversibile è la rinuncia al “grande stile” e al registro sublime. Fenomeno che si accompagna, in quegli anni, ad una sorta di disorientamento generalizzato, di crisi delle tradizionali coordinate spazio-temporali annullate all’interno di un «un universo elastico, fluttuante» nel quale non hanno più senso le tradizionali distinzioni alto/basso, sublime/anti-sublime, razionale/irrazionale, conscio/inconscio. Come ha scritto Giorgio Linguaglossa:
[…] nelle nuove condizioni della temporalità estraniata le stesse parole cadono non più perché soggette alla legge di gravità della sintassi o alla legge della leggerezza delle strutture significanti ma perché sottoposte alla legge della «fluidificazione» del globale e del locale, dove non ci sono più le differenze tangibili e rassicuranti alle quali uniformarsi e uniformare il nostro agire.
In questa nuova condizione (tipica della postmodernità) è inevitabile l’adozione di una nuova prassi poetica aperta alle più svariate forme di contaminazione extraletteraria. Come già scriveva Montale nel ’64, i poeti diventano «inclusivi di tutto»: […] compresa anche la risorsa del nonsense, dell’arbitrarietà e del gioco […]». Contenuti e stilemi provenienti da altri mondi, in apparenza irrelati, irrompono nell’immaginario dei poeti e li inducono ad abbandonare tanto la linea «orfico-sapienziale» (Rebora, Campana, Luzi, Zanzotto) quanto quella «esistenziale» (il primo Montale) della “grande lirica” e a preferire la dimensione “bassa” della comicità, della satira, della parodia (che sono pur sempre “strumenti di difesa”, modi per esorcizzare il fondo tragico dell’esistenza). L’evoluzione del linguaggio poetico di Montale e di Pasolini – che «prima zittiscono rielaborano studiano, e poi ritornano alla poesia con altra voce» (Pietropaoli) – le esperienze dei Novissimi (in primis Sanguineti) testimoniano questo approdo cruciale, vissuto da un’intera generazione di autori, ad una poesia fortemente sperimentale pronta ad accogliere al suo interno tutto ciò che prima gli era assolutamente precluso, comprese l’irrazionalità, la contraddizione, l’insensatezza, il divertissement.
La poesia, insomma, (quella tradizionale, canonica, classicamente impostata) subisce, a partire dagli anni Sessanta, un processo di annichilazione, simile a quello che ho descritto prima a proposito dello scontro tra materia e antimateria. Non scompare, ma si trasforma in qualcos’altro, in qualcosa di potenzialmente esplosivo, in un’anti-poesia dalla carica dirompente, sfuggente e instabile come le particelle di antimateria, e come quest’ultima difficile da imbrigliare. Una poesia «parlata», spuria, contaminata dal contatto con le cose, naturali o artificiali, depotenziata nello stile, costruita per accumulo caotico o depauperata nel lessico fino ai limiti dell’afasia. Esemplare in tal senso il caso di Villa “neo-avanguardista” che dapprima riempie le sue poesie «di suoni parole e lingue» e poi procede per sottrazione verso una lingua sempre più entropica, fatta di monconi e lacerti di parole, ai limiti dell’afasia. Come ha scritto Pietropaoli, l’obiettivo di Villa, negli anni Sessanta, è attingere all’«origine» delle cose, eliminando le sedimentazioni della storia, il punto di arrivo, negli anni Ottanta, è «la felicità del nulla», l’approdo ad un linguaggio poetico totalmente dilacerato, ridotto a brandelli senza senso, monconi di parole galleggianti nella pagina vuota, «feti linguistici» privi di ogni intento significativo: una “non-poesia” come esito estremo (ma non esiziale) dell’anti-poesia.
un dono per Alessandra Otteri
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Il suono della Cenere
Ascese a me la parola intatta dai miei fili inconsapevoli e sul palco il canto
e il suono della Cenere smorzato da serrate labbra e orecchie inascoltate.
Al poeta fu detto: non ti basta più il patibolo, i gradini sono divorati dalle soglie!
Nemmeno un volto cremisi fra tante maschere di gesso e di grassa gelatina.
Cieche, come tritoni nel calvario di luminose oscurità, le stanze se ne andarono
via da me lentamente… battelli in fuga dai moli e dai marosi! Muti gli stendardi. Non avevo che da stordire i gridi dei gabbiani che invano beccavano il sangue
dei tramonti… i rostri pregarono le polene deformi di non sbattere sulle spume.
Come una mazzata disattesa mi crollò quel sangue dal futuro – creature albine
di conoscenza e di fede mi dissero tutto ciò che non ci sconvolse da tutte le disfatte e le condanne… e mi dissero gementi che m’avrebbero restituito gli occhi, ma non le mie visioni! Ero l’unico sano in un cottolengo di dislocati cerebri!
E non pregavano per coloro che non c’erano, soltanto gli assenti non ci stupirono.
Noi che dovremo in questo secolo di genocidi senza fine ristabilire la dolcezza
e sui moli sorridere ai suoni e ai rintocchi della Cenere, proprio noi gli assassinati
da Dio, dobbiamo scannare gli angeli per definizione come in un alogico assioma
interdetto alla finzione! Il suono – di me – della Rovina – in me – dai miei gesti genera le stazioni degli Ossari… avanzi di città noi canteremo… non riconosceremo più i sobborghi dalle macerie, dai suoi fanali arsi di visioni… novembre, novembre degli arcobaleni mai è stato il mese dei morti!… è tutto l’anno in un
secolo s’è ristretto come la legge delle visioni arse dagli occhi – e non mi silenzia il rumore di Dio! Il mio nobile disprezzo per la Storia! Il madrigale s’è oscurato per la Conoscenza! Oriente e Occidente non hanno più i monistici princìpi! E il suono della Cenere è crollato come il sangue dalle sorde ottave alle alcove… gemens, gemens!
Credevo la Conoscenza una presenza di fedeltà, non una figura o una finzione,
ma è un assassinio, un condursi alla forca o al rogo per soltanto dire andiamo a morire da Poeti, allegramente! Si ritrassero le stelle dalla propria luce, l’acqua, il fuoco e l’aria dalla Terra, e l’uomo dagli dei… il Nulla si ritrasse da se stesso,
come il Tutto! Non sono un cinico, disse Ruben, sono assente come una metafora… le figure sono una tortura e non conosco la differenza fra le macerie! Accidia è là dove mi sorprendono con un Pensiero! Il resto non è nemmeno un delirio o un caos… non ho che la mia presenza: vivo per vivere e non per prepararmi a vivere!
Basta con Dio e gli Dei! Con queste fandonie!… sono questi pastori che generano stermini: trionfi dei genocidi e delle Ceneri! Vedrete che mattanza questo secolo! Ci sarà da ridere come in una finzione di cartone, mi diranno solo su un palco è possibile! La realtà è altra cosa… ma i divani sanguinano… è ora di finirla con
questa Terra! È una caduta di stile il Tempo! Come il mancato volo della mia Parola! Al poeta, si disse, non basta più il patibolo, i gradini sono divorati dalle soglie! Nemmeno un volto cremisi fra tante maschere di gesso e di grassa gelatina.
Tento di piantare nel mio giardino un frutteto come Astrov, o come Antonio!
Antonio Sagredo
Maruggio/Campomarino, 4/11/15 agosto 2015
(dal 4 agosto in treno Rm-Br)
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