Il “giallo anomalo” di Carlo Emilio Gadda, pubblicato la prima volta, a puntate, sulla rivista «Letteratura» (gennaio-dicembre 1946, nn. 26-29 e 31), fu successivamente ampliato e puntigliosamente revisionato fino all’edizione in volume del 1957 (finito di stampare il 22 giugno di quell’anno nelle Officine Grafiche di Aldo Garzanti Editore a Milano). Il capolavoro gaddiano ha, dunque, compiuto sessant’anni, ma non li dimostra.
L’intreccio romanzesco – che ben presto si trasforma in “pasticcio”, in groviglio inestricabile di fatti e personaggi – può essere raccontato solo per sommi capi, per non correre il pericolo di restare avviluppati in una trama vischiosa che si snoda lungo un registro binario: due sono i crimini su cui deve far luce il commissario Don Ciccio Ingravallo: il furto di gioielli a casa Menegazzi e il delitto di Liliana Balducci; due sono le scale del palazzo di Via Merulana (il “palazzo degli ori”) dove si consumano entrambi i misfatti; due sono gli agenti che affiancano il commissario nelle indagini (il Biondo e lo Sgranfia) e così via…Anche i personaggi sospettati di un coinvolgimento nel furto e/o nel delitto sono coppie: i fratelli Lanciani, le cugine Mattonari.
La mescolanza degli stili (tragico e comico, alto e popolaresco), la compresenza dei dialetti (romanesco, abruzzese, napoletano) e delle lingue (inglese, francese, tedesco, ma anche latino e greco) creano effetti di autentica pirotecnica verbale: un fantasmagorico pastiche che mima perfettamente il movimento aggrovigliato, caotico di una realtà “barocca”, nella quale al nesso meccanicistico di causa/effetto si è sostituita la ben poco rassicurante dialettica ordine/disordine.
Le indagini del commissario Ingravallo che, a furia di interrogatori, si pone ostinatamente alla ricerca di un colpevole e di un movente per il delitto Balducci, sono dunque destinate a naufragare nel magma della realtà: le ragioni del Logos soccombono dinanzi al Caos del reale.
Il Pasticciaccio, dunque, pur presentandosi «letterariamente concluso», è un giallo privo di finale: il colpevole manca in quanto rinvenire le cause (e “concause”) che determinano gli eventi, ovvero ristabilire l’ordine e la verità delle cose, è un’operazione impossibile. Conoscere il reale equivale a «deformarlo», inevitabilmente.
«Il poliziotto capisce chi è l’assassino e questo basta. Il giallo non deve essere trascinato come certi gialli artificiali che vengono portati avanti fino alla nausea e finiscono per stancare la mente del lettore»: così Gadda giustificò, in un’intervista del ’68, la scelta di interrompere bruscamente la narrazione “sul più bello”.
Tuttavia il lettore di “gialli” pretende sempre un finale che lo soddisfi…e lo rassicuri! Vuol sempre, immancabilmente, dare un volto e un nome al colpevole e un movente al delitto, vuole esorcizzare le sue paure e le sue pulsioni attraverso la lettura di storie terribili in cui i colpevoli siano sempre catturati e puniti. Ecco dunque individuata una delle ragioni, forse la principale, dell’iniziale insuccesso di pubblico del capolavoro gaddiano.
Ciascuno di noi vorrebbe sempre scorgere una logica anche nelle azioni più ignobili e crudeli, individuare in esse una possibile giustificazione. Gadda nega del tutto questa possibilità, si arrende alla indecifrabilità del reale e mostra come le azioni umane siano, il più delle volte, illogiche, ovvero guidate da pulsioni inconfessabili che provengono dal fondo oscuro della coscienza.
La trama intricata, il finale “anomalo”, il pastiche verbale dall’effetto straniante, naturalmente provocarono, all’uscita del romanzo in piena stagione neorealistica, reazioni accese e contrastanti. I lettori (pochi) non gradirono questo giallo insolito e anche i colleghi narratori – i cosiddetti “nipotini” dell’ingegnere – non compresero fino in fondo le ragioni della sua scrittura “barocca”, non composero in una visione globale gli elementi innovativi della sua produzione narrativa, saggistica, filosofica, ma ne apprezzarono (e imitarono) solo taluni aspetti: l’uso del dialetto (Pasolini), la tecnica della parodia (Arbasino), il sovvertimento degli schemi narrativi tradizionali (Angelo e Guido Guglielmi, il Gruppo 63)…
A soli due anni di distanza dall’uscita del volume garzantiano, Pietro Germi adattò per il cinema il Pasticciaccio, ricavandone un ottimo film – Un maledetto imbroglio del 1959 – che ottenne un grande successo di pubblico. Fu solo l’inizio del “caso Gadda”. Negli anni seguenti crebbero sempre più la curiosità, l’interesse attorno a quest’opera e al suo geniale autore. Non va dimenticato, poi, che nel 1996 il regista Luca Ronconi ne trasse una memorabile opera teatrale (con un cast eccezionale di trentasette attori e dodici figuranti) ottenendo un largo successo di pubblico e riaccendendo l’attenzione critica attorno al romanzo: un’opera che ha scardinato, reinventandola, la tradizionale forma-romanzo e che ha generato, nel corso dei decenni, un proliferare di dibattiti e di interpretazioni critiche (insuperabile quella di Gian Carlo Roscioni, autore nel 1969 de La disarmonia prestabilita, Einaudi) e di letture cinematografiche e teatrali che ne hanno suggellato il definitivo successo.
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