Nel 1964, a circa dieci anni di distanza dalla fondazione di “Civiltà delle macchine”, fiore all’occhiello dell’intera attività giornalistica ed editoriale di Sinisgalli, troviamo quest’ultimo alle prese con la creazione di una nuova rivista aziendale, “La botte e il violino” (edita dalla Mobili Mim di Roma), che pur essendo la meno ambiziosa – e la meno durevole – tra le iniziative editoriali dell’ingegnere-poeta, riuscì ugualmente a rinnovare gli exploits creativi delle più note pubblicazioni degli anni cinquanta.
Intervenendo al Simposio di Studi su Leonardo Sinisgalli del 1982, Giuseppe Tedeschi – amico del poeta lucano e suo collaboratore nel periodo trascorso da quest’ultimo all’ENI – non esitava ad affermare, che negli otto fascicoli de “La botte e il violino” “l’inesausta vena di Sinisgalli si rivela ancora strepitosa”.[1] Tuttavia, gli scritti sinisgalliani pubblicati sulla rivista – note, riflessioni, frammenti di scrittura che lo stesso autore definì significativamente “carte lacere” – collocano “La botte e il violino” in una prospettiva socio-culturale (e artistico-letteraria) del tutto diversa rispetto alle precedenti riviste.
La “carte lacere” – stampate in corsivo, senza titolo, e poste in apertura di ciascun numero del “La botte e il violino” (1964-1966) – testimoniano complessivamente la graduale presa di coscienza da parte del poeta lucano dei discutibili mutamenti politici, economici, culturali in atto nell’Italia degli anni sessanta. Accantonati i facili entusiasmi e l’ottimismo del decennio precedente – un decennio di esaltanti scoperte tecnologiche e di grandi progetti di rinnovamento culturale – Sinisgalli non poté fare a meno di trasferire in questi insoliti e divaganti “editoriali” (ma anche nell’impianto generale della rivista) il proprio disagio intellettuale, la propria insofferenza, quasi un senso di frustrazione, dinanzi all’evidente involuzione morale e culturale della società italiana a lui contemporanea:
Il nuovo repertorio arriva in un momento di riflessione, non di scoperta. Vorrebbe tener d’occhio l’uomo e la casa, l’uomo e la città, l’uomo e il suo habitat. Troveremo anche in questo lavoro un punto di fuga? Sarà la casa, la città, la vita futura. Andremo a scoprire, se esistono, le condizioni di equilibrio, tra quantità e qualità, tra utilità e futilità, tra job e hobby, tra strumenti e idoli. La produzione sarà sottoposta a una più rigida vigilanza, anche l’arte, ma è molto difficile oggi raccogliere voci concordi.[2]
Nel brano appena citato, tratto da un’intervista rilasciata a Ferdinando Camon, di poco successiva alla fondazione della rivista, Sinisgalli, come di consueto, dichiara in prima persona e con estrema sicurezza e lucidità i caratteri e gli scopi del suo nuovo periodico (voluto dall’industriale “illuminato” Ennio Fazioli). Ciò che salta subito all’occhio è il graduale mutamento di rotta intrapreso dal poeta-art director al principio degli anni sessanta, quando all’ansia propositiva, progettuale degli anni giovanili andava sostituendosi una più matura e sofferta attitudine alla riflessione. Questa nuova avventura editoriale, insomma, sin dall’inizio si mostrò profondamente diversa – nei programmi e nelle aspettative – rispetto alle precedenti esperienze di “Pirelli” e di “Civiltà delle macchine”. Naturalmente, come queste ultime, anche “La botte e il violino” nasceva con le caratteristiche editoriali dell’house organ: una raffinata rassegna di “architettura abitazione arredamento” voluta dai titolari di una fabbrica produttrice di mobili, allo scopo di comunicare ai propri clienti un’immagine più “colta” e prestigiosa dell’azienda. Tuttavia non è possibile paragonare una piccola fabbrica come la Mobili Mim di Roma con i colossi produttivi (Pirelli, Finmeccanica) che avevano finanziato e patrocinato la nascita delle precedenti riviste. “La botte e il violino” ebbe, come è ovvio, una minore tiratura ed un pubblico più ristretto rispetto a “Pirelli” e “Civiltà delle macchine”, in quanto furono certamente più modesti i fondi da investire nel settore della pubblicità aziendale messi a disposizione dalla Mim. Questo elemento, tuttavia, solo apparentemente costituì un limite per la gestione della rivista; in realtà, lavorare per un’azienda non legata agli interessi politico-finanziari dei grandi gruppi industriali del nord Italia fu, per Sinisgalli, garanzia di una maggiore libertà di idee e di opinioni e significò la possibilità di poter lavorare in piena autonomia e con ritmi meno frenetici. Volendo considerare, nel suo complesso, la presenza di Sinisgalli all’interno della propria rivista, salta subito all’occhio la distanza, non solo cronologica, che separa “La botte e il violino” dai precedenti house organs. In questa rivista in definitiva, parlano gli altri: gli amici poeti, i giornalisti, gli artisti, gli architetti e i critici d’arte; non troviamo più, disseminati nelle diverse rubriche, articoli e note a firma del direttore, ma ci imbattiamo, in apertura di ciascun numero (dunque in uno spazio circoscritto), in brandelli delle sue “carte lacere”:[3] un insieme eterogeneo e discontinuo di note, riflessioni, frammenti di scrittura (in corsivo, senza titolo e firmati l. s.) dedicati ad argomenti disparati: considerazioni sul rapporto tra arte e tecnologia, sul design industriale, su problemi di urbanistica, sul ruolo dell’intellettuale nelle industrie, ma anche brevi note di critica letteraria e d’arte, ricordi personali, memorie d’infanzia, riflessioni sull’amicizia, sulla senilità, ecc. L’impressione che si ricava dalla lettura di queste “carte” è quella di una sostanziale stanchezza dell’autore, il quale, dopo gli “esaltanti” anni milanesi del dopoguerra, si trovava, negli anni sessanta, a dover constatare, non senza amarezza, il sostanziale fallimento di un suo antico progetto. “Pirelli” e “Civiltà delle macchine” avevano dato al poeta-ingegnere lucano la sensazione di aver contribuito in gran parte a realizzare il felice matrimonio tra intellettuali e industria, tra mondo dell’arte e universo tecnologico; successivamente, il mutato atteggiamento – negli anni del “boom” economico – dei nuovi imprenditori e industriali italiani (meno sensibili ai problemi della cultura) e i comportamenti errati di tanti intellettuali chiamati a lavorare negli uffici aziendali, avevano fatto fallire quel progetto. Su “La botte e il violino”, in una delle prime “carte lacere”, Sinisgalli prende atto, con malcelata amarezza, di tale fallimento:
In nome del buonsenso e della prudenza rispunta la reazione. È bastato uno scandalo per rinfocolare le speranze dei tradizionalisti. Dopo la pittura pop tutti sognano il ritorno al ritratto e alla cartolina. Anche l’austerità nasconde ipocrisia, avarizia, meschinità. La grande industria si toglie la maschera. […] La finanza e la tecnica si sbarazzano della cultura. (II, 1, 1965)
Parole dure sono usate contro gli intellettuali:
Le staff degli intellettuali vengono smantellate non solo a Washington e alle Botteghe Oscure, ma anche a Ivrea, a Cornigliano, all’Eur. La morte di Adriano Olivetti, nel nostro ambito, fu una sciagura tanto grave quanto la morte di Kennedy […]. Ahimè gli intellettuali sono andati nelle fabbriche come andavano nei casini: a prendere appunti! hanno continuato a scrivere imperterriti romanzi e poemi. Hanno lasciato all’industria qualche aggettivo, qualche tic, molto rimpianto tra le dattilografe. […] Sufficienti con i poveri colleghi non toccati dalla grazia, si cacavano sotto davanti allo spettro dell’Amministratore delegato! Per non sporcarsi le mani hanno ripreso a scrivere coi piedi. (Ivi)
Tuttavia le responsabilità maggiori del fallimento vanno addossate alle staff dirigenziali della grande industria che hanno voluto sbarazzarsi degli intellettuali, “in nome del buonsenso e della prudenza”:
L’industria non ha necessità di esprit. Ha chiesto esprit per dirozzarsi, per uscir dalla bottega, dal gergo. […] Per guadagnare i mercati ha sentito il bisogno di parlare per metafore, per ideogrammi, per simboli, come hanno fatto le religioni. L’industria presa dal panico cede il comando ai ragionieri. Questi mandano al fuoco gli stregoni. Ma il buon senso non basta a reggere neppure un manicomio. Ci vuole la filosofia anche per scegliere i nomi degli strofinacci. (Ivi)
Queste polemiche affermazioni di Sinisgalli – che sarebbero state assolutamente impensabili negli anni di “Pirelli” e di “Civiltà delle macchine” – ci aiutano a comprendere meglio di qualunque tentativo di analisi con quale spirito Sinisgalli si disponeva a dirigere la sua nuova pubblicazione aziendale e perché quest’ultima si presenta radicalmente diversa dalle precedenti. La parola “crisi” ricorre molto spesso negli articoli de “La botte e il violino”: crisi dell’architettura, del design, dell’arte, della poesia. Di crisi economica ancora non si parla, anche se all’ingenuo ottimismo degli anni cinquanta già subentravano i primi dubbi e le prime incertezze. Gli anni sessanta furono anni di transizione, di bilanci, e molto spesso poeti, artisti, architetti, stretti tra un radicale rifiuto del passato e un futuro dai contorni ancora incerti, faticarono a trovare una loro specifica dimensione. La rivista prese atto di questo fenomeno e lo registrò fedelmente attraverso una serie di articoli e inchieste, i cui autori – filosofi, sociologi, storici dell’arte – s’interrogano sulle ragioni che hanno portato all’involuzione di alcuni settori dell’arte e della cultura contemporanea e prendono posizione a favore o contro le nuove tendenze: Gillo Dorfles mette sotto accusa l’architettura che, nel delicato momento di trapasso dalla “fase artigianale” alla “fase industriale”, non ha saputo rinnovarsi adeguatamente (Dove va l’architettura?, I, 1, 1964), Rosario Assunto teme l’avanzata del “kitsch” e critica la moda delle riproduzioni meccaniche o fotomeccaniche di opere d’arte (Prototipo e archetipo, ivi), oppure, altrove, analizza le ragioni della crisi dell’industrial design, colpevole d’aver abolito la contemplabilità dell’oggetto, sacrificandola ad una fruizione meramente pratica (La crisi del Design, II, 2, 1965); anche Enrico Crispolti propone soluzioni per superare l’“usura intrinseca del disegno industriale” (Pezzi unici, ivi), mentre Giulio Carlo Argan vede nel successo commerciale della Pop Art americana un segno incontrovertibile della crisi dell’arte. Sinisgalli, dal canto suo, pur essendo consapevole di trovarsi a vivere in un delicato momento storico e pur condividendo le ansie e le preoccupazioni dei suoi collaboratori, non abbandonava del tutto la speranza di poter ripristinare su basi nuove e più salde quel binomio cultura/industria da lui sempre ritenuto indispensabile per una corretta evoluzione, senza abusi e senza forzature, della civiltà contemporanea:
Non è detto che prima o poi l’iniziativa non torni alle parole. Vedo i poeti scacciati dalle porte rientrare dalle finestre. Vedo i poeti al loro posto, nelle garitte, dietro una bancarella, agli sportelli, come gli apostoli. Quando il buonsenso sarà disfatto tornerà lo sperpero, il solo lusso dei poveri. (II, 1, 1965).
Nelle “carte lacere” pubblicate nei successivi numeri della rivista, Sinisgalli non tornerà più su questo argomento, preferendo abbandonarsi ai ricordi personali (memorie d’infanzia, episodi legati alla terra d’origine) o indirizzando la propria riflessione verso problematiche in qualche modo legate ai contenuti e alle finalità della rivista (urbanistica, sociologia dell’architettura, ecc.). Pur mutando l’oggetto della riflessione, tuttavia non sembra mutare lo stato d’animo del poeta che anche nelle successive “carte” non riuscì a nascondere la propria inquietudine esistenziale, né la propria insofferenza nei confronti dell’evidente involuzione morale e culturale della società contemporanea. Nel quarto numero de “La botte e il violino”, ad esempio, è il tramonto del “mito della qualità” – nell’industria come nell’arte – a stimolare l’amara riflessione del poeta:
L’industria e l’arte abbandonano il mito della qualità: sogno di una civiltà ingenua. […] L’industria […] per una fatale legge di degradazione – che è la legge dell’utile, del profitto, la fisica dei beni – è spinta dal consumo a cercare un corpo sempre più vile in cui infondere il soffio d’un idea. L’industria deve vendere oggetti sempre più spregevoli e sempre più perfetti. […] L’industria non dà più beni ma corpi. Anche l’arte vuol trasformare l’oggetto in una merce. (II, 2, 1965)
Il trionfo della produzione in serie – inevitabile in una società nella quale la richiesta di beni di consumo è in continua crescita – ha fatto sì che la perdita del “mito della qualità” fosse compensata, almeno in parte, dal nuovo “mito della precisione”; la crescente automatizzazione della produzione industriale e la nuova organizzazione del lavoro hanno, però, paradossalmente posto all’attenzione di tutti un problema nuovo, quello della pianificazione del tempo libero:
Bisogna invertire i comandi: dare ai filosofi l’organizzazione del lavoro e agli ingegneri quella del tempo libero. L’economia deve vincerla sull’estetica. Galilei deve sostituire Vico, e Aristotile Platone. Gli adulti devono tornare a scuola, non per studiare Belle Arti ma l’elettricità domestica, la meccanica dei condomini, la falegnameria di fortuna, l’idraulica d’emergenza. Con l’avvento di una lunga era di ozi preoccupiamoci di pianificare il farniente. (Ivi)
Nella prospettiva critica, e a tratti “nostalgica”, di Sinisgalli anche il marchio di fabbrica – “macula originalis” dell’industria – acquista delle valenze “mitiche” e diviene il simbolo di un’epoca aurea nella quale la produzione non era ancora soggetta “all’assillo della produttività”:
Il marchio è il rimorso dell’industria, la sua macula originalis. Ricorda alla fabbrica i pionieri, le ciminiere, le fonderie mitiche, la produzione libera dall’assillo della produttività, le raspe i segreti ingegnosi, l’operaio-ortolano. Il fabbro e il contadino sputavano sulle mani per stringere meglio l’utensile. Oggi il sudore è una sporcizia, ieri era un tributo ai santi. L’uomo non s’affatica più, si debilita. (Ibid.)
Nel sesto numero della rivista il pungente sarcasmo del poeta ha come obiettivo i cosiddetti “filosofi urbanisti” che, ossessionati dal mito della simmetria e guidati dai criteri dell’uniformità e della ripetizione, danno “la caccia al difforme, al dissimile, al differenziato”, progettando e costruendo anonime “città-multiple”:
La città, dicono questi soloni, nasce come un atto di violenza contro la natura. La città deve escludere la natura. Quale surrogato, quale metafora, memoria o veggenza, può nella vita tenere il ruolo della natura? Questo davvero sembra il compito dell’arte, merciaia di finzioni. La ripetizione, dicono gli esperti delle città multiple, non è una copia ma un’invenzione. Nell’identità è nascosto il germe della sorpresa, della meraviglia. Conoscere è riconoscere, e tante facezie del genere. […]. Loro sostengono che due, tre città uguali rappresentano un raggiungimento quasi mistico. L’uguaglianza di due o tre oggetti fa scomparire gli oggetti e fa nascere l’idea. […] Questo criterio guiderà non soltanto la produzione dei chiodi e delle pere, ma anche dei polli e delle tute. La caccia al difforme, al dissimile, al differenziato sarà condotta con lo stesso impegno che mettevano i priori nella persecuzione dei falsari e degli anomali. Dicono i filosofi urbanisti in coda al loro programma che alla religione dello slancio, dell’impeto, dovrebbe finalmente succedere la religione dell’immobilità. (II, 4, 1965)
Emerge con particolare vigore in questo brano la profonda avversione sinisgalliana nei confronti di qualunque azione tesa a paralizzare la libertà creativa individuale e quindi, più in generale, la polemica contro quella tendenza all’omologazione culturale, al livellamento dei gusti e delle idee tipica di tutte le società consumistiche. Già ai tempi di “Pirelli”, Sinisgalli aveva manifestato la sua attenzione per questo genere di problemi, occupandosi in particolare delle conseguenze di ordine estetico derivanti dagli eccessi della produzione standardizzata: in quella sede aveva proposto di reagire alla “brutalità di uno standard incontrollato e casuale” attraverso un radicale rinnovamento dell’industrial design, nelle “carte lacere” il poeta ritorna sulla questione, proponendo tuttavia una soluzione di segno inverso:
Il disegno deve correggere l’ottusità del design, così come l’istinto deve continuamente allargare gli argini della raison. Rimuovere i dogmi, flettere le metriche, scongiurare la mummificazione. Il disegno deve riempire il vuoto di tante belle forme preconcette. Il disegno deve dar vigore ai vasi inani. È la vocazione perenne alla sregolatezza che stringe patti col rigore. (Ibid.)
In concomitanza con la sua crescente passione per il disegno, Sinisgalli vide quindi in quest’ultimo, ovvero nella rivalutazione della componente istintiva, irrazionale della personalità umana, l’unica possibilità di sfuggire alla “mummificazione” delle idee, e di ritrovare – al di là della temibile “religione dell’immobilità” – lo slancio e l’impeto necessari per riempire di significato le “belle forme preconcette”. In conclusione, pare evidente che Sinisgalli avesse particolarmente a cuore questa nutrita serie di riflessioni, sia pure eterogenee e frammentarie, che intendeva raccogliere e pubblicare in volume subito dopo l’uscita di Cineraccio (1961). Che il poeta, poi, considerasse l’insieme di quelle “carte” una sorta di zibaldone autobiografico – “diario senza date”, “diario senza fine” – è l’autore stesso a dircelo in un ultimo frammento di scrittura:
Questo tentativo di biografia antimitica, senza emblemi e senza bandiere, senza superbia e senza onore, ma fabbricata di tritume, di banalità, di notizie psichiche fisiologiche atmosferiche, sarebbe assurdo e inutile se la povertà e la monotonia dei gesti e dei gemiti non esprimessero un terrore sacro, animale.[4]
[1] G. Tedeschi, Sinisgalli pubblicitario e inventore di riviste, in AA. VV., Atti del Simposio di Studi su Leonardo Sinisgalli [Matera-Montemurro 14-15-16 maggio 1982], Matera, Liantonio, 1987, p. 315.
[2] Cfr. F. Camon, Il mestiere di poeta, Milano, Lerici, 1965, p. 77.
[3] Le “carte lacere” di Sinisgalli, apparse in parte su “La botte e il violino” e in parte su “Il Mondo” (tra il 16 luglio 1963 e il 2 giugno 1964) dovevano originariamente uscire in volume, dopo la raccolta Cineraccio (1961), con l’editore veneziano Neri Pozza. Per motivi rimasti oscuri non videro mai la luce e solo successivamente sono state raccolte e ordinate in volume da Giuseppe Appella, cfr. L. Sinisgalli, Carte lacere (con nove disegni dell’autore), a c. di G. Appella, Roma, Ed. della Cometa, 1991.
[4] L. Sinisgalli, Carte lacere, a c. di G. Appella, cit., p. 115.