Antonio Pietropaoli – autore di queste gustose Dissezioni uscite presso Oèdipus qualche anno fa – è un raffinato studioso di letteratura del Novecento, un fine artigiano della parola, ma prima di ogni altra cosa è un “poeta civile”, nell’accezione “pasoliniana” del temine o, se si preferisce, un poeta underground, “da marciapiede”, come l’hanno definito altri due poeti “di razza”: Ferdinando Tricarico e Gabriele Frasca. Profondamente convinto della funzione etica della poesia – che deve anzitutto esprimere “cose”, pronunciarsi sui fatti, non gingillarsi con le parole -, Pietropaoli è homo politicus, immerso fino al collo nel proprio tempo, nella storia, nella società, alle quali guarda con distacco ironico, alle volte con sorriso beffardo, ma senza ombra di cinismo. L’imperativo contenuto nella poesia eponima che apre la raccolta è chiaro: evitare di porsi «al centro della scena» e scegliere piuttosto di stare «ai margini, in angolo» (Dissezioni) da dove è possibile scrutare con occhio limpido la realtà, «dissezionarla» a freddo, “autopticamente”, attraverso l’uso di una «penna petrosa», corrosiva, che scava nel fondo delle cose come la lama di un bisturi. Nelle sei sezioni che compongono il volumetto (Ritagli, Dissonanze, Poesie politiche, Dislocazioni, A una passante, e l’ultima e più corposa Scherzi e allegorie) e nelle altre poesie “sciolte”, l’ammaliante gioco fonico-ritmico dei versi ha di sicuro un effetto “ipnotico” sul lettore che, anche in solitudine, tenderà a leggerli a voce alta, scandendo bene le singole parole per meglio assaporarne i suoni; un gioco elegante che non si traduce mai in vuoto girotondo di parole, in compiaciuto esercizio metrico-stilistico. Le parole di Pietropaoli sono tutt’altro che lievi “fantocci sonori”, piuttosto sono lacerti di carne viva, frammenti di una «materia pulsante» (Poesia-farmaco) che il poeta, «tutto ridotto in pezzi e brani» (Ritagli 1), offre in dono «così come viene / e gli sovviene (sparati nelle vene)» (Dissonanze 5).
L’aspirazione-illusione del poeta (di ogni poeta) di orchestrare «divine dissolvenze» è da tempo crollata sotto i colpi di una cultura di massa, imbevuta di reality e pubblicità, che ha trasformato attori e opinionisti TV in nuovi idoli e profeti, sottraendo ogni tipo di legittimazione etico-politica all’azione degli intellettuali. L’uso insistito di proverbi, citazioni e luoghi comuni probabilmente è l’unico modo che resta al poeta per entrare in contatto con una società soggiogata dai new-media, dominata da blog e social network, responsabili di aver impoverito e omologato la nostra lingua oltre ogni misura. Quella che Serianni ha definito la “lingua di plastica” (fatta di slogan e detti popolari) è forse lo strumento adatto per parlare alla “tribù” («o italiani, brava gente intelligente / belli ma poveri, coriacei e ruspanti», Evviva Cava) e per denunciare storture e malcostume politico:
viviamo nel paese di cuccagna / dove si batte per un pugno di paglia / chi sa bene che sotto ogni magagna / c’è bello pronto un asino che raglia (Il paese di cuccagna).
Se la crisi è globale e la decadenza (sociale, politica, culturale) irreversibile, anche il linguaggio poetico non è immune dal degrado («lo strumento strimpella spelacchiato»). Eppure, le parole di Pietropaoli non hanno nulla di stantìo o di falso o di approssimativo, risuonano dure e taglienti anche quando sono quelle “logore” della tradizione letteraria o quelle un po’ insulse delle canzonette e dei proverbi; parole che, manipolate e ricollocate nei versi, si trasformano in colpi sparati da una «pistola fumante», bocconi di un cibo amaro da digerire che «ti sazia e ti spazia /contemporaneamente» (Poesia-farmaco).
Non dobbiamo insomma lasciarci ingannare dall’apparente leggerezza e facilità dei versi, nei quali dilaga la comicità beffarda e spesso oscena dell’autore attraverso la fitta trama di allitterazioni, assonanze, consonanze, paronomasie che fanno letteralmente esplodere i significanti senza però mai svuotarli dei significati: questi ultimi sono quasi sempre inattesi, “dislocati” altrove, annidati in parole che improvvisamente precipitano nel testo (in genere verso la fine) e ne dischiudono il senso. È il caso della poesia dedicata a Partenope, un ritratto crudo e duro della città di Napoli, reso ancora più incisivo dal gioco della citazione colta (nei due versi iniziali) e dall’estrema concisione degli enunciati:
così Partenope continua a tessere / la sua tela come un canestro di ginestre / una distesa di case bocca a bocca / un nido di vipere / un mare di boschi crepitanti / che il cuore dell’infame distoglie e rinfresca. Non la cattedrale nel deserto è cosa grave / ma che deserto e cattedrale son una cosa (Dislocazioni 6)
Ancora più inquietanti, per il loro sapore vagamente testamentario, sono i versi dell’ultima quartina di solo soletto:
solo soletto me ne vo per questi / testi tascabili tra bile e frottole / sapiente di niente / e a tutti i pretesti / restìo, in festa, pronto per la botola.
Le esibite citazioni colte, il gioco delle allitterazioni, il tono complessivamente canzonatorio e auto-ironico non riescono certo a nascondere – qui come in altri testi – il sentimento angosciante di una vecchiaia presentita e assai temuta. «Abitiamo lo spazio / siamo abitati dal tempo» (p. 91) recitano gli ultimi due versi de Il tempo ritrovato in cui, tra citazioni proustiane e baudelairiane e rime raffinate, emerge l’immagine di un poeta che si è lentamente dissanguato («un poco al giorno»), che si è disamorato «della vita / come della morte / fino ad incartapecorirsi». La vecchiaia, odiosa e indecente, è per il poeta «un aratro senza pietà» che travolge ogni cosa, scava nel corpo:
a fatica mi allaccio le scarpe / […] / invecchio riflesso in uno specchio / mi cruccio per i miei intoppi (Larve)
La vista indebolita induce a «fissare punti fermi / assodare qualcosa», ovvero a fare dolorosi e inutili bilanci («tutto frana sfuma dilegua»). Anche gli amici e i familiari sono coinvolti nella frana del tempo che corrode l’unità della cellula-famiglia (che «petalo a petalo si sfoglia») e incrina il significato delle parole («le parole si scheggiano / mi avvito nel vuoto»). Il sentimento della fine che si appressa spaventa il poeta, rischia di paralizzarlo nei ricordi, di ridurlo al silenzio; meglio forse sfidare la morte «a viso aperto» e beffarla con un uso “straniato” del linguaggio, la cui affilata ironia lascia l’amaro in bocca, scava impietosamente nel fondo tragico dell’esistenza.
Un pensiero riguardo ““DISSEZIONI”. LA PAROLA-BISTURI DI ANTONIO PIETROPAOLI”