PER UN’ESTETICA DELL’IMPURITA’. 3 Leonardo Sinisgalli, “poeta viviparo”

Ricollegandomi alla piccola antologia di riflessioni sinisgalliane, uscita il 7 agosto su Italianostoria, pubblico questa nota che riproduce il testo di una comunicazione presentata ad un lontano convegno della MOD  dal titolo “Le forme della discorsività nella poesia del ‘900” (Pescara 2002). Torno, dunque, ad occuparmi del poeta-ingegnere lucano, le cui gustose riflessioni, sulla figura del poeta contemporaneo e sul rapporto poesia/prosa, trovano qui una sistemazione (spero) coerente.

Leonardo_SinisgalliNella postfazione alle Poesie di ieri – l’antologia pubblicata da Mondadori nel ’66 che raccoglie la produzione poetica di Sinisgalli dal 1931 al 1956 – il poeta dichiara di essersi messo “nella condizione di un lettore postumo, il lettore ombra degli anni sessanta-settanta” e di aver operato volontariamente, e non per imposizione dell’editore, dei tagli decisi che riducono a un terzo il numero delle liriche presenti originariamente nei “tre vecchi libri di poesia” (Vidi le Muse, I nuovi Campi Elisi, La vigna vecchia) riproposti da Mondadori. Per quanto riguarda le “pagine superstiti”, quelle risparmiate dalla forbice impietosa dell’autore-curatore, Sinisgalli sostiene di aver dato “solo qualche giro di vite, centesimale, qua e là” ma di averle lasciate sostanzialmente “intatte”. “La poesia è immobile”, afferma subito dopo con tono perentorio, ed aggiunge che “in venticinque anni l’unica vistosa trasformazione è stata la rinuncia, a partire dal ’42, alle maiuscole dei capoversi: che vuol dire il rifiuto della simmetria, l’avvento della poesia-prosa”:

Se qualcuno possedesse la scienza dell’anamorfósi – conclude infine il poeta – potrebbe anche leggere, o perlomeno percorrere, tutto il libro in un attimo, potrebbe istantaneamente ricomporre i labili tratti in una sola immagine.

D’altro canto, per Sinisgalli la poesia è appunto un “sistema d’immagini che si sviluppano non l’una dopo l’altra, ma l’una dentro l’altra, cedendo il minimo alla reversibilità”; immagini tenute salde da un rapporto di forze più che di forme e dotate di una tale coesione e coerenza interna da resistere alle alterazioni del tempo; quest’ultimo può “far crollare i supporti che furono necessari a sorreggere le parole” – leggiamo ancora nella postfazione alle Poesie di ieri – può rendere irriconoscibili “i luoghi, le distanze, gli eventi nascosti sotto le righe” ma la poesia vera “sopravvive come un fantasma”.

Scorrendo l’intera produzione poetica di Sinisgalli dalle prime prove degli anni ’30, vicine all’area ermetica, fino alle ultime raccolte degli anni settanta (Il Passero e il lebbroso, Mosche in bottiglia fino all’ultima, Dimenticatoio, del ’78) non possiamo, tuttavia, credere a quanto afferma l’autore circa la sostanziale “immobilità” della propria prassi poetica. Trasformazioni ci sono state nella poesia sinisgalliana e sono tutt’altro che insignificanti: impossibile, infatti, non sottolineare la differenza tra lo stile asciutto e la brevità antieloquente delle poesie giovanili (pensiamo ad esempio alle 18 poesie del ’36, che tanto piacquero al De Robertis) rispetto al descrittivismo e ai toni colloquiali e discorsivi delle liriche di Vidi le Muse del ’43 o dei Nuovi Campi Elisi del 1947. È proprio negli anni quaranta che Sinisgalli – già autore nel ’36 del Quaderno di geometria cui seguiranno nel ’44 la prima edizione del Furor mathematicus e l’anno dopo quella dell’Horror vacui – elabora un’idea di poesia come metodo, come disciplina rigorosa che richiede “un’attenzione infinita” per non cadere nell’incertezza o nell’approssimazione e che punta alla costruzione di congegni poetici perfettamente calibrati, fondati sui valori della simmetria, della misura, dell’equilibrio. “Nei primi libri prevalse lo spirito geometrico” – dichiarerà Sinisgalli negli anni Settanta – ed infatti la chiarezza e la misura perfetta del verso e la precisione quasi maniacale con cui il poeta ricorda e descrive episodi della sua infanzia in Lucania o della sua giovinezza, trascorsa a Roma tra gli amici poeti e pittori, sono spiegabili proprio con la sua formazione tecnico-scientifica e quindi con la sua adesione ad un modello matematico basato sulla concretezza ed evidenza delle immagini e sull’estremo rigore espositivo. Questi due obiettivi sono raggiunti attraverso l’utilizzo di toni “documentariamente narrativi” (per dirla con Aymone) e con l’indicazione puntuale di nomi, date, luoghi, occasioni che fanno da indispensabile supporto alle parole. Esemplari in tal senso sono le numerose poesie che recano per titolo il nome di una città, di una località, di una strada, o anche una semplice data; basti ricordare, nel primo caso, le celeberrime San Babila, Narni-Amelia Scalo, Via Maqueda, Via Velasca, Genova, Lungotevere, oppure, nel secondo caso, 16 settembre 1943, lungo componimento incluso ne I nuovi Campi Elisi, in cui il poeta ricorda la madre defunta della quale, in apertura, vengono descritti con estrema precisione gli ultimi istanti di vita, i gesti, le parole:

Mia madre diceva il 16 settembre, / poco prima di morire sulla mezzanotte, / che una pulce la pungeva sulla schiena / una pulce pesante come un cavallo. / Una zampa oscura la premeva sul letto. / Mia madre doveva sudare per resistere, / e spirare bocconi, senza aver trovato la forza / di dire una preghiera. […]

Un analogo andamento prosastico e i medesimi toni descrittivi caratterizzano anche altri componimenti lunghi pure dedicati al tema funerario – ad esempio Epigrafe, scritto per la sorella morta ancora bambina – oppure incentrati sul ricordo di amici e familiari come Pasqua 1952 o l’Autobiografia IV entrambe dedicate al padre e incluse nella raccolta La vigna vecchia del ’56. Se è vero, dunque, – come sostiene Vitelli – che Sinisgalli anche nel secondo dopoguerra, quando più pressanti si facevano le richieste di aprire la poesia a istanze di impegno e di realismo “non aveva predisposizione a recepire in forma massiccia e definitiva la tecnica del parlato e la poesia come cronaca”, tuttavia è indubbia la progressiva apertura del suo linguaggio poetico verso forme discorsive, narrative o addirittura “drammatiche” se pensiamo a una poesia come Paese (inclusa ne I nuovi Campi Elisi) in cui la rappresentazione del paese natio con la casa avita, i parenti e i vecchi amici è ottenuta attraverso i discorsi virgolettati tenuti alternativamente dal poeta e dalla sua compagna:

[…] Tu eri molto colpita dal colore delle montagne. / «Forse sono state sotto il mare per millenni.» / «Quaggiù anche i sassi sembrano vizzi, / anche le foglie hanno qualcosa di frusto.» / Uscivano dagli usci le donne coi tizzi accesi. / «Nei nostri paesi il sole cade a precipizio, / la notte è già nei rintocchi della campana di mezzogiorno. […]

È bene sottolineare, tuttavia, che la svolta sinisgalliana degli anni Quaranta verso la poesia-prosa, ovvero verso un linguaggio più vicino al parlato fatto di immagini concrete e sostenuto da un robusto “scheletro discorsivo”, è senz’altro un approdo naturale ma è soprattutto una scelta obbligata in quanto, una volta accertata la crisi irreversibile della parola poetica, Sinisgalli indica come “unica via d’uscita all’inanitè sonore delle vecchie metriche” la prosaicizzazione del linguaggio lirico, ovvero quella “commistione di prosa e poesia” che – come leggiamo nel saggio Intorno alla figura del poeta, datato 1946-47 – “si spiega come il risultato di una sovrapposizione di due curve, l’una armonica (il canto), l’altra rettilinea (il parlato)”. Anche in Calcoli e fandonie (piccola antologia del sapere scientifico ed estetico di Sinisgalli) leggiamo che “la poesia si fa prosaica” e che “nessun poeta si vergogna più di essere insieme racinien e journaliste”: il poeta contemporaneo, infatti, ha rinunciato alla purezza, alla musicalità, alla simmetria del verso e soprattutto ha abbandonato le sonorità cristalline dei vecchi schemi metrici a vantaggio “di una sintassi umana più che divina”, di un saldo “scheletro discorsivo”, “che oggi sorregge buona parte dei moderni edifici poetici”.

Tuttavia con le poesie de La vigna vecchia, del Quadernetto 1954-55, di Cineraccio possiamo già assistere ad un’ulteriore svolta nel percorso poetico sinisgalliano: a partire dagli anni cinquanta, infatti, il linguaggio si fa più asciutto e contratto, i toni narrativi o descrittivi lasciano il campo ad un’essenzialità epigrammatica che spesso rende ardua la decifrazione del messaggio poetico e i componimenti – stavolta brevissimi – diventano talmente lievi che possono essere accostati non impropriamente agli haiku giapponesi (come ha felicemente notato Renato Aymone). Di soli tre versi, ad esempio, sono due componimenti de La vigna vecchia: L’anno nuovo (“Non vuol pesarci / col suo sovraccarico l’anno, / cammina lesto sulle travi.”) e Breve storia (“Piovve tutto l’inverno quell’anno / di scuola, di chiesa, di cortile. / A quell’età bisognava morire”). È con poesie come queste che ci avviamo verso quel “completo decantamento della parola, ai limiti della povertà” che Spagnoletti ha individuato come cifra caratteristica delle ultime poesie, quelle di Mosche in bottiglia (1975) e di Dimenticatoio (1978). Sinisgalli, dunque, prosegue sulla strada dell’essenzialità e della condensazione semantica, ma, se nelle poesie degli anni cinquanta-sessanta la riduzione, la contrazione del discorso, pur essendo il segnale di una crisi incipiente, sembra però far guadagnare ai testi una più concentrata vis poetica, negli anni settanta, col sopraggiungere della vecchiaia, “l’età della dissipazione”, dell’inerzia, dello scarabocchio, la crisi appare ormai irreversibile e – come leggiamo nell’Avvertenza al lettore in Dimenticatoio – le nuove brevissime poesie “sembrano residui, lacerti di composizioni più ampie, trascurate o eluse. […] Rifiuti di un’Opera virtuale, schegge di un sospirato Unicum, monadi nate da un’inarrestabile disintegrazione.”

Siamo qui per dividerci / un’eredità di stenti. / Non spezziamo quello che è intero, / diventa zero

Così recita una breve poesia tratta da Mosche in bottiglia che potremmo leggere anche come una sorta di manifesto poetico dell’ultimo Sinisgalli che ha sperimentato fino in fondo gli effetti di un’eccessiva disarticolazione della materia espressiva; quest’ultima ha subito tagli, “strappi”, “storture” per giungere infine ad un completo disseccamento, ad una “riduzione ai minimi termini” che è avvenuta prima nella coscienza del poeta e poi anche sulla pagina. “Un dito di vino, / una patata, un uovo / da arrostire sulla cenere”, recita un altro componimento di Mosche in bottiglia: il poeta, dunque, non canta più ma si limita a parlare e parla come parlano i vecchi balbettando, con frasi spezzate, dal respiro corto che non solo hanno “poco a che spartire con la poesia” ma addirittura “hanno poco in comune anche con la prosa”; oramai, divenuto vecchio, egli riduce al minimo i propri gesti e si accontenta di allineare e nominare semplicemente i pochi oggetti, le povere cose che occorrono per garantire la sua sopravvivenza, e lo fa pur sapendo bene che tra Nomi e cose (è questo il titolo di una poesia di Dimenticatoio) è avvenuta una frattura irreparabile:

I nomi si sono scollati / dalle cose. Vedo oggetti / e persone, non ricordo / più i nomi. A piccoli / passi il mondo / si allontana da noi, / gli amici scendono / nel dimenticatoio.

Nella poesia Post scriptum, tratta da La vigna vecchia, leggiamo che “A mezza età / il poeta sopravvive, La sua fortuna / durò un soffio, un lampo / la sua grazia”, e anche ne L’amaro tè di Mr. Eliot, lungo componimento in forma dialogica datato 8 dicembre 1961, Sinisgalli afferma che “La Poesia da vecchi / è un vizio, è una malattia / far poesia dopo i vent’anni”: la giovinezza, dunque, è l’età della poesia, con la maturità e poi con la vecchiaia il poeta vede solo crescere la confusione dentro di sé, non guadagna certo la chiarezza e i suoi versi, un tempo limpidi e “senza scorie”, divengono “impuri” in quanto frutto dell’“unione coatta di materie promiscue”.

D’altro canto, Sinisgalli è consapevole che tutta la poesia contemporanea, in quanto prodotto di una lega di poesia e prosa, è per sua natura “impura” e sa anche che un dosaggio errato degli ingredienti può produrre “miserabili intrugli”. L’ispirazione, quindi, c’entra poco con il lavoro del poeta che, quando compone, compie “un’operazione tecnologica” tanto più rischiosa quanto più composita e impura è la “miscela” che egli deve manipolare. Nei Propositi sulla poesia, pubblicati sul «Costume politico e letterario» nel ’45, nel paragrafo intitolato Impurità, Sinisgalli ci mette in guardia da chi considera la poesia “un metallo puro” (“non lo sono neppure le monete più pregiate”) e soprattutto ci rammenta che “un meticciato è redditizio per fortificare le nascite, così come un’aliquota di carbone è necessaria al ferro per renderlo più robusto”. Anche in una pagina di Calcoli e fandonie troviamo ribadita la necessità – per i poeti come per gli artisti o per gli architetti – di lavorare con una “materia impura, fibrosa, granulosa” piena di “nodi, zeppe, ganci”, in quanto “una sostanza omogenea”, una materia uniforme e compatta, non servono a “costruire”; sempre in Calcoli e fandonie, infine, leggiamo che prima di Edgar Allan Poe e della sua Filosofia della composizione la “non-poesia” “era soltanto un detrito, un magma” mentre “dopo di lui è diventata un materiale da costruzione”.

In definitiva, volendo riassumere il percorso compiuto da Sinisgalli nell’intricato scenario della poesia italiana del Novecento, possiamo senz’altro indicare la presenza di almeno due tempi problematici: utilizzando una terminologia da lui stesso inventata, possiamo dire che Sinisgalli nasce poeta oviparo, animato cioè da un forte “senso della misura e della posizione”, ovvero da un tenace spirito geometrico che lo induce, giovanissimo, ad aspirare ad un tipo di poesia pura intesa – alla maniera di Valéry – come un rigoroso esercizio formale; ma è con l’età matura, a partire dalla metà degli anni quaranta, che Sinisgalli si scopre poeta-viviparo, autore cioè di versi sghembi, asimmetrici, fragili che tradiscono la sua “sostanza bestiale”, ovvero la sua maggiore dimestichezza con tutto ciò che appartiene alla sfera del corpo più che a quella dell’intelletto. Dopo aver conosciuto, in giovinezza, i “paradisi” offerti dalla geometria euclidea e dal calcolo “sublime” (“Oh i facili numeri, la buona regola, / la calma di una retta / cresciuta come l’acqua dal basso in alto!”, esclama il poeta ne La stasi, l’estasi, poesia raccolta ne L’età della Luna del 1962), il poeta-ingegnere, divenuto vecchio, scopre il fascino dell’impurità, della sregolatezza, dell’azzardo e al contempo riscopre le risorse del suo istinto, del suo dialetto, del suo fiuto di “musulmano avido di odori”. E allora non accusiamolo di aver trasformato la poesia in qualcosa di impuro, di torbido, di promiscuo, “non imputiamogli d’averci dato tuberi anziché gemme”, in quanto è proprio nei tuberi, nelle radici, nei bulbi – non di certo nella forma ottusamente perfetta di una gemma o di un cristallo – che si annida la crescita, la possibilità di evoluzione, e quindi la vita stessa.

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