Mi riaggancio nuovamente al dibattito sulla crisi (vera o presunta) della poesia contemporanea, con questo articolo (che pubblico in due parti) su un genere poetico che, pur avendo antiche origini italiane, si è diffuso soprattutto in area anglosassone, mentre, ahimè, ha avuto scarsa fortuna nella nostra “serissima” nazione, almeno fino alla seconda metà del Novecento (quando è riaffiorato con le “fanfole” di Fosco Maraini e le “poesie con animali” di Toti Scialoja). L’argomento mi sembra più che mai attuale, in quanto, oggi, nelle contorsioni e/o distorsioni verbali di molti poeti contemporanei e nella loro ricerca insistita di effetti fonico-ritmici mi sembra di poter individuare “tracce di nonsense“…
Il genere del nonsense poem o nonsense verses (con le sue “impertinenze” semantiche, i paradossi, le incongruenze e i giochi di rime) è comunemente associato al mondo anglosassone dove, in effetti, è possibile risalire agevolmente ad una tradizione codificata che avrebbe il suo punto di partenza nel XVII secolo e il suo momento clou nell’Inghilterra vittoriana con i limericks[*] di Edward Lear e il capolavoro di Lewis Carroll Alice nel paese delle meraviglie. Tuttavia in anni recenti, è emersa la possibilità di tracciare una mappa più antica, e soprattutto italiana, del genere nonsensico che avrebbe addirittura la sua nascita ufficiale nella Firenze del XV secolo con i sonetti del Burchiello. Questi ultimi godettero di una larghissima circolazione nella seconda metà del Quattrocento e in tutto il Cinquecento, non solo in Italia (si pensi all’influenza che ebbero sul Pulci, su Lorenzo de’ Medici e sulla scuola bernesca), ma anche all’estero, esercitando una profonda suggestione sulle letterature d’oltralpe. Se Zaccarello ha riscontrato in Francia «l’evidente presenza del Burchiello in alcuni componimenti di Mellin de Saint Gelais» – mentre «per la Spagna, Spitzer aveva già indicato calchi burchielleschi in Lope de Vega»[1] – ancor più evidente è il debito della moderna letteratura inglese nei confronti del poeta fiorentino:
La fortuna di Burchiello fuori d’Italia è un tema che […] aspetta ancora di essere esplorato sistematicamente. Noel Malcom, tuttavia, ritiene che John Hoskyns (l’iniziatore del filone nonsense della letteratura inglese secentesca) dovesse avere ben presente quel modello […][2].
Posta, dunque, l’indubbia rilevanza della “funzione-Burchiello” nell’ambito della poesia rinascimentale italiana e, direttamente o indirettamente, in quella europea, va però detto che mentre in Italia, almeno a partire dagli anni della Controriforma, il genere del nonsense non ha trovato l’humus adatto per fiorire e svilupparsi, finendo per essere escluso dalla letteratura “alta” e relegato, insieme ad altri esempi di poesia “irregolare”, ai margini della cultura ufficiale, in area anglosassone, come abbiamo detto, il filone della letteratura nonsensical non ha avuto difficoltà ad affermarsi nel corso del XVII secolo e ad assumere successivamente, nell’Inghilterra vittoriana, una forma stabile e codificata. Fattori antropologici (spirito libertario e individualista del popolo inglese) e motivazioni socio-politiche (reazione al moralismo borghese dell’età vittoriana) sarebbero, dunque, all’origine dello straordinario successo dei limericks di Edward Lear (la prima edizione del Book of Nonsense è del 1846) e, soprattutto, del romanzo Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, autentico capolavoro del genere, il cui autore Lewis Carroll (pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson) fu definito dallo scrittore e polemista inglese Gilbert Chesterton (nella sua Difesa del nonsense del 1901) «prototipo» della moderna letteratura nonsensical:
[…] la sua [di Carroll] stravagante doppia vita, in terra e nel paese dei sogni, mette in evidenza l’idea che si cela dietro il nonsense: il concetto di evasione, una sorta di fuga in un mondo in cui le cose non sono orribilmente fisse in una eterna appropriatezza, dove le mele crescono sui peri e ogni strano tipo che incontri ha tre gambe. Lewis Carroll, vivendo un’esistenza in cui avrebbe sicuramente tuonato contro chiunque calpestasse il tratto di erba sbagliato, ed un’altra in cui si sarebbe dilettato a definire verde il sole e azzurra la luna, era, appunto per la sua duplice natura – il piede in entrambi i mondi – il prototipo del moderno nonsense[4].
La secolare tradizione delle nursery rhymes, le filastrocche popolari destinate all’infanzia, tramandate oralmente di generazione in generazione, e la presenza di una straordinaria genealogia di narratori umoristi (dallo Sterne del Tristram Shandy al poeta irlandese Swift con i suoi pamphlet satirici, dal Dickens del Circolo Pickwick al Thackeray del Falò delle vanità) avevano già preparato il terreno al successo del romanzo di Carroll che, quando apparve sulla scena letteraria inglese nel 1865, non ebbe difficoltà ad incontrare i gusti di un pubblico (adulto e infantile) dotato di un innato sense of humor e abituato a godere con naturalezza di un nonsense, come di una tazza di tè. D’altro canto, è proprio questo l’unico approccio possibile alla letteratura nonsensical inglese! Per poter gustare un limerick o una pagina di Alice occorre innanzitutto lasciarsi trasportare con scioltezza, senza opporre resistenza e senza far domande, in una sorta di “universo parallelo” nel quale i comportamenti assurdi dei personaggi leareani e carrolliani sono raccontati con tono «ovvio, tranquillo, privo di qualsiasi moto di stupore»[5], senza partecipazione emotiva o ammiccamenti; solo così può scaturire lo humor ed evitare, al contempo, il senso di fastidio o irritazione o imbarazzo che gli strampalati omini e animali che popolano le pagine di quegli autori possono suscitare in un lettore posto “sulla difensiva” e armato solo degli strumenti della logica comune. Come già notava Carlo Izzo, primo traduttore italiano di Lear, se in treno un inglese vede un signore davanti a sé spalmarsi la testa di miele, penserà senza minimamente scomporsi che quel tale ha trovato un nuovo rimedio alla calvizie (e non gli chiederà quale per rispetto della privacy); un italiano, invece, giudicherà folle quell’azione, penserà “il tizio è matto” e cercherà di cambiare posto! La differenza è tutta qui: nell’atteggiamento diverso che inglesi e italiani mostrano nei confronti di ciò che scarta rispetto alla norma e viola le leggi convenzionali che regolano le azioni e le parole degli individui di una comunità:
Noi siamo cattolici mediterranei e meno pronti a rompere le convenzioni, che accettiamo in genere come “patti magici”. L’anglosassone vuole assumere ogni esperienza nella propria coscienza e risolverla come fatto personale[6].
Ciò detto, non sorprende l’accoglienza, inizialmente fredda, riservata ad Alice in Italia, “schiacciata” tra l’incomprensione dei lettori e la diffidenza dei critici:
La diffidenza per le storie prive di morale si spingeva fino a guardare con sospetto anche le fiabe tradizionali. Il moralismo cattolico da una parte e il bisogno da parte dello Stato di instillare il senso del dovere e l’amor di Patria nei piccoli sudditi del Regno e dell’Impero italico bastano a giustificare le critiche da parte dei benpensanti e della cultura ufficiale, e non stupisce dunque più di tanto che Alice non abbia avuto allora grande diffusione[7].
Stessa sorte per i limericks leareani che, accolti con straordinario favore in Inghilterra, hanno avuto in Italia una travagliata storia editoriale (ricostruita da Martino Negri):
In Italia la fortuna del limerick è iniziata molto più tardi che in Inghilterra, naturalmente. I pochi che ne conoscevano l’esistenza li facevano girare tra gli amici[8], componendone magari a loro volta, soprattutto di salaci, ma fu proprio Carlo Izzo, traduttore nonché curatore dell’edizione tascabile Einaudi, a darne per primo notizia al pubblico, nel 1935, sul numero di novembre dell’Ateneo Veneto. E fu ancora Izzo a portare a compimento la prima traduzione in lingua italiana di tutti i limericks del poeta britannico, pubblicata nel 1946 dalla casa editrice Il Pellicano di Vicenza con il titolo di Il libro delle follie; nel 1954 l’editore fiorentino Neri Pozza – che un paio d’anni più tardi avrebbe pubblicato la prima edizione della Bufera di Montale – ne rimise in circolazione le copie invendute, ritirate poco tempo prima dall’editore vicentino che aveva chiuso i battenti. Nel 1970, infine, Einaudi ripubblicò la traduzione di Izzo – con testo originale a fronte – nella prestigiosa collana “I millenni”, sancendone definitivamente il successo anche nel bel paese: nella stessa collana figuravano i maggiori classici della letteratura per l’infanzia, dalle favole di La Fontaine alle fiabe dei fratelli Grimm, da L’isola del tesoro di Stevenson al Giro del mondo in ottanta giorni di Verne[9].
In definitiva, quasi un secolo è occorso perché pubblico e critica si accorgessero, in Italia, del libro di Lear (sia pure relegato nell’ambito della letteratura per l’infanzia assieme a La Fontaine e ai fratelli Grimm). Non vi è dubbio che, al contrario di quanto è accaduto nel mondo anglosassone, la forte tradizione classicista e l’“eccesso di serietà” della nostra cultura ufficiale, abbiano in un certo senso bloccato il libero fiorire di un filone letterario nonsensical (almeno fino all’inizio del secolo scorso), ottenendo come risultato l’emarginazione culturale di molti poeti e scrittori, liquidati come autori per l’infanzia o bollati come “irregolari” o “eterodossi” in quanto operanti al di fuori del canone letterario vigente e dell’ortodossia linguistica. Come ha scritto Enrico Malato – in occasione di un convegno sugli “Irregolari” nella letteratura (Catania, 2005) – anche se ogni epoca «stabilisce i propri “canoni” […] secondo un ideale estetico sistematicamente fondato sulla razionalità, l’armonia, il rigore», fortunatamente «produce poi anche più o meno “scandalose” infrazioni alle regole del canone»[10]; pertanto, in ogni letteratura, anche la più seria e codificata, agiscono «quelle forze centrifughe che Bachtin ha chiamato “carnevalesche”, che poi danno alla letteratura il suo aspetto proteiforme, la costringono, tramite gli strumenti della satira, della parodia, del grottesco, ad evolversi»[11]. La mappa degli “irregolari nella letteratura” tracciata da Enrico Malato nell’introduzione agli Atti dell’omonimo convegno catanese, appare piuttosto articolata, includendo – a partire dal Medioevo cristiano e giungendo fino ai giorni nostri – tutte le possibili forme di eversione rispetto al canone ufficiale: parodia, satira, dissacrazione religiosa, vituperia, gioco verbale, espressionismo e pastiche, doppio senso osceno, nonsenso:
[…] Il Medioevo si affaccia, insomma, alla letteratura “laica” del nuovo millennio in chiave di “deviazione” dalla “regola” dell’osservanza non tanto dei modelli letterari tradizionali, quanto dell’ordine sociale costituito […]. Poi la pratica si estende, e si moltiplica nei modi e nelle forme in cui si esprime. Si va dai piú irriverenti esperimenti di parodia – quali le descrizioni della vecchia o della pastorella, o la poesia misogina, antimodelli muliebri della poesia cortese e della donna angelicata; le dissacrazioni religiose, tipo Cena di S. Cipriano, Missa gulonis, Petenostre du vin, ecc. –, fino al celebre Credo di Margutte. L’asprezza del linguaggio, fino al limite, e oltre, dello scabroso e dell’osceno, è assunta come strumento di una pratica eterodossa: tali i vituperia e le tenzoni poetiche dei “maestri” della satira Rustico Filippi e Cecco Angiolieri, la tenzone fra Dante e Forese Donati, o quelle, ormai rinascimentali, con protagonisti come Leon Battista Alberti contro Burchiello, o Luigi Pulci contro Matteo Franco. Altre volte l’eversione è gioco dissacrante, è il gratuito piacere dell’assurdo o delle infrazioni linguistiche o metriche: le fatrasies e i fatras francesi, il Bisbidis di Immanuel Romano, le frottole, i gliommeri, la poesia del nonsenso o la inesauribile fucina linguistica del “genio” Burchiello (ma François Villon non è da meno), che ha poi lasciato stuoli di epigoni, con caposcuola cinquecentesco Francesco Berni. Oppure è il degradato immaginario fisiognomico, gastronomico e sessuale, esibito nel genere in cui imperversa il doppio senso osceno: il canto carnascialesco. Naturalmente sono implicati anche gli “antigeneri”, tipo la Nencia di Lorenzo, o gli “antipoemi”, tipo il Roman de Renart, il Morgante o il Gargantua et Pantagruel di Rabelais; oppure satirici e iconoclastici burloni, tipo il tedesco Till Eulenspiegel o il pícaro spagnolo o il nostro Pasquino. E irregolare è certo quella poesia che Croce ha chiamato «dialettale riflessa» e Contini «espressionistica», piú specificamente macaronica e dialettale pavana (Folengo e Ruzzante), ma anche napoletana, bolognese, lombarda, romanesca, ecc., che, in qualche modo, si protrae fino a Gadda. È appena il caso di ricordare, poi, che tutto il Barocco è, per antonomasia, una ricerca di infrazioni atte a creare “maraviglia”. Segue, storicamente, l’“irregolarità” come contestazione non solo letteraria, ma anche ideologica: gli Scapigliati e molte delle avanguardie, a cominciare dalle sistematiche provocazioni di futuristi (da Marinetti e Majakovskij a Palazzeschi), di dadaisti e surrealisti, fino ad avanguardie a noi piú vicine (dal Gruppo ’63 all’OuLiPo). Altre volte l’irregolare è un isolato nei suoi esperimenti autarchici di dissacrazione e reinvenzione: tali, poeti e scrittori di culto, da Bataille, Artaud, Céline, a Leiris, Perec, Manganelli, allo stesso Joyce; recuperando anche geniali irregolari a lungo trascurati: dall’inglese Edward Lear, con i suoi gustosissimi nonsenses che sono i limericks, al nostro Sandro Sinigaglia, trionfo del liberatorio gusto del gioco, dell’eterno jongleur[12].
La straordinaria ampiezza di questa mappa, costellata di autori “cardine” della letteratura occidentale (da Burchiello a Rabelais, da Joyce a Gadda), rivela l’estensione del fenomeno, tutt’altro che irrilevante, e dimostra quanto le spinte centrifughe, le derive eterodosse, i linguaggi che “scartano” dai modelli standardizzati, siano di fondamentale importanza per l’apertura di nuovi spazi di comunicazione e di espressione artistica. Non può sfuggire, inoltre, in questa lunga “carrellata” (massimamente inclusiva) la posizione centrale, da caposcuola, occupata dal «genio» Burchiello nell’ambito di una ricca tradizione di autori “irregolari” che hanno rovesciato, parodiato, “profanato” il canone ufficiale e inteso la letteratura come gioco dissacrante e liberatorio; una tradizione tutta italiana e alquanto variegata, ma «ancora poco indagata. Forse perché troppo anticanonica in una storia letteraria considerata fin troppo classicista, o perché ritenuta poco rappresentativa»[13]. In tal senso dobbiamo dare ragione a Giuseppe Tomasi di Lampedusa che, in una sua lezione di storia della letteratura inglese, alla metà degli anni ’50, affermava che «la letteratura italiana è la più seria delle letterature» e la meno disposta ad accogliere le bizzarrie linguistiche di autori non canonici. «Un libro che sia nello stesso tempo ben scritto e umoristico si può quasi dire che non esista», dichiarava lo scrittore siciliano, non senza rammarico, e aggiungeva che, mentre in Italia «siamo costretti a fingere di sbellicarci per l’umorismo con il quale è disegnato Don Abbondio»,
in Inghilterra lo scrittore comico ha da circa cento anni scelto la strada del nonsense, della cosa scritta che non ha senso alcuno, formata da un (apparentemente) fortuito accozzamento di associazioni le quali, suscitando una serie di immagini disparate, riescono ad un effetto talvolta fortemente umoristico[14].
«Chi non è capace di ridere di un limerick in fondo non capirà mai nulla dell’Inghilterra e della sua letteratura» – proseguiva Tomasi – preoccupandosi di risalire alle origini della tradizione comica anglosassone, di spiegare la struttura del limerick (definito «la brama dell’avventura trasportata nel campo verbale») e dando egli stesso un esempio, in inglese, del genere:
There was an old lady in Grantley
who kept all the crumbs in her pantry,
and when neighbours came and offered her game
off she went, made a crumb pie for Lent,that clever old lady in Grantley[15]
L’amara conclusione cui perviene l’autore del Gattopardo non lascia spazio a dubbi circa la sua forte ammirazione per la letteratura nonsensical inglese e, al contempo, la totale sfiducia verso i lettori italiani, troppo austeri e severi, a suo parere, per apprezzare l’irrazionalità e l’assurdo del nonsense verse:
Sono sicuro che questa mia incitazione al nonsense letta ad un certo numero di giovani palermitani sui quali pesa ancora la nube di fumo dei roghi della Controriforma non avrà nessun risultato. Il nonsense qui non può aver successo[16].
(continua)
[*] I limericks sono brevi componimenti di 5 versi (a ritmo giambico anapestico, con schema AABBA) appartenenti alla tradizione popolare umoristica inglese. Contengono storielle minimali, “strampalate”, costruite mediante il ricorso ad una logica visionaria e allucinatoria. La struttura dei versi è rigida, pur nella sua estrema semplicità, e si ripete, con poche eccezioni, sempre uguale: nel primo verso compare il personaggio (Old Man / Young Lady / Old Person / Young Person) e si cita il luogo geografico (scelto per ragioni fonetiche) da cui proviene o in cui si svolge l’azione; nel secondo verso il personaggio acquista tratti caratteriali e/o fisici; nel terzo e quarto verso si sviluppa il racconto (spesso in forma dialogica); il quinto verso ripete, alterandolo, il primo e riporta l’attenzione sul personaggio protagonista al quale viene attribuito un aggettivo che lo connota. Riportiamo a mo’ d’esempio un limerick leariano tratto dal suo Book of nonsense: “There was an Old Man of the Hague, / Whose ideas were excessively vague; / He built a balloon / To examin the moon, / That deluded Old Man of the Hague.” [C’era un vecchio di Praga / Dalla mente quanto mai vaga; / Costruì un aeronave di fortuna / Per osservare la luna, / Quell’illuso vecchio di Praga].
[1] Cfr. Giuseppe Antonelli, Il nonsoché del nonsenso, in Aa.Vv., «Nominativi fritti e mappamondi». Il ‘nonsense’ nella letteratura italiana, Atti del convegno di Cassino, 9-10 ottobre 2007, a cura di G. Antonelli e C. Chiummo, Salerno Editrice, Roma 2009, pp. 19-20.
[2] Ivi, p. 19. Si veda quanto scrive Noel Malcom a proposito dell’influenza esercitata sui poeti inglesi dalle rime burchiellesche in The origins of english nonsense, Fontana-H. Collins, London 1997, alle pp. 76-77.
[3] Cfr. Adele Cammarata, “La Gran natica dell’Aringa”. I giochi di parole in Alice’s Adventures in Wonderland. Traduzioni italiane a confronto, @dic edizioni & Lulu.com, 2007, pp. 5-6. (http://www.lulu.com/items/volume_42/614000/614827/2/print/614827.pdf)
[4] Gilbert K. Chesterton, Difesa del nonsense (1901), in Il bello del brutto, trad. it. di Paolo Sestini, Sellerio, Palermo 19852, pp. 44-45.
[5] Carlo Izzo, Umoristi inglesi, Eri, Torino 1962, p. 71.
[6] Andrea Rauch, La mia infanzia sono io…, in Toti Scialoja, pittura e poesia. Opere su carta, catalogo della mostra, Accademia Nazionale di San Luca, Roma, 26 novembre 2004-8 gennaio 2005, De Luca Editori d’Arte, Roma 2004, p. 78.
[7] Cammarata, “La Gran natica dell’Aringa”…, cit., p. 6.
[8] Negri ricorda che Fosco Maraini usava i limericks di Lear «come espediente per tener desta l’attenzione dei suoi allievi d’inglese, i cadetti dell’Accademia Navale di Livorno» (Cfr. Fosco Maraini, Case, amori, universi, Mondadori, Milano 1999, p. 260).
[9] Martino Negri, Umori d’Albione: Il ‘libro dei nonsense’ di Edward Lear, «Erewhon», 2004. (http://erewhon.ticonuno.it/inverno2004/Lear.htm).
[10] Enrico Malato, Introduzione al Convegno, in Aa.Vv., Gli “irregolari” nella letteratura. Eterodossi, parodisti, funamboli della parola, Atti del Convegno di Catania, 31 ottobre-2 novembre 2005, Salerno Editrice, Roma 2007, p. 12.
[11] Ibidem. «Al di là della difficoltà di delineare una definizione della “irregolarità”, dunque, di circoscriverne l’àmbito in modo netto, è possibile individuare una serie, un’ampia gamma di esperienze storiche in cui si riconosce una certa, intenzionale, piú o meno forte deviazione da quella che era la “norma” comunemente intesa nel contesto in cui quel prodotto letterario ha visto la luce […]» (Ivi, p. 14).
[12] Ivi, pp. 12-14.
[13] Giuseppe Antonelli e Carla Chiummo, Premessa, in Aa.Vv., «Nominativi fritti e mappamondi»…, cit., p. 8.
[14] Cfr. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, sez. Letteratura inglese, in Id., Opere, introduzione e premessa di Giocchino Lanza Tomasi, Mondadori, Milano 1995, pp. 1167-1169.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.
Davvero interessante questo pezzo, aspetto la seconda puntata. Un slauto
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Grazie! La seconda puntata uscirà tra qualche giorno…aspetto un tuo commento!
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