LA POESIA FUTURISTA NEGLI ANNI DEL REGIME. MARINETTI E L’ANTOLOGIA DEL ’25

Manifesto_of_Futurism

Piazza Adriana 30 è l’indirizzo del movimento futurista leggibile sulla copertina dell’antologia de I nuovi poeti futuristi, pubblicata nel 1925, a cura di Marinetti, nelle Edizioni Futuriste di «Poesia». Questa indicazione, apparentemente marginale, è tutt’altro che priva di rilievo se si considera che, proprio nel ’25, Marinetti decideva di trasferire da Milano a Roma, appunto a Piazza Adriana 30, la sede direttiva ufficiale del gruppo futurista, e che il primo volume pubblicato dalle edizioni marinettiane all’indomani di tale trasferimento, e sul quale compare per la prima volta il nuovo indirizzo del movimento, è proprio l’antologia de I nuovi poeti futuristi.

Fino al 1924, infatti, Milano era stata la sede prescelta come base organizzativa dal gruppo dirigente futurista ed in questa città oltre sessanta volumi erano stati pubblicati con il marchio delle Edizioni Futuriste di «Poesia». Nel 1925, invece, si apre il cosiddetto periodo romano delle edizioni marinettiane[1] che durò ininterrottamente fino al 1943 e durante il quale furono pubblicati altri trentadue titoli.

Molteplici e di varia natura sono le motivazioni che spinsero il capo del futurismo a stabilire a Roma la direzione centrale del movimento, ma furono soprattutto considerazioni di ordine economico e politico a indurre Marinetti ad operare quella scelta che, come vedremo, assunse per il movimento futurista anche il significato di una vera e propria svolta ideologico-formale. Innanzitutto c’è da dire che, verso la metà degli anni Venti, le condizioni economiche del capo del futurismo non erano più floride come una volta, ed anzi l’ex “milionario” di un tempo si trovava ora nella necessità di trovare degli imponenti appoggi finanziari per evitare il tracollo economico del movimento. In secondo luogo, trasferirsi a Roma significava avvicinarsi ai centri di decisione politica e ciò poteva rivelarsi estremamente utile a Marinetti, il cui obiettivo era ora quello di ottenere il riconoscimento del futurismo come «arte di stato». È probabile, allora, che proprio in vista del conseguimento di tale obiettivo Marinetti maturasse nel 1925 l’idea di lanciare sul mercato una nuova antologia di poeti futuristi. Infatti, riunire in volume le poesie di quindici nuovi poeti paroliberi, a distanza di circa tredici anni dalla prima antologia poetica del movimento, significava offrire agli ambienti politici e letterari italiani – da sempre diffidenti nei confronti dell’arte futurista – una prova tangibile della vitalità e della compattezza della pattuglia marinettiana, che negli anni Venti – nonostante le numerose defezioni – si mostrava più attiva che mai[2].

Le antologie futuriste, inoltre, avrebbero dovuto assumere carattere periodico. Sia l’antologia del ’12 che quella del ’25, infatti, recano la seguente avvertenza: «Nelle edizioni che seguiranno saranno aggiunte nuove poesie di ognuno dei poeti futuristi»[3]. In realtà, com’è noto, solo nel 1940 sarà pubblicata presso le Edizioni di «Mediterraneo Futurista» una terza rassegna poetica intitolata Carlinga di aeropoeti futuristi di guerra che, nonostante si riallacci esplicitamente alla «Seconda Antologia di poesia futurista», presenta autori quasi tutti nuovi rispetto a quelli della precedente raccolta[4].

Riguardo alle circostanze e alle modalità in cui avvenne la pubblicazione de I nuovi poeti futuristi, è senz’altro importante ricordare che il capo del movimento certamente non fu il solo ad occuparsi della preparazione della raccolta. È probabile, infatti, che il poeta-pittore Fillia (fedelissimo di Marinetti) abbia partecipato all’antologia non soltanto in veste di poeta ma anche in quella di curatore editoriale. Se, infatti, prestiamo fede ad una lettera (non datata) dell’artista torinese indirizzata ad Enzo Mainardi – direttore de «La Scintilla» – e conservata nell’archivio di quest’ultimo, dobbiamo credere che Fillia, e non Marinetti, abbia curato l’allestimento della raccolta: «Tra poco uscirà il volume dei nuovi poeti futuristi, che ho curato io». Sempre a Mainardi, poi, è indirizzata un’altra brevissima lettera, corredata di un disegno ad acquerello, in cui Fillia accenna nuovamente all’antologia futurista, sottolineando, tra l’altro, la preziosità del manufatto confezionato in modo «lussuoso»: «occorrono moltissime prenotazioni per nuova grande antologia = riuscitissima – lussuosa occupati subito»[5]. Un’altra prova, a supporto della tesi secondo la quale fu Fillia ad occuparsi della pubblicazione del volume, la offre Claudia Salaris:

L’antologia era sorta nell’ambito dei Sindacati Artistici Futuristi torinesi, fondati da Fillia […]. Venne infatti stampata dalla tipografia editrice «L’Alpina» di Cuneo, città in cui furono realizzati altri volumi dei futuristi di Torino[6].

Fillia, però, tra i poeti partecipanti alla raccolta, non è stato il solo ad attribuirsi il ruolo di organizzatore dell’antologia; anche Farfa, infatti, quasi dieci anni dopo, in occasione di una polemica con Paolo Buzzi, rivendicò la paternità dell’impresa editoriale:

Nel 1925 mi venne spontaneamente offerta da un conoscente molto ricco la pubblicazione di un mio volume. Ed io volli sacrificarmi a pro di tutti i sedici ‘nuovi poeti futuristi’ della relativa Antologia […]; tutti quei futuristi, pur avendo della roba buona, si trovavano nell’impossibilità di pubblicarla[7].

Comunque siano andate realmente le cose, resta il fatto che questo volume era destinato, nelle intenzioni di Marinetti e dei suoi principali collaboratori, a bissare il successo ottenuto dalla prima antologia poetica futurista del 1912; in realtà, l’antologia del ’25, per vari motivi, ebbe una diffusione minore rispetto alla prima e non fu preceduta da un uguale battage pubblicitario. Pubblicata, infatti, all’indomani del delitto Matteotti e della secessione aventiniana, la raccolta risente necessariamente del clima di tensione politica seguito a tali avvenimenti, che ponevano Mussolini nella necessità di difendere agli occhi dell’opinione pubblica la vacillante credibilità morale del fascismo.

È noto che i futuristi, al Congresso del 1924, avevano annunciato pubblicamente la loro adesione al fascismo, offrendo al duce, investito da numerose polemiche, un importante riconoscimento politico. Ma nonostante ciò, Jacobbi sottolinea come Marinetti, nella prefazione a I nuovi poeti futuristi, assuma un atteggiamento più cauto nei confronti del regime, dosando gli accenni alla «rinascita» della nazione e al «Genio italiano» «nel senso di un nazionalismo che non vuole essere fascismo»:

[…] la prefazione non contiene nessuna allusione al fascismo; la maggior parte degli autori sembra impegnata in una linea anarchica (violenza antiborghese, immoralismo, qualche spunto di antimilitarismo, erotismo sfrenato fino alla pornografia, tentativi goffi ma aspri di dissacrazione e demistificazione dei valori). E pur essendo la prima antologia futurista uscita dopo la guerra, un solo poeta si lascia andare a ricordi di trincea e a cauti accenni patriottici (assai personali i primi, assai generici i secondi) ed è lo stesso Marinetti[8].

Rinviando alle pagine successive il discorso sui contenuti affioranti dalle poesie di questa raccolta, effettivamente riassumibili nella formula dell’immoralismo anarchico e anticonformista, è interessante, per il momento, notare come Marinetti costruisca la prefazione alla nuova antologia mobilitando tutte le risorse della propaganda e della retorica futurista allo scopo di sottolineare l’eccezionale portata rivoluzionaria delle innovazioni artistiche introdotte dalla sua avanguardia: si rifà, quindi, alla nascita del movimento, ripercorrendone le tappe principali, respinge l’accusa di aver creato un’«accademia futurista», presenta i quindici poeti nuovi e, soprattutto, rievoca con orgoglio la fondazione del Manifesto tecnico della letteratura futurista che ha segnato la nascita delle parole in libertà:

Le parole in libertà spaccano in due nettamente la storia del pensiero e della poesia umana, da Omero all’ultimo fiato lirico della terra. Prima di noi paroliberi, gli uomini hanno sempre cantato come Omero, con la successione narrativa e il catalogo logico dei fatti, immagini, idee. Fra i versi di Omero e quelli di Gabriele D’Annunzio non esiste differenza sostanziale. Le nostre tavole parolibere, invece, ci distinguono finalmente da Omero, poiché non contengono più la successione narrativa, ma la poliespressione simultanea del mondo[9].

Marinetti prosegue poi con la constatazione che anche d’Annunzio e gli altri maggiori poeti del tempo hanno ceduto al fascino del paroliberismo, ed anche i migliori giornalisti ne hanno sfruttato appieno le risorse espressive:

È facile dimostrare come le parole in libertà abbiano anche influenzato il giornalismo. Si trovano continuamente degli articoli di stile velocizzato sintetico parole in libertà, balzi di pensiero, immagini vastissime, notazioni telegrafiche e simultaneità[10].

In un simile contesto autocelebrativo non può mancare, ovviamente, il riferimento all’estetica della macchina e al primo manifesto futurista del 1909 che ne ha segnato la nascita:

I nuovi poeti futuristi rivelati da me in questo volume sono quasi tutti della nuova estetica volitiva della macchina […] La macchina sintesi dei maggiori sforzi cerebrali dell’umanità. La macchina, equivalente meccanico organico del globo terracqueo. […] Non c’è salvezza dunque fuori dell’estetica della macchina e del suo splendore geometrico meccanico che noi futuristi predichiamo e glorifichiamo da 16 anni. […] L’estetica della macchina, cioè la macchina adorata e considerata come simbolo, fonte e maestra della nuova sensibilità artistica, è nata col mio primo Manifesto futurista del 1909, nella più meccanica città d’Italia: Milano[11].

L’introduzione culmina, poi, con il ricordo del successo ottenuto dal movimento futurista all’estero e in particolare in occasione dell’esposizione internazionale di arti decorative a Parigi e si chiude con la dichiarazione di Marinetti di sentirsi ancora «giovanissimo». L’atteggiamento assunto dal capo del futurismo nella prefazione all’antologia risulta dunque improntato alla massima prudenza. Marinetti, infatti, in pieno affare Matteotti, non vuole compromettersi troppo col regime ed evita, quindi, ogni allusione diretta al fascismo, tuttavia non rinuncia al progetto di presentare il futurismo come l’unica possibile espressione artistica dello spirito fascista, avendo compreso bene che soltanto in questo modo sarebbe stato possibile salvare il movimento futurista da un’altrimenti inevitabile emarginazione. Passando al piano dei contenuti, Jacobbi ha così definito l’antologia:

È un libro di tipico dopoguerra, scritto da ribelli italiani, quasi tutti di provincia (lo si deduce dai molti paesaggi, e dal tono delle implicite polemiche) istintivamente vicini ai modi e alla temperatura mentale dei loro confratelli specialmente francesi e tedeschi dell’epoca[12].

I quindici poeti nuovi che Marinetti presenta a dieci anni di distanza dalla prima antologia poetica futurista, e in un clima politico-sociale profondamente mutato dall’esperienza bellica, rappresentano, infatti, il ricambio generazionale del movimento marinettiano nel secondo tempo problematico della ricerca futurista, che si apre all’inizio degli anni Venti. D’altro canto, mettendo a confronto l’antologia del 1912 – che rappresentava un primo bilancio del futurismo all’indomani della recente fondazione del movimento – con quella del 1925, saltano subito all’occhio le numerose differenze tematiche e stilistiche che separano le poesie di queste due rassegne così distanti nel tempo. L’elemento comune ad entrambe è naturalmente il ribellismo anarchico ed anticonformista, che costituisce una costante irrinunciabile dello spirito avanguardista. Ma se il ribellismo dei primi poeti futuristi, non privo di connotazioni socio-umanitarie, affondava le sue radici nel maledettismo scapigliato della tradizione lombarda, quello dei nuovi poeti futuristi del dopoguerra è un ribellismo in tono minore, provinciale e “di maniera”, che senz’altro non ha più nulla di “eroico”.

Sebbene Cremonesi, ne La Fuga, inciti alla violenza antiborghese[13] o Gerbino, in Tutte dal Conte, inneggi genericamente ai valori della democrazia («Abbasso i privilegi. Viva l’uguaglianza»), in realtà i temi dominanti nella raccolta sono di natura diversa e ben si accordano con i gusti pseudo-anticonformisti del pubblico medio borghese degli anni Venti. I motivi privilegiati sono, infatti, l’erotismo, che in Farfa sconfina quasi nella pornografia, la violenza teppistica, soprattutto in Marchesi ma anche in Fillia, e naturalmente, l’elogio della civiltà industriale e dei suoi prodotti. Anche il mondo notturno della metropoli, animato dai cabaret e dai postriboli, non può non esercitare il suo fascino dal sapore trasgressivo su questi giovani poeti provenienti, la maggior parte, dalla provincia. Oltre allo stesso Fillia, quasi sempre orientato verso la rappresentazione della civiltà urbana notturna, anche Marchesi non disdegna le pose teppistiche, così come il Dolfi di Whiskj and soda che, come ha notato la Salaris, «canta il suo mondo notturno, il cabaret, in una Trieste attratta da Berlino»[14].

In definitiva, il tono “eroico”, violentemente dissacratorio, delle poesie del primo decennio futurista va attenuandosi nel corso degli anni Venti, fino a stemperarsi in un finto ribellismo dagli accenti irriverenti ed anche ironici. Il futurismo, ora, nella sua fase “cinica”, si adegua alle leggi di mercato, ed offre al pubblico borghese dei prodotti più fruibili, in quanto fintamente trasgressivi. Se poi prendiamo in considerazione le originalissime soluzioni stilistiche e tipografiche adottate dai nuovi poeti futuristi del ’25 e le confrontiamo con quelle, senz’altro più povere, dei poeti del ’12, anche in questo caso osserviamo che il volume del ’25 si presenta come un interessantissimo “oggetto di consumo”, confezionato con astuzia pubblicitaria da un esperto della réclame come Marinetti, ricco di interventi tipografici e di tavole ripiegate, finalizzate a catturate l’occhio del lettore, prima ancora che la sua sensibilità poetica.

Nella prefazione a I nuovi poeti futuristi Marinetti dichiarava con evidente soddisfazione: «di questi 15 poeti 8 sono paroliberi»[15]. E si tratta di una comprensibile manifestazione di orgoglio, dal momento che il capo del futurismo aveva dovuto attendere tredici anni per poter assistere alla pubblicazione di una nuova antologia di poeti che mettessero in pratica le regole sintattiche proposte nel Manifesto tecnico della letteratura futurista. Marinetti, com’è noto, aveva incluso questo manifesto nell’introduzione alla prima antologia, considerando già superata – nel momento stesso della sua proposizione antologica – l’esperienza versoliberistica, e aveva, quindi, annunciato l’imminente pubblicazione di una raccolta di poeti nuovi paroliberi (un altro annuncio è del 1915) che avrebbe visto la luce solo nel 1925.

Effettivamente sfogliando il volume del ’25, salta subito all’occhio la ricchezza delle soluzioni tipografiche utilizzate dalla maggior parte dei poeti antologizzati, fedeli tecnicamente ai dettami del manifesto del 1912 e del successivo Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica del 1914[16], con il quale Marinetti lanciava l’idea delle “tavole parolibere”. Le proposte avanzate da Marinetti nei manifesti del 1912 e del 1914 – le tavole sinottiche di valori lirici, le analogie disegnate, l’uso dell’onomatopea e dell’aggettivo “semaforico”, la visualizzazione tipografica del testo, ecc. – sono quasi tutte accolte dai poeti presenti nell’antologia.

Tuttavia, come avverte Jacobbi, si tratta di un paroliberismo solo apparente:

[…] il libro è assai curioso da guardare. Ma se si passa dal guardare al leggere, si vede poi che quasi tutti disobbediscono alle regole sintattiche del manifesto tecnico e tendono più che altro ad una sorta di poesia in prosa. (I paroliberi, dico; ché alcuni scrivono scopertamente in versi)[17].

Quella «svolta risintattizzante» che, dopo lo sperimentalismo sfrenato della prima stagione marinettiana, caratterizza la prosa futurista a partire dagli anni Venti, investe, quindi, anche il linguaggio poetico[18]. Ed infatti il paroliberismo de I nuovi poeti futuristi si risolve per lo più nell’adozione di una pluralità di corpi e caratteri tipografici diversi, che, utilizzati in maniera più o meno originale, nulla tolgono alla perfetta regolarità sintattica del linguaggio. In definitiva, sia sul piano dei contenuti (esotismo, erotismo, civiltà meccanica, vita notturna della metropoli, estetica della violenza) che su quello delle soluzioni tecnico-formali, l’antologia del ’25 testimonia perfettamente la trasformazione in senso consumistico-popolare, cui va incontro il futurismo nella seconda fase della sua ricerca artistica. Questo fenomeno, che va sotto il nome di “futurismo di consumo”, e che naturalmente si accentuerà nel corso degli anni Trenta, è stato ben illustrato da Enrico Crispolti:

Il nuovo futurismo […] affronta infatti il proprio presente, non più scartandolo in una fuga in avanti polemicamente utopica, ma in una concreta immediata sua praticabilità, che deve fare, e di fatto fa, i conti con altri interventi, concorrenziali nella risposta alle sollecitazioni dell’attualità […]. Lo sforzo creativo della ricerca, insomma, non è più di contrapporre un’immagine futura al presente “passatista”, ma di configurare un’immagine verosimile di un presente ormai sostanzialmente rinnovato, e rispetto al quale si verificano quindi situazioni non più di scontro, appunto come nello scarto utopico d’un tempo, ma di integrazione concreta in aspetti del gusto e dell’uso corrente, e insomma di effettivo “consumo”[19].

Inutile dire che proprio il progetto marinettiano di immettere l’arte futurista nei circuiti della cultura istituzionalizzata, finì per minare la sopravvivenza stessa del futurismo sottraendogli definitivamente la patente di movimento d’avanguardia:

L’irrisolvibile contraddizione insita nel tentativo di far confluire l’ideologia avanguardistica nel sistema istituzionale, non poteva che produrre la consumazione proprio di quegli elementi antagonistici, eversivi ed insieme novatori che avevano costituito la base ed il tessuto connettivo del movimento[20] .

Questo breve articolo è un estratto del saggio “I nuovi poeti futuristi”. L’“antologia” nella prospettiva futurista degli anni Venti, apparso nel mio volume Fillia poeta e narratore futurista. Dal “futur-comunismo” al genere “brillante”, Guida Editore, Napoli, 2012

[1] Sul periodo romano delle Edizioni Futuriste di «Poesia», cfr. C. Salaris, Marinetti editore, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 301-334.

[2] Glauco Viazzi che ha analizzato la struttura del futurismo evidenziandone le analogie con il partito politico e/o con l’azienda industriale, ha sottolineato anche la funzione speciale assegnata dal movimento futurista alle antologie: «Altro esempio poi di quella tendenza al “lavoro di gruppo” è dato dalle antologie futuriste, in quanto raccolgono soltanto autori aderenti al movimento, cioè militanti, pertanto costiuiscono (anche) documenti collettivi, qualificati, e qualificanti, non solo a livello di contribuzione personale, ma anche, appunto, a livello di solidarietà di gruppo, di formazione organizzata (che si organizza anche nell’atto di formare l’antologia)» (G. Viazzi, Il futurismo come organizzazione. Tecniche e strumenti di gruppo, «ES.», II, 5, Napoli 1976, p. 42).

[3] F. T. Marinetti (a cura di), I poeti futuristi, Edizioni Futuriste di «Poesia», Milano 1912, p. 49 e Id., (a cura di), I nuovi poeti futuristi, Edizioni Futuriste di «Poesia», Roma 1925, p. 4.

[4] G. Pattarozzi (a cura di), Carlinga di aeropoeti futuristi di guerra, Edizioni di «Mediterraneo Futurista», Roma s.d., ma 1940.

[5] Una riproduzione fotografica della lettera si trova in S. Evangelisti (a cura di), Fillia e l’avanguardia futurista negli anni del fascismo, Arnoldo Mondadori Editore/Edizioni Philippe Daverio, Milano 1986, p. 81.

[6] C. Salaris, Marinetti editore, Il Mulino, Bologna 1990, p. 302.

[7] Farfa, Lettera a Paolo Buzzi, in «Futurismo», II, 30, Roma 1933; cfr. Salaris, Marinetti editore, cit., p. 302.

[8] R. Jacobbi, Poesia futurista italiana, Guanda Editore, Parma 1968, pp. 58-59.

[9] F. T. Marinetti, Introduzione a “I nuovi poeti futuristi”, in L. De Maria (a cura di), Per conoscere Marinetti e il futurismo, Mondadori, Milano 1973, pp. 251-260.

[10] Ivi, p. 257.

[11] Ivi, pp. 257-258.

[12] Jacobbi, Poesia futurista italiana, cit., p. 59.

[13] «Vagabondi, pezzenti, / ribaldi d’ogni risma, / lasciamo i saggi / mercanteggiare nel Tempio: / È giunta l’ora / del grande Esodo! / […] / Amici io vorrei / che nel cuore di quella notte, / tutti noi, / martiri dell’idea, / ci dessimo un poco / a svaligiare i magazzini ben forniti […]» (S. Cremonesi, La fuga, in I nuovi poeti futuristi, cit., pp. 51-52; cfr. G. Viazzi (a cura di), I poeti del futurismo (1909-1944), Biblioteca Longanesi, Milano 1978, pp. 497-498).

[14] C. Salaris, Storia del futurismo. Libri, giornali, manifesti, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 180.

[15] Marinetti, Introduzione a “I nuovi poeti futuristi”, in De Maria (a cura di), Per conoscere Marinetti e il futurismo, cit., p. 253.

[16] Pubblicato su «Lacerba», II, 6, Firenze, 15 marzo e 7, 1 aprile 1914.

[17] Jacobbi, Poesia futurista italiana, cit., p. 59.

[18] Cfr. A. Saccone, Marinetti e il futurismo, Liguori Editore, Napoli, 1984 (nuova edizione 1998), pp. 107-110.

[19] E. Crispolti (a cura di), Svolgimenti del futurismo, in Gli Anni Trenta, Arte e Cultura in Italia, Mazzotta, Milano 1982, p. 176.

[20] E. Mondello, Roma futurista, i periodici e i luoghi dell’avanguardia nella Roma degli anni Venti, Franco Angeli, Milano 1990. p. 35.

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