La prima parte di quest’analisi sulle controverse vicende che hanno portato alla fondazione del romanzo nel nostro paese – avvenuta in ritardo rispetto ai paesi d’oltralpe, tra resistenze, pregiudizi e parziali successi – si era conclusa con un accenno al romanzo simbolista (“autocelebrativo” e “propagandistico”) di D’Annunzio, che rappresenta, per tanti versi, l’approdo estremo (esiziale) della grande stagione narrativa ottocentesca, inaugurata da Manzoni e proseguita (su altri binari) da Verga. Facendo, quindi, riferimento alle opere principali di questi autori canonici e volendo individuare i caratteri fondamentali della forma-romanzo nell’Ottocento – ovvero quegli elementi che, pur nella palese diversità ideologica e formale dei singoli autori, ricorrono in tutte le opere del periodo storico in oggetto – possiamo proporre questo elenco sintetico:
- importanza della trama (lineare)
- vicende raccontate in ordine logico-cronologico (con inserimento di flashback e digressioni che però non interrompono la consequenzialità dei fatti narrati)
- storie perfettamente intellegibili e inserite in strutture concluse
- narrazione in terza persona
- presenza di un narratore (onnisciente o impersonale) che garantisce verosimiglianza
- presenza di intreccio e azione, secondo la logica causa/effetto
- presenza del personaggio-eroe cui si contrappone un anti-eroe
- attenzione alla psicologia dei personaggi
Al principio del Novecento, tuttavia, assistiamo a profonde trasformazioni nella società e nella cultura europea che si riflettono nella struttura e nel linguaggio dei nuovi romanzi. Freud, Einstein, Bergson rivoluzionano concetti consolidati come quelli di coscienza, spazio, tempo e di conseguenza anche il modo di interpretare e rappresentare la realtà prende una nuova direzione. E’ corretto dire che il superamento dell’estetismo decadente avviene attraverso un “ritorno al realismo”, nel senso di un rinnovato interesse per personaggi e ambienti prelevati dal mondo reale (borghese e popolare), ma è il concetto stesso di realtà a mutare radicalmente rispetto al passato, essendo venuta meno la fiducia positivistica in un mondo governato da leggi razionali e quindi intellegibili.
Il relativismo conoscitivo induce gli scrittori del Novecento (Pirandello, Svevo, Gadda, per citare i maggiori) ad abbandonare ogni pretesa di conoscenza e rappresentazione oggettiva del reale, orientandoli piuttosto verso la sua scomposizione e/o deformazione: i dettagli, i frammenti, i particolari a prima vista irrilevanti risultano, ora, più importanti rispetto ad una totalità che appare inafferrabile, inspiegabile. Le trame dei romanzi divengono insignificanti o sono “aggrovigliate” al punto da non riuscire a dipanarne i fili: nei romanzi di Gadda i delitti restano irrisolti, la ricerca delle cause e concause si dilata a dismisura, prolifera in mille rivoli collaterali senza giungere a soluzione. Le storie narrate non hanno più un andamento lineare, ma piuttosto “circolare” o addirittura “spiraliforme”, sono storie che “non concludono”, in cui si ritorna al punto di partenza (penso al Fu Mattia Pascal) o che si avvitano su se stesse senza arrivare a conclusione…il “non finito” diviene la cifra caratteristica di tutta la narrativa sperimentale.
I nuovi romanzi propongono, insomma, un modo assolutamente alternativo di leggere la realtà e di problematizzarla: non c’è più spazio per la dialettica basata sulla contrapposizione (bene/male; eroe/anti-eroe) e sulla conciliazione finale; le contraddizioni, i rapporti di forza, la falsità, il male sono dati incancellabili e sfuggenti a qualsivoglia interpretazione di tipo scientifico: ai romanzieri non resta altro da fare che spostare l’attenzione dall’oggetto al soggetto, dalla realtà esterna all’interiorità del personaggio e indagare altri spazi, quelli della soggettività, dell’interiorità, dell’inconscio (Svevo) o “mimare” il movimento caotico della realtà attraverso una scrittura fortemente espressionistica (Gadda). In questa nuova dimensione, ovviamente, anche il tempo non può essere più quello oggettivo, misurabile, quantificabile che aveva scandito il ritmo “ordinato” del romanzo ottocentesco (con un prima e un dopo); ma è il tempo soggettivo, interiore in cui i dati dell’esperienza si mescolano e si confondono affiorando spesso in modo confuso, parcellizzato, senza alcun nesso di causalità.
In questo mondo disgregato, fluido, privo di coordinate certe, si muovono i personaggi degli anti-romanzi novecenteschi. I personaggi sveviani non sono più né gli “umili” manzoniani (assistiti dalla Provvidenza), né i “vinti” di Verga (privi di qualunque possibilità di riscatto), sono gli “inetti” o i nevrotici, il cui comportamento distonico può essere indagato solo grazie al nuovo strumento della psicanalisi. Alfonso Nitti di Una vita, Emilio Brentani di Senilità, ma anche (sia pure con le dovute differenze) Zeno Cosini della Coscienza di Zeno sono anti-eroi borghesi, desiderosi di affermarsi nella società in cui vivono (massificata, dominata dalla logica del profitto), ma allo stesso tempo incapaci di integrarsi pienamente e di stabilire un rapporto positivo e/o produttivo con gli altri. Anche i personaggi pirandelliani sono, in qualche modo degli “esclusi” (personaggi imprigionati nei “ruoli” imposti dalla società borghese, individui scissi, malati, folli), le cui vicende paradossali possono essere raccontate unicamente in chiave umoristica. Alla tradizione umoristica (sterniana) appartengono anche i romanzi di Gadda, la cui “incompiutezza” deriva, come è stato detto, dall’impossibilità di risalire alle cause ultime delle cose. Come ha scritto Guido Guglielmi, nei romanzi gaddiani “la narrazione prolifera lateralmente: ciò che appare circostanziale subisce una dilatazione enorme, e ciò che è invece l’intreccio centrale della vicenda viene continuamente perso di vista”.[1]
In definitiva, psicanalisi, umorismo, espressionismo appaiono come i nuovi strumenti (gli unici possibili) per rappresentare un mondo frammentato e caotico, privo di certezze/valori/eroi. Ne consegue l’ennesima, inevitabile, “rifondazione” della forma-romanzo, i cui elementi specifici (ben visibili nelle opere dei tre autori sopra citati) possono essere così sintetizzati:
- trame irrilevanti e/o “aggrovigliate”
- strutture non concluse
- particolari e dettagli amplificati
- narrazione in prima persona
- focus sulla vita interiore del personaggio (attraverso lo strumento della psicanalisi)
- fine del nesso di causalità
- soggettivizzazione del tempo; saltano i nessi temporali (prima e dopo)
- uso insistito del monologo interiore e del flusso di coscienza (tecnica che riproduce la libera associazione dei pensieri del personaggio)
- espressionismo linguistico (interferenza e sovrapposizione tra codici e registri diversi)
- presenza di anti-eroi (inetti, malati, psicotici, disadattati), spesso presentati in chiave umoristica
Per chiudere possiamo dire che se nel romanzo classico ottocentesco il personaggio-eroe possiede le coordinate per orientarsi nel mondo in cui è calato e, in un modo o nell’altro, porta a compimento una “ricerca”, nel romanzo novecentesco l’anti-eroe è solo, disorientato, e la sua ricerca resta inevitabilmente incompiuta.
Per quanto riguarda l’evoluzione della forma-romanzo nell’Italia del terzo millennio, la questione è particolarmente complessa e richiederebbe un surplus di indagine, per il momento mi limito a rinviare a questo saggio di Antonio Scurati per il quale “numerosi e rappresentativi sono i libri di scrittori italiani della ‘generazione del dopo’ che al principio del nuovo secolo e millennio cercano un nuovo rapporto con la storia del Novecento, secolo della Storia, di cui si sanno diseredati”.
[1] Guido Guglielmi, Tradizione del romanzo e romanzo sperimentale, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, IV, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 583. Consiglio di leggere l’intero saggio di Guglielmi che contiene un’analisi completa e puntuale del passaggio dal romanzo classico al romanzo sperimentale (qui solo abbozzata).