
La rivista «Il Menabò» (1959-1967) e gli appunti de Le due tensioni (pubblicati in volume nel 1967) rappresentano i nuovi e più urgenti interessi culturali di Elio Vittorini negli anni Sessanta, in concomitanza con una palese crisi della vena creativa. L’impegno etico e politico degli anni del «Politecnico» è ora assorbito in un nuovo tipo di engagement coincidente con un più ampio interesse per le trasformazioni in atto nell’Italia del boom economico e per i suoi riflessi nella letteratura. Per lo scrittore la necessità di un legame stretto, autentico, tra mondo della cultura e società industriale diviene una priorità assoluta: in gioco è la sopravvivenza stessa della letteratura che può acquistare significato e utilità sociale solo a patto di accettare e assorbire in sé il cambiamento.
Le due tensioni
Gli appunti de Le due tensioni risalgono agli anni tra il 1961 e il 1965 e furono pubblicati in volume nel ‘67 a cura di Dante Isella. Pur nella loro asistematicità (si tratta di fogli sparsi, pensieri, riflessioni), questi scritti disegnano un percorso coerente nel tentativo di delineare la nuova funzione della letteratura (e degli intellettuali) alla luce del progresso scientifico e industriale che aveva trasformato il volto del paese (dalla civiltà contadina, rurale a quella urbana, industriale). L’assunto da cui parte Vittorini è che nella storia della letteratura si sono alternate fasi in cui ha prevalso la tensione razionale e altre in cui ha dominato la tensione espressiva:
- La tensione razionale è quella che instaura un rapporto dialettico con la società e cha fa della letteratura uno strumento di interpretazione e di conoscenza della realtà; per Vittorini la tensione razionale è stata presente in letteratura fino al Settecento, quando gli intellettuali illuministi (scrittori, artisti, filosofi) si impegnarono per un radicale cambiamento della società.
- La tensione espressiva invece non tende alla conoscenza della realtà ma è subordinata ad essa, vive una condizione parassitaria. Da Flaubert in avanti, secondo Vittorini, la letteratura è divenuta artificio retorico, esercizio fine a se stesso, ha perso la tensione conoscitiva ed etica che la sorreggeva.
Recuperare la “tensione razionale”, e tentare di riqualificare il ruolo degli intellettuali all’interno della società industriale e neo-capitalistica degli anni ’60, è dunque l’obiettivo dell’ultimo Vittorini che, già nel 1959, con la fondazione della rivista «Il Menabò», puntava alla costruzione di una nuova cultura e ad una ri-progettazione della funzione intellettuale.
Il Menabò» (1959-1967)
Il progetto del «Menabò» nasce tra il 1957 e il 1958, quando, in accordo con Einaudi, Vittorini decide di cessare la collaborazione e lasciare la direzione dei Gettoni. La rivista (della quale escono 10 numeri dal ’59 al ’67) non nasceva da una dialettica di posizioni o da un lavoro d’équipe, ma si presentava come il frutto di un progetto esclusivo dello scrittore siciliano che, intervistato da Roberto De Monticelli nel febbraio del ’59, dichiarava di voler creare una rivista-collana, pubblicata da Einaudi e con Calvino come condirettore. Vittorini parla di rivista-collana perché l’intenzione iniziale dei due scrittori era quella di presentare testi (narrativi, poetici) accompagnati da saggi critici dedicati al problema che il testo sollevava. Da qui la pubblicazione di fascicoli che hanno l’aspetto di corposi volumi monografici. Nel complesso la rivista rappresenta il terreno privilegiato sul quale si svolse l’acceso dibattito sulla crisi culturale in atto in Italia tra gli anni ’50 e ’60 e sui possibili progetti di rinnovamento. La condirezione di Vittorini e Calvino fu caratterizzata da un forte affiatamento soprattutto per i primi tre numeri della rivista (’59-’60) che si ponevano in continuità con la collana dei Gettoni nel desiderio di “lanciare” nuovi talenti letterari (ad esempio Mastronardi e D’Arrigo). Dal n. 4, però, Vittorini dà al «Menabò» un’impronta nuova e sceglie una linea non condivisa da Calvino che, continua a pubblicare sulla rivista, ma non si considera più il suo condirettore. D’altro canto, fin dai primi numeri, Vittorini aveva imposto la sua linea editoriale considerando la rivista una sua “creatura”.
Il n. 4, 1961- Industria e letteratura
Con il n. 4 del “Menabò” dedicato a Industria e letteratura (titolo dell’editoriale) Vittorini intendeva indicare agli intellettuali italiani la strada da percorrere per il rinnovamento, proponendo una sinergia tra due mondi (umanistico e scientifico) ritenuti, fino a quel momento assolutamente irrelati: “non si trattava di parlare di fabbriche o d’industria ma di fare una letteratura del tempo delle fabbriche e dell’industria” (P. Laroche). Insomma, i tempi erano cambiati e occorreva cogliere e farsi interpreti del cambiamento. Facendo un passo indietro, è possibile distinguere tre momenti fondamentali nell’evoluzione del rapporto tra intellettuali e mondo dell’industria:
- Al principio del Novecento il processo di industrializzazione in Italia è appena iniziato: la macchina e la fabbrica divengono idoli, oggetti di esaltazione mitica e di ingenua trasfigurazione letteraria in D’Annunzio e nei futuristi;
- Negli anni del regime l’Italia comincia ad assumere una fisionomia di paese industriale, ma gli scrittori – arroccati nella “torre d’avorio” della letteratura – se ne disinteressano.
- Nell’immediato dopoguerra le priorità degli intellettuali sono altre: il racconto della guerra e della Resistenza; il dibattito sull’”impegno”. Solo verso la metà degli anni ’50, in concomitanza col “miracolo economico”, il processo di sviluppo tecnologico-industriale del paese coinvolge tutti, anche gli scrittori. Si fanno più evidenti gli squilibri Nord/Sud; campagna/città; mondo operaio/mondo contadino; acquistano un nuovo ruolo i mass media. Nasce l’industria culturale.
Dinanzi a tali trasformazioni gli intellettuali non possono restare a guardare, il loro ruolo inevitabilmente cambia:
- Assistiamo alla fine dell’engagement, ovvero del ruolo di mediazione politica ed ideologica degli scrittori, oramai affidato a “specialisti”: politici di professione, sociologi, storici.
- Scompare il mestiere del “letterato puro”: scrittori e poeti sono assorbiti nell’industria culturale (editoria, giornali, televisione) o nelle istituzioni scolastiche o universitarie
- Emerge la figura dell’intellettuale “integrato” nel mondo della fabbrica, assoldato negli uffici di pubblicità delle grandi industrie (Olivetti, Eni, Pirelli, Finmeccanica) allo scopo di trasmettere un’immagine colta, positiva, rassicurante del mondo della fabbrica (pensiamo al Sinisgalli di «Pirelli» e «Civiltà delle macchine»).
- Sul fronte opposto emergono gli intellettuali “apocalittici”, pronti ad attaccare l’universo industriale, in modo radicale, denunciandone il carattere alienante, onnivoro e distruttivo.
In questo scenario nuovo e complesso, Vittorini prova a mettere ordine e a trovare una soluzione “progressista”: la creazione di un neo-umanesimo scientifico e tecnologico. Per Vittorini il mondo dell’industria non è né buono, né cattivo, non va giudicato aprioristicamente e non va identificato semplicisticamente con il capitalismo. Gli scrittori dovranno farsi interpreti di quel mondo, non prelevando tematiche e personaggi, ma piuttosto ricercando un nuovo linguaggio capace di esprimere la realtà industriale e le sue implicazioni. L’impegno dello scrittore è ora quello di combattere alienazione e disumanizzazione non con attacchi esterni e velleitari, ma “dall’interno”. Vittorini propone una nuova “ideologia della tecnica”: tra mondo della cultura e realtà industriale deve stabilirsi un rapporto operativo:
- l’industria deve diventare “umana”, veicolo di progresso sociale
- la letteratura deve diventare “razionale”, scientifica, progressista.
In definitiva, il programma di Vittorini, pur partendo da premesse oggettive e condivisibili, si mostrava utopistico e ingenuo, incapace di cogliere il problema di fondo della modernità, ovvero la condizione alienata (ormai in modo irreversibile) degli intellettuali e la loro progressiva emarginazione sociale.