Nemico dichiarato del verso libero, Toti Scialoja ha sperimentato, nella sua trentennale attività di poeta, una grande varietà di forme, senza mai rinunciare però, nel passaggio da una stagione all’altra, al rigore e alla misura esatta della “gabbia” metrica, «entro la quale far vivere il pensiero».[1] Ma se negli anni Ottanta le poesie sono «di metro molto breve (settenari, ottonari, novenari) e molto sintetiche»,[2] in quelle del decennio successivo è possibile notare «un rallentamento del ritmo e un allungamento del verso. L’endecasillabo diventa, anche, in certi momenti, dodecasillabo, mai ipèrmetro però, mai sfiorando il verso libero».[3]
[…] via via mi sono accorto che la metrica sempre usata non è più sufficiente. Non mi bastano più il settenario, né l’ottonario: l’endecasillabo non è abbastanza prolungato. Ho bisogno di altri ritmi, più distesi. Non voglio però uscire dalla metrica. Io non amo i versi liberi: quelli sì che sono davvero un nonsense.[4]
I primi esperimenti di questa nuova metrica «precisa, e tuttavia rallentata»[5] sono da rintracciare nella piccola silloge Ada ride che riunisce componimenti scritti nel triennio 1987-1989 (POE alle pp. 333-347). Il poeta manifesta, già a quest’altezza cronologica, il «desiderio di raccontare più che di folgorare»[6] (anche a costo di sacrificare la rima, che compare sempre più di rado) e di farlo con «una parola più intima e intensa».[7] È l’età avanzata che induce il poeta ad allungare il verso, a scegliere un ritmo decelerato per poter «raccontare più pacatamente, nei dettagli, cercando di prolungare il racconto»:[8]
Quando si è vecchi si ha voglia di raccontare. Il nonno racconta…‘Quando ero in Crimea…’ No? Il vecchio, il nonno racconta e allora essendo vecchi uno ha voglia di raccontare di più. Allora cerca un metro più lento, più scandito, più lento, più allungato allora, certo, dai quinari, dai senari sono passato ai novenari, poi agli endecasillabi, poi anche a dei versi un po’ irregolari. Una sillaba in più, due sillabe in più, insomma andavo sempre più verso l’immagine della pagina e poi ho scoperto, sai quelle intuizioni, non so perché, chissà perché, ho scoperto! Ho letto nell’Antologia di Contini la pagina, la parte dedicata a Pascoli, quei bellissimi due versi esametri con cui lui ha tradotto Omero, questi due versi bellissimi che io so a mente […].[9]
Ecco i due versi omerico-pascoliani, letti nell’antologia continiana Letteratura dell’Italia unita. 1861-1968 (Sansoni, 1968) e posti ad epigrafe di Rapide e lente amnesie: «Datosi un colpo nel petto, al suo cuore drizzò la parola: / “Cuore sopporta! Ben altro tu hai sopportato più cane!”». Due versi esametri che “ferirono” profondamente il cuore del poeta, orientandone le successive scelte formali. L’esametro “scoperto” da Scialoja attraverso la lettura del Pascoli omerico non è certo quello classico, virgiliano, in cui «i piedi variano e le sillabe diminuiscono»[10] dando luogo a dattili, spondei, trochei, anapesti con piedi di due, tre o più sillabe. Il poeta si muove all’interno della prosodia italiana, non di quella latina, compiendo un’operazione di recupero e rivitalizzazione della metrica classica analoga a quella condotta dal Pascoli traduttore di Omero (attento al «numero certo di sillabe» e alla «localizzazione fissa» degli accenti»[11]), ma rivolgendo maggiore attenzione «al ritmo del parlato».[12] Costruiti nel rispetto assoluto della «logica musicale degli accenti tonici, sempre corrispondenti a quelli grammaticali»,[13] i versi di Scialoja, insomma, non possono essere definiti propriamente versi liberi, «ma nemmeno si può parlare accademicamente, di ‘esametri’»;[14] sono versi “barbari” di diciassette sillabe composti da un ottonario più un novenario, con cesura al mezzo: «[…] esametri dattilici tutti quanti. Una cosa che non esiste in Virgilio, in nessuno. Sono degli esametri, ma lo sono a modo mio»:[15]
Che poi questi versi si voglia seguitare a chiamarli «esametri», come io ho cominciato, a me va benissimo. Un termine scolasticamente improprio può rivelare, appunto perché tale, qualche verità velata, qualche segreta ragione del cuore.[16]
Rapide e lente amnesie, la raccolta pubblicata da Marsilio nel 1994 nella collana di poesia diretta da Giovanni Raboni, apre ufficialmente l’ultima fase della poesia scialojana. I due successivi volumi – Le costellazioni (Marsilio, 1997) e il libro postumo Cielo coperto (con poesie del biennio ’97-’98 pubblicate, a cura di Raboni, nella raccolta garzantiana del 2002 che riunisce tutta l’ultima produzione del poeta) – confermano le scelte formali e tematiche compiute al principio degli anni Novanta, ovvero esibiscono la nuova volontà “narrativa” del poeta[17] che ora punta a creare micro-storie autosufficienti, a ciascuna delle quali, per la prima volta, è attribuito un titolo. I singoli componimenti – di due strofe ciascuno – si presentano come veri e propri “medaglioni” che ritraggono frammenti di vita vissuta e «figure della memoria» senza più l’elusività alla quale ci avevano abituati i settenari del decennio precedente. Pagina dopo pagina, si svolge il consueto film dei ricordi, il racconto «delle sofferenze, delle persone perdute, dei sogni perduti, della solitudine»:[18]
Autunno
Col suo pugnale di foglie morte l’autunno ti trafigge
per quale torto? quale ira? dopo quanto rincorrerti?
il colpo dal basso in alto è sgarro da cui non si sfugge
irrompe un fruscio sommerso un transito di giorni persi
intinti nel mormorio durante una estate sleale.
Inizio di una trafila sottratta ad ogni dilazione
capriccio di un calendario destinato al suo precipizio
hai avuto in dispregio di volta in volta le buone stagioni
strappandone a viva forza le felicità rannicchiate
ora il giorno può appannarsi la slealtà ti ha messo le ali.
(POE, p. 431)
Nel ritmo disteso degli «esametri» circostanze e figure del passato acquistano maggiore densità e realismo («C’è la solitudine, l’incomprensione con l’altro, con l’altra. Nascono questi temi umani, tragici, ansiosi che corrispondono appunto a una situazione di realtà»[19]). Il poeta è perfettamente consapevole che «odori e sapori» dell’infanzia, o anche del passato recente, non possono rivivere nel tempo presente con la medesima qualità e intensità. Eppure, attraverso i filtri del “mito” e del “sogno” è possibile creare un’altra realtà in cui far rinascere le immagini recuperate alla memoria. Per sgombrare il campo da eventuali fraintendimenti, Scialoja prende le distanze dal misticismo e dalla pseudo-realtà “onirica” di matrice surrealista («qui non c’è surrealismo. Il surrealismo è facile. Qui c’è il mito e non il sogno come volontà mistica, ideologica»[20]), nondimeno, le continue allusioni alla sfera del sogno e, soprattutto, la presenza, in certe poesie, di «insorgenze notturne e visionarie»,[21] hanno spinto i critici a parlare, a proposito dell’ultimo Scialoja, di «surrealismo gelido» (Lorenzini)[22] o di «superfetazioni surrealistiche» (Siciliano).[23] Echi e suggestioni particolarmente evidenti in testi come Chiaro di luna e Dormiveglia (compresi entrambi in Rapide e lente amnesie), nei quali il riferimento alla commistione percettiva tra sonno e veglia (che è alla base del concetto di “surrealtà”) sembra avvicinare il poeta alla tematica “visionaria” bretoniana:
Dormiveglia:
Tutto ritorni com’era. Lo decidano le rondini.
Da quale istante? L’infanzia? Oppure l’estate passata?
Farli rivivere tutti? Tutti insieme in gran disordine?
Più che un delirio in sordina il dormiveglia è una sfuriata
afona ne approfittano i gridi per timbrarla a secco.
Inesausto inseguimento di raggiri nel dormiveglia
i gridi delle rondini deridono chi non si arrende
vorrei posare la mano su una spalla verde e vermiglia
costretto ad un sorso solo il sonno beve le rondini
contro il ritorno stridendo trafiggono un arco di cerchio.
(POE, p. 401)
I temi, le ambientazioni, i personaggi, gli oggetti della nuova poesia sono in sostanza gli stessi già messi in campo nelle raccolte degli anni Ottanta. Le estati roventi a Procida, case ricoperte di edera e di fiori multicolori, spiagge deserte e scogliere, figure femminili e parentali (Emilia, Anna, Enrico, Adele, il padre, il cugino, il nonno) costituiscono la materia espressiva anche di queste ultime poesie, nelle quali – come ha scritto Alfredo Giuliani – Scialoja «si lascia visitare con curiosa leggerezza da tutte le sue età».[24] Il poeta preserva dal «degrado» gli “oggetti” del suo passato (circostanze, figure, cose) perché li colloca fuori dal tempo, in un “presente assoluto”, in una dimensione sospesa in cui il “prima” e il “dopo” non contano più («il degrado si registra perché la memoria conserva / le apparenze di un prima proposto al confronto di un dopo», Il mutamento, POE, p. 465). I ricordi – che, in quanto «atti della mente», non si manifestano all’interno di una successione logico-temporale, ma appaiono in modo rapsodico, “intermittente” («rapide e lente amnesie conviene chiamarle frangenti», Rapide e lente amnesie, POE, p. 366) – a volte arrivano con sembianze dolci, altre volte assalgono «per amore» il poeta con la foga («aggressione appassionata») di un branco di cani di soccorso:
I cani
Dicono che arriveranno i cani di soccorso un branco
di pelo grigio e nerastro proprio quando sarai allo stremo
alloro seguito anni di soccorso insieme abbaianti
devi solo aver pazienza non consumarti nell’attesa
a un certo punto è sicuro a frotte arriveranno i cani.
I cani a dir meglio gli anni in forma improvvisa di cane
aggressione appassionata che ti circonda che si stringe
attorno a te per soccorso starti addosso per annusarti
a balzi a colpi di lingua latrarti che tutti i tuoi anni
son sbucati dall’oblio mutati in cani per amore.
(POE, p. 462)
Gradevoli oppure no, i ricordi “accadono”, si impongono alla mente del poeta con la loro urgenza fenomenica, avanzano implacabili come onde («frangenti») impossibili da arrestare, ma altrettanto rapidamente si ritirano lasciando una scia di emozioni e sensazioni indefinite, una «schiuma» incolore che avvolge e confonde eventi lontani e vicini:
Rapide e lente amnesie
Rapide e lente amnesie conviene chiamarle frangenti
irrompono su una sabbia colore di lampada all’alba
il mare rovescia gli occhi scopre il bianco per pochi istanti
il crepuscolo cresce luce alla schiuma che non si calma
fragore certo è conoscersi dare via libera al dubbio.
La spiaggia è quasi deserta sempre qualcuno vuol far tardi
tu ancora calpesti l’acqua mi confidi che non fa freddo
resta una bimba acrobata non ha mai distolto lo sguardo
a un tratto socchiude gli occhi sulle mani salta all’indietro
poi s’inginocchia e conficca la sua forcina nella sabbia.
(POE, p. 366)
In questa poesia (che dà il titolo alla raccolta del ’94), l’apparizione improvvisa negli ultimi tre versi della «bimba acrobata» con i suoi movimenti tanto agili quanto inattesi («sulle mani salta all’indietro / poi s’inginocchia e conficca la sua forcina nella sabbia»), interviene a rompere il silenzio immobile della spiaggia deserta, a infrangere la staticità delle immagini che precedono.[25] Si tratta di un procedimento comune a quasi tutti i componimenti degli anni Novanta nei quali il ritmo lento e cadenzato dei versi lunghissimi è interrotto, nella seconda strofa (generalmente negli ultimi due versi), da un “gesto” inatteso – una frase rivelatrice, una sentenza enigmatica, una domanda lasciata senza risposta – che crea un effetto “straniante” e, in qualche modo, fa “precipitare” il significato. Un procedimento riscontrabile anche nelle poesie de Le costellazioni, ad esempio in Violino tzigano, in cui il motto finale pronunciato da una Lei vittima del sarcasmo del poeta («l’esperta in stanchezze afferma: “ogni violino ha il suo / veleno”») è preceduto da immagini memoriali che si dissolvono sotto l’azione minacciosa di un bianco che “infetta”; le malinconie, le incomprensioni («vicende d’anime allo stremo») si consumano in un chiarore che è «sostanza di cose scomparse», cancellate per sempre da «un logoro straccio inzuppato nel latte»:
Violino tzigano
Non sapesti darmi altro: solo una stanca abitudine
si sente un violino fioco si fa vivo sempre sul tardi
non sapesti darmi altro: la scala da salire a piedi
parlo di questa tua morte qualcosa che appena ricordi
mentre il violino percorre vicende d’anime allo stremo.
Si muta in sibilo il suono nel risucchio di un lungo sorso
guardo il cortile ch’è bianco al punto da esserne infetto
logoro fino al chiarore sostanza di cose scomparse
logoro straccio inzuppato nel latte che annuncia la notte
l’esperta in stanchezze afferma: «ogni violino ha il suo
veleno».
(POE, p. 370)
Pagina dopo pagina cresce il rischio che i ricordi svaniscano per sempre, che le amnesie diventino troppo frequenti al punto da estinguere anche i nomi delle persone più care («Ti chiamasti proprio così? È tuo il nome che riaffiora?», Piuma scarlatta, POE, p. 424). «I vecchi sono attirati dalle minuzie» (Le minuzie, POE, p. 433) proprio nel tentativo di scongiurare il rischio di oblio totale; occorre aggrapparsi a piccoli dettagli («un minimo guizzo di luce può perforare l’oblio») per «resistere alla definitiva / cancellazione» (Cfr. Donna che rammenda, POE, p. 425). I luoghi, i paesaggi cari al poeta, inevitabilmente «si disfano» sotto l’azione del tempo: «si profilano tutto attorno orli di separazione / l’addio si sparse in rottami in luoghi stremati dal nome» (Geografia, POE, p. 413); parallelamente si infittiscono i riferimenti ad una fine sentita ormai vicina («La morte mi parla poi mi porta per mano»). Le ultime poesie, riunite nel volume postumo Cielo coperto, sono strofe uniche di varia lunghezza e recano ciascuna la data di composizione: è come se il poeta innescasse una sorta di malinconico “conto alla rovescia”. La morte si fa ora presenza incombente e subdola («la morte s’è complicata sfruttando la mia confusione»); assume sembianze ingannevoli («si fa chiamare mare») e per nulla rassicuranti («un mare tempestato di schiuma di colpo avariata»):
Quale mare?
Da molto tempo da molto ma non so più da quanto tempo
la morte s’è complicata sfruttando la mia confusione
s’è fatta chiamare mare forse soltanto per vantarsi
allontanando i momenti deviandoli incessantemente
in altri momenti spersi sulla grande contraffazione
se le onde seguitano a mentire ma sempre dormendo
sopra un mare tempestato di schiuma di colpo avariata
la morte si fa chiamare mare ma per approfittarne.
(1° dicembre 1997, POE, p. 497)
La «metrica inconsueta» di tutte le ultime poesie scialojane è perfetta nell’assecondare gli umori, le angosce, le malinconie senili del poeta. In Memoria (scritta il 22 febbraio 1998, appena una settimana prima di morire) è ancora la ricerca di suoni allitteranti, di variazioni sillabiche e paronomastiche a guidare l’ispirazione del poeta e a far vibrare come corde i lunghi versi “narrativi”, anche se – come avverte giustamente Giovanni Tesio – «non è dall’allegria che gli viene la spinta»,[26] l’impulso a far scattare il «gioco fonetico-automatico»:[27]
Memoria
La memoria mormora come un mare ammansito
la memoria mormora con labbra che sembrano morenti
la memoria mormora come chi maschera malori
ma insieme rapidissima a stornare gli orli dell’oggi
che dico «dell’oggi?» d’ogni primo attimo del presente
per lei ogni nuovo respiro è già stato respirato
ogni prima scintilla spenta soffiata lontanissimo.
(POE, p. 536)
Vero è che la misura ampia, circolare, dell’esametro si presta ancor di più ad accogliere la qualità sonora delle parole, specie se si tratta di nomi “strani”, di termini specialistici, magari presi in prestito dal linguaggio settoriale della scienza botanica, come nel caso della poesia che segue:
Il nome dei fiori
L’erba ti volta le spalle appena attraversi i grovigli
t’apri un sentiero impreciso che a stento percorre un inferno
di fiori privi di sillabe donde s’innalza il cerfoglio
tra l’artemisia il serpillo e il costernato fumosterno
fiori di cui ignori il nome e annulli in un unico affronto.
Inferno è il cieco traversare i fiori col peso del corpo
al nome giova una mano che lo scosti senza violenza
non questa devastazione ignara che riduce a sterpi
troppi indecifrari fiori: l’agrostide bianca l’acanzio
il crespigno l’aspraggine l’elicrisio l’infranta eufrasia.
(POE, p. 363)
In questo componimento l’«esattezza nomenclatoria»[28] con la quale vengono indicati i «troppi indecifrari fiori» serve a salvaguardare questi ultimi dall’«affronto» di una «devastazione ignara» che li «riduce a sterpi». Qui Scialoja fa propria la battaglia pascoliana contro l’odiosa «indeterminatezza» delle parole che, se private della loro sostanza sonora («fiori privi di sillabe»), divengono “mute”, incapaci di “indicare” gli oggetti e dunque di farli vivere. «La determinatezza di Pascoli si accampa sempre sopra un fondo di indeterminatezza che la giustifica dialetticamente», scriveva Contini nel già citato saggio del 1958 (cfr. Varianti e altra linguistica, p. 240), una considerazione che ben si adatta anche agli esametri di Scialoja, nei quali la presenza di termini desunti dalla botanica o dall’entomologia, e di aggettivi “impoetici” («[…] mi arriva il tanfo del bucranio sanguinolento / semisommerso nell’erba per attirare imenotteri», Antica violenza, R, POE, p. 359), asseconda il suo gusto per la sonorità guizzante delle parole, ma non sottrae ai versi il loro carattere di «allegorie slogate e stranite».[29] Il segreto incantesimo dei versi di Scialoja è certamente racchiuso nel ritmo sinuoso – «così gestuale e così prolungato»[30] – del “suo” esametro, che, come ha scritto Orietta Bonifazi, «è esatta misura cordis» («non è la voce ad adattarsi al metro, problema degli umanisti, ma è il metro ad adattarsi alla voce»[31]). E non dobbiamo sorprenderci se in più occasioni il poeta ricorre all’aggettivo “gestuale” (che in pittura è sinonimo di azione cieca ed istintiva, non predeterminata) riferito alla “gabbia chiusa” dell’esametro che letteralmente “imbriglia” le parole nel verso. In realtà, a Scialoja riesce un’impresa apparentemente impossibile: conciliare l’imprevedibilità, l’energia del gesto con la predeterminazione del metro. Se consideriamo gli esiti della ricerca artistica di Scialoja negli anni Novanta e il suo approdo finale ad una pittura all over, assolutamente libera, addirittura “esplosiva” nella sua inaspettata carica gestuale, ci appare ancora più incomprensibile (e contraddittoria) la scelta operata dal poeta nel senso della “chiusura metrica” e del massimo rispetto delle regole formali. In realtà la contraddizione è solo apparente. La deflagrazione cromatica delle ultime tele scialojane, che si riempiono fino al bordo di chiazze, filamenti e venature, è certo il segno di una inesausta ricerca di libertà espressiva da parte dell’artista, ma non è una resa al caos indistinto dell’universo, una rinuncia all’elemento soggettivo e razionale dell’opera d’arte. Il gesto pittorico di Scialoja non è cieco ma «ostinatamente consapevole», è un efficace «rimedio all’alienazione», in quanto l’unico modo per essere realmente liberi è tenere sotto controllo il caos attraverso l’esercizio, mai interrotto, della razionalità:
Se infatti il gesto era negli informali, libero da intenzionalità, ‘puro atto di esistenza’, ora è invece proprio un rimedio all’alienazione, ed anche l’azzardo, il caso, sono sotto controllo, elementi tutti che fanno parte integrante di un’azione di cui il pittore è l’unico, consapevole autore, attore, regista.[32]
Come l’azione del pittore è tanto più libera quanto più è consapevole e “controllato” il suo gesto, così il poeta può raggiungere un’autentica libertà espressiva solo attraverso l’assunzione di regole che incanalano i suoni e i significati delle parole nella direzione da lui voluta. «Poesia per me è un verso convenzionale racchiuso in una forma»,[33] dichiarava Scialoja nel 1991, ma l’esametro “barbaro” da lui adottato nelle ultime poesie – un verso non libero, ma neppure convenzionale – si presentava fin dall’inizio robusto e duttile al tempo stesso, potente come una “pennellata” sulla tela, dotato come quest’ultima di forza e consistenza materica. L’«energia sovrabbondante»[34] e la libertà gestuale delle ultime opere pittoriche si trasferiscono, dunque, con uguale intensità al “verso-segno” impresso sulla pagina; un verso che scandisce lo spazio, che si snoda ritmicamente all’interno di uno schema regolato, ma che sorprende il lettore nell’imprevedibilità del suo percorso (fonetico) e del suo approdo (semantico):
[…] per me la poesia deve avere […] tutte le convenzioni e le restrizioni possibili. Più ne ha più la poesia è libera, per me.[35]
[1] B. Drudi, Toti Scialoja. Pittore e poeta, in Toti Scialoja, pittura e poesia. Opere su carta, cit., p. 20.
[2] D. Fasoli, Condannato all’arte, intervista a Toti Scialoja, «Riforma della scuola», 4, aprile 1991; in Toti Scialoja, pittura e poesia. Opere su carta, cit., p. 80.
[3] Ibidem. Per meglio comprendere la posizione di Scialoja rispetto alla «metrica libera» (o «liberata») adottata dalla maggior parte dei poeti del Novecento europeo, conviene riportare alla memoria le parole di Pier Vincenzo Mengaldo che, in un celebre saggio del 1984, fissava le «tre pre-condizioni» fondamentali che distinguono la metrica libera da quella tradizionale: «1. Perdita di funzione della rima, che diviene assente o sporadica, tale cioè anche nel secondo caso, da perdere il suo preciso valore strutturante e di indicatore di una regolarità formale, per ridursi a mero effetto locale o ad automatismo tecnico. 2. Libera mescolanza di versi canonici e non canonici, intendendo per i secondi i cosiddetti “versi lunghi”, di misura superiore all’endecasillabo […]. 3. Mancanza dell’iso-strofismo, in cui è opportuno distinguere un grado debole: le strofe sono diversamente configurate quanto a componenti versali e loro collocazione, ma conservano lo stesso numero di versi, inducendo perciò, almeno graficamente, un effetto di regolarità; e un grado forte: le strofe sono anche di diverse dimensioni». (P. V. Mengaldo, Considerazioni sulla metrica del primo Govoni (1903-15), in Id., La tradizione del Novecento. Seconda serie, Torino, Einaudi, 2003, p. 122). Sulla scorta della «triade di pre-condizioni» elaborata da Mengaldo, possiamo dunque dire che, pur scegliendo, negli ultimi anni «versi lunghi», «non canonici», «di misura superiore all’endecasillabo» e pur rinunciando spesso alla rima, «che diviene assente e sporadica» rispetto alle molte assonanze e consonanze, Scialoja non abbandona mai l’iso-strofismo, laddove quest’ultimo, anche nel «grado debole», rappresenta per il critico l’unica vera condizione che consente «di distinguere in linea di fatto la metrica libera da quella barbara.» (Ivi, p. 123).
[4] A. Rauch, La mia infanzia sono io… Conversazione con Toti Scialoja, in Animalie. Toti Scialoja, Disegni con animali e poesie, catalogo della mostra, Galleria Comunale d’Arte Moderna, Bologna, marzo-aprile 1991, pp. 29-34; ora in Toti Scialoja, pittura e poesia. Opere su carta, cit., p. 79.
[5] D. Fasoli, Condannato all’arte, in Toti Scialoja, pittura e poesia. Opere su carta, cit., p. 82.
[6] Ibidem.
[7] B. Drudi, Toti Scialoja. Pittore e poeta, in Toti Scialoja, pittura e poesia. Opere su carta, cit., p. 20.
[8] D. Fasoli, Condannato all’arte, ivi, p. 82.
[9] G. Stellini, Intervista a Toti Scialoja, Roma, 30 agosto 1997, in appendice a Poesia e nonsense in Toti Scialoja, tesi di laurea, a. a. 2003/2004, Università di Padova, pp. 179-180. Una copia della tesi (da me consultata) è custodita presso l’Archivio della Fondazione Toti Scialoja di Roma.
[10] A. Micaletti, Intervista a Toti Scialoja, in Toti Scialoja, pittura e poesia. Opere su carta, cit., p. 83.
[11] Cfr. G. Contini, Il linguaggio del Pascoli, in Id., Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 219-245.
[12] O. Bonifazi, Toti Scialoja poeta-pittore. «Un percorso imperfetto verso l’invisibile», tesi di laurea, a. a. 2004/05, Università “La Sapienza” di Roma (relatore B. M. Frabotta, correlatore B. Drudi), p. 208. Una copia della tesi (da me consultata) è custodita presso l’Archivio della Fondazione Toti Scialoja di Roma.
[13] T. Scialoja, Avvertenza a Rapide e lente amnesie, in Id., Poesie 1979-1998, Prefazione di Giovanni Raboni, Garzanti, Milano 2002, p. 353. D’ora in avanti POE.
[14] Ibidem.
[15] A. Micaletti, Intervista a Toti Scialoja, in Toti Scialoja, pittura e poesia. Opere su carta, cit., p. 83.
[16] T. Scialoja, Avvertenza a Rapide e lente amnesie, in POE, p. 354.
[17] Come ha notato Pier Vincenzo Mengaldo: «istanze e modalità narrative e in generale prosastiche, con le relative crisi e assestamenti formali», sono facilmente riscontrabili in tutta la lirica del secondo Novecento, ciò anche «in rapporto al decadimento delle tradizionali forme di narrazione in versi.» (P. V. Mengaldo, Per un’antologia della poesia italiana del Novecento, in Id., La tradizione del Novecento, cit., p. 29).
[18] G. Stellini, Intervista a Toti Scialoja, cit., p. 185.
[19] Ibidem.
[20] A. Micaletti, Intervista a Toti Scialoja, in Toti Scialoja, pittura e poesia. Opere su carta, cit., p. 84.
[21] N. Lorenzini, Gli esametri di Scialoja, «Il Verri», 3-4, settembre-dicembre 1994, p. 18.
[22] Ibidem.
[23] E. Siciliano, Acquerelli in rima firmati Scialoja, «L’espresso», 8 luglio 1994, p. 169.
[24] A. Giuliani, Memoria e sortilegio, «La Repubblica», 17 novembre 1994, p. 34.
[25] Cfr. N. Lorenzini, Gli esametri di Scialoja, cit., p. 18.
[26] Ibidem.
[27] Per la Bonifazi, negli esametri dell’ultima stagione scialojana il «gioco fonetico-automatico» tenderebbe ancora «a prevalere su quello sillabico-ritmico», una tesi che trova facilmente riscontro leggendo versi come questi: «ibis ritti tra ibischi ibis che becchettano iris» (Osiris, POE, p. 372) o «seguendo leggi leggere dettate dalla leggiadria» (Le processionarie, ivi, p. 377). (Cfr. O. Bonifazi, Toti Scialoja poeta-pittore, cit., p. 208).
[28] Facciamo nostra la nota definizione continiana adoperata per la lingua poetica del Pascoli nel già citato volume Varianti e altra linguistica (p. 239).
[29] N. Lorenzini, Gli esametri di Scialoja, cit., p. 17.
[30] A. Micaletti, Intervista a Toti Scialoja, in Toti Scialoja, pittura e poesia. Opere su carta, cit., p. 82.
[31] O. Bonifazi, Toti Scialoja poeta-pittore, cit., pp. 208-209.
[32] L. Trucchi, Presentazione al Catalogo della mostra Toti Scialoja, Roma, Galleria L’Isola, 1984; cfr. Toti Scialoja. Opere 1955-1963, Mostra alla Galleria dello Scudo, Verona, 5 dicembre 1999-13 febbraio 2000, catalogo a cura di F. D’Amico, Milano, Skira, 1999, p. 194.
[33] A. Rauch, La mia infanzia sono io…, in Toti Scialoja, pittura e poesia. Opere su carta, cit., p. 79.
[34] «Io sono affascinata dalla fioritura senile della sua [di Scialoja] poesia, come se fosse una scoperta avvenuta in tarda età. È una fase che mi convince di più. Credo che Toti, eravamo molto amici, riversasse nella poesia quell’energia sovrabbondante che travalica la forza della sua pittura.» (N. Lombardo, Intervista a Bianca Maria Frabotta, «L’Unità» 2 marzo 1998).
[35] A. Micaletti, Intervista a Toti Scialoja, in Toti Scialoja, pittura e poesia. Opere su carta, cit., p. 84. Scialoja non è certo stato l’unico poeta a credere di poter realizzare una compiuta libertà espressiva solo dandosi delle convenzioni da rispettare, operando all’interno di «gabbie ristrette». Come ha scritto Ernesto Ferrero nell’Introduzione ai racconti di Primo Levi, «Levi si sarebbe trovato benissimo tra i maghi-bambini dell’Oulipo, quel laboratorio di letteratura potenziale attivo a Parigi soprattutto negli anni ’60 e ’70, che annoverava tra i suoi soci più attivi, oltre allo stesso Queneau, Calvino e Perec. Non si limitavano, gli oulipiens, a studiare tutte le possibili combinazioni che si offrono alla letteratura: convinti, con Paul Valéry, che la più grande libertà nasce dal più grande rigore, si davano programmaticamente gabbie ristrette, che chiamavano contraintes, costrizioni, strettoie, per mettere alla prova il loro ingegno di costruttori (sappiamo che Perec riuscì a scrivere un intero romanzo senza usare la lettera e). Ma la letteratura è proprio questo, cercare di far passare il mare in un imbuto, come diceva Calvino. E Primo Levi altro non ha fatto, sin da quando ha forzato la gabbia mortale del Lager opponendogli anzitutto il paziente esercizio di una ragione che cercava di capire, di stabilire un reticolo di cause ed effetti, di far passare una tragedia senza nome nello stretto imbuto di una esperienza raccontabile. Non diversamente lottò durante la sua vita di chimico contro l’inerzia riottosa della materia. E infine, nei racconti, e poi nei romanzi, diede alla sua immaginazione i vincoli di ristrette ipotesi di lavoro, perché sapeva che solo lavorando sul margine più risicato si può allargare il varco, e farvi passare una migliore comprensione di quello che siamo stati e siamo, dei nostri sogni tormentosi, delle nostre eredità troppo spesso dimenticate, e dell’incerto ma non disperante futuro che ci attende.» (E. Ferrero, Introduzione a P. Levi, I racconti, Torino, Einaudi, 1996, pp. VII-XXV, la citazione è a p. XX).