Se l’intera produzione poetica di Toti Scialoja – quella nonsensical e quella più seria e pensosa degli ultimi anni – ha ricevuto una definitiva sistemazione in due importanti volumi,[1] diversa sorte è toccata, invece, alla cospicua produzione critica e saggistica che, disseminata in giornali e riviste, attende ancora di essere recuperata e sottoposta ad un’accurata opera di revisione e di pubblicazione.
Oltre alle recensioni e cronache d’arte apparse su «Il Selvaggio» (firmate con lo pseudonimo Nero di Bugia), su «Mercurio» di Alba De Cèspedes (dal 1° settembre del 1944), su «Immagine» di Brandi (dal maggio del ’47) e su «Il Verri» dell’amico Luciano Anceschi, vi sono molti scritti inediti (lettere, articoli in bozza, appunti di diario, fogli annotati) che non sono andati dispersi grazie all’attività della Fondazione romana intitolata all’artista, nata il 19 maggio del 2000 (a due anni di distanza dalla sua scomparsa) per volontà testamentaria dello stesso Scialoja e della compagna Gabriella Drudi. Negli ultimi anni, diverse carte custodite nell’archivio romano sono finite in appendice a preziosi cataloghi d’arte: è il caso degli scritti di poetica degli anni Ottanta, dei testi di alcune interviste, di ampie porzioni del ricchissimo epistolario e anche di molte pagine del Giornale di pittura: l’affascinante diario dell’artista, redatto con meticolosa precisione nel decennio 1954-1964, sul quale intendo soffermarmi in questa nota.[2] Gli anni Cinquanta sono anni fertili di scoperte per Scialoja pittore che, abbandonata definitivamente la strada del figurativismo e sostituito il pennello con uno straccio intriso di colore in polvere mischiato a vinavil, scopre − attraverso il contatto con l’action painting newyorkese − «l’imprevedibilità creativa dell’automatismo»[3] e l’assoluta libertà del gesto pittorico. La lenta maturazione della «nuova pittura» − ovvero le singole fasi di questa sorta di «resurrezione» artistica − è registrata minuziosamente da Scialoja nel Giornale di pittura, al fine di documentare, giorno dopo giorno, la «gradualità irresistibile»[4] del suo cambiamento (ovvero l’approdo alla pura astrazione) e di «procedere per gradi verso una decente consapevolezza intellettuale».[5] Parzialmente edito da Editori Riuniti nel 1991 (con prefazione di Gillo Dorfles e poscritto di Doriano Fasoli), il Giornale è senz’altro un documento prezioso della ricerca filosofica e pittorica condotta dall’artista negli anni Cinquanta-Sessanta:
Un documento cui Scialoja affida tutto il suo pensiero sull’arte: da quello filosofico all’esperienza artigianale, dalla considerazione critica sulla pittura di artisti incontrati sul suo cammino e amati fino allo spasimo, fino ai pensieri più intimi; quasi ad accompagnare, in un immaginario dialogo con se stesso, le scelte teoriche e l’esatta definizione del suo pensiero sull’arte.[6]
Dal corpus del Giornale Scialoja estrapolò nel corso degli anni numerose pagine (con una prima significativa selezione d’autore), utilizzando quelle riflessioni estemporanee come presentazioni di sue mostre personali o scegliendo di pubblicarle su riviste letterarie e d’arte, sollecitato da Chiaromonte e Silone (per «Tempo presente») o da Luciano Anceschi (per «Il Verri»).[7] «Scritte direttamente a macchina, quasi convulsamente, senza badare a refusi o a parole rimaste sulla punta delle dita», le pagine del diario − scrive Fasoli − nascevano d’impeto, quasi sempre al mattino:
Scialoja non avrebbe mai pensato abbandonandosi alle parole delle sue visioni e persino delle sue contraddizioni, ad una pubblicazione di queste righe partorite con tanta furia e tanto abbandono; e, probabilmente, nemmeno di tessere una tale testimonianza storica (oltre che personale).[8]
In effetti, il Giornale costituisce un’importante «testimonianza storica», in quanto Scialoja registra in presa diretta e commenta “a caldo” gli eventi legati alla rivoluzione artistica in atto in America − a partire dall’action painting della metà degli anni Cinquanta fino all’esplosione della Pop art − e i suoi riflessi in Europa e in Italia, tra adesioni entusiastiche e inevitabili polemiche. Ma prima di ogni altra cosa il Giornale è un diario, non un journal intimo – avverte l’autore − in quanto in esso non sono registrati «se non per frammenti irrisori, avvenimenti, incontri, o emozioni del vivere quotidiano […]»,[9] ma uno zibaldone di «pensieri sulla pittura», scaturito da un bisogno pressante di chiarire a se stesso le ragioni del dipingere e di documentare in progress le fasi di una tormentata ricerca artistica, senza paura di ripetersi o di contraddirsi:
Questi appunti rappresentano piuttosto un graduale prender coscienza, dopo un faticoso risveglio (e un interminabile letargo). […] La doverosa compitazione di chi ricomincia da capo. Esperienze probabilmente elementari, affrontate come scoperte; e il rinnovato tentativo di portare alla luce di un proprio metro i pensieri anche più semplici. […] Ho infatti la sensazione, in questo Giornale, di dire sempre la stessa cosa, ripetere le stesse idee, riscoprire le stesse verità. Se in pochi anni sono arrivato persino a contraddirmi vuol dire che il mio passo, il mio respiro è lo stesso; sono le cose che cambiano intorno a me, perché io cammino.[10]
Nell’Avvertenza al Giornale − da cui è tratta questa citazione − scritta nel luglio del 1958, Scialoja dichiara di aver steso i suoi appunti «in modo sbrigativo e quasi automatico» e di aver lasciato le pagine «così come sono state scritte di volta in volta (a parte qualche indispensabile messa a punto formale)», al fine di conservare una loro «documentaria obiettività».[11] Naturalmente l’esistenza di questa Avvertenza fa supporre che Scialoja non escludesse la possibilità di una pubblicazione, in toto o in parte, del Giornale, ma al contempo intendesse salvaguardare la spontaneità dei pensieri contenuti in quelle pagine e preservare la naturalezza di una scrittura priva di mediazioni, di correzioni o autocensure:
“Giornale di pensieri per servire alla pittura”, o meglio “Giornale di pensieri sulla pittura” potrebbero intitolarsi questi cominciati a scrivere nella primavera del 1954, in fretta e a lunghi intervalli. […] Via via questo Giornale è diventato un’abitudine, e le pagine si sono infittite.[12]
Considerato l’alto tasso di “letterarietà” presente in queste note – che fanno da contrappunto lirico-filosofico all’attività pittorica di quegli anni – è senz’altro lecito considerare il Giornale un’importante prova di scrittura creativa; e certo non è un caso che la sua interruzione alla metà degli anni Sessanta coincida con la scoperta da parte di Scialoja della propria vocazione poetica. Come ha scritto Fasoli, l’interruzione del diario può essere spiegata proprio con l’esaurirsi di un’importante fase di ricerca durante la quale Toti aveva scritto «tutto ciò che gli era servito per scavare e per indagare».[13] In realtà, Scialoja pittore aveva davanti a sé nuove stagioni creative da attraversare: da quella delle cosiddette «quantità cromatiche» negli anni Settanta, alla riscoperta del gesto libero negli Ottanta, fino all’ultima esplosiva stagione degli anni Novanta. Ma il Giornale, come abbiamo detto, s’interrompe nel ’64 e anche se Scialoja continua negli anni successivi a stendere appunti, ad annotare riflessioni, lo fa sporadicamente, senza più la regolarità, quasi quotidiana, degli anni precedenti:
[…] dall’indagine razionale si passa a un’indagine soggettivamente dolorosa complementare a una terminologia filosofica attinta dal pensiero di Husserl, Heidegger, Merleau-Ponty […] A questo punto, concluso il periodo più sofferto della ricerca, la pagina sembra abbandonarsi a un desiderio di racconti immersi nella temperie letteraria.[14]
Nell’autunno del ’56 Scialoja è a New York. La metropoli americana diviene oggetto di descrizioni di grande suggestione poetica, stese come al solito in velocità, con tocchi rapidi come pennellate, sull’onda di un’emozione immediata:
Riassunto frettoloso di idee e impressioni, prima che dileguino. Sono stato di notte sulla terrazza più alta del Rockfeller Center. La città sconfinata, miliardi di piccole luci, ma come se trasparissero da una materia organica, un immenso polipaio, immensi molluschi traslucidi in cui la vita si accendesse e trasparisse, come da un cervello fosforescente. Il fondo del mare della vita, brulicante, rivelato, vivo come fosse sbucciato. Ecco cosa era New York: una città senza crosta. L’idea di costruire i grattacieli di vetro appariva già attuata o comunque naturale, dato che la vita accendendosi traspariva, e quelle torri sconfinate ed accese apparivano già tutte di vetro o di qualche plastica trasparente.[15]
In una città così umorosa e organica, vitale ed estroversa, è potuta nascere una nuova pittura «trasparente, direttamente umana fuori d’ogni principio di autorità e di trascendenza: una pittura senza crosta».[16] Nei lunghi e concitati appunti del Giornale datati “New York, 28 novembre-4 dicembre 1956”, Scialoja chiarisce meglio le ragioni della sua adesione al non-figurativo, intesa ora «come premessa assoluta dell’immaginare pittorico»:
[…] la vita dell’anima − scrive l’artista − può essere manifestata plasticamente non solo dall’espressione del viso, dai gesti del corpo, dalla voce e dalle lacrime, ma anche dalla disposizione di segni che non significano nulla.[17]
«Oggi pittura vuol dire soltanto presenza gremita di segni»,[18] leggiamo in un appunto datato “maggio 1956”: tracce liberamente impresse sulla superficie che, in apparenza non significanti, esprimono in realtà un bisogno imperioso di “confessarsi”, di farsi tutt’uno con la materia, di immergersi liberamente nel fluire delle cose. Sulla tela affiorano ora segni incongrui, contraddittori, asimmetrici, e però estremamente liberi e vivi in quanto «bisogna partire dall’incongruo per essere vitali».[19] Quella a cui aspira l’artista, insomma, è un’arte totalmente emancipata: assolta dall’obbligo di “significare” a tutti costi qualcosa, libera di contraddirsi e, anzi, soddisfatta della propria (apparente) gratuità. A ben guardare non siamo troppo distanti dalle premesse teoriche della poesia nonsensical che di lì a poco Scialoja avrebbe cominciato a praticare. Nei versi nonsensici − incongrui e astratti − il significante si mostra a prima vista del tutto svincolato dal significato in nome del puro «gioco fonemico e allitterativo», in realtà − come ha scritto Piergiorgio Odifreddi − «benché il non-sense venga spesso inteso come mancanza di senso, […] esso è […] solo negazione di senso, e presuppone dunque la sua presenza»;[20] il significato, insomma, non è assente ma dissimulato, straniato, “sparpagliato” nelle sillabe, ad esso si «perviene in seconda istanza, come ad una scoperta», dopo aver gustato la sonorità irresistibile delle parole che ci sospingono fuori dal recinto della logica comune e ci trascinano in una «sorta di logica altra, che procede verso l’assurdo»:[21]
È chiaro che poi essa [la parola] ha anche un significato; ma esso riguarda anche ciò che appartiene al sentimento e a questa dimensione si perviene in seconda istanza, come ad una scoperta. Non è che ho una cosa nel cuore e cerco di esprimerla. È al contrario la parola che emerge carica di simbolo, di peso, di un rapporto che intrattiene con il mio intimo proprio in quanto parola; solo successivamente scopro che in realtà ha anche un altro messaggio, che io porto a me stesso.[22]
Queste affermazioni − riferite alla produzione poetica degli anni Sessanta-Settanta, − risalgono al 1992, ma già nell’ottobre del ’57 Scialoja annotava nel Giornale un pensiero non dissimile sull’arte, intesa come impulso non mediato, azione non premeditata:
Sono stato felice ogni volta che il gesto ha preceduto il pensiero, la parola ha preceduto il sentimento, l’abbraccio è venuto prima dell’amore. Sono intero solo quando è la vita a condurmi.[23]
La felicità dell’atto creativo risiede in questo totale «abbandono» dell’artista che si affida «alle potenzialità del colore e della pennellata» (o alla magia sonora delle parole) e si lascia condurre verso esiti inaspettati:
Si agisce procedendo nel nulla senza nessuna certezza se non del moto. [Dipingere] Vuol dire chiedere a se stessi quello che si ignora di sé; sollecitare un risultato ignoto, che può arrivare a te a ogni ora, da ogni punto del tuo lavoro […].[24]
È forse questo modo di «dipingere ignorando tutto», di «lavorare in una infanzia perpetua»[25] per scoprire un’esistenza altra attingibile «oltre il recinto» delle convenzioni comuni, la lezione più importante appresa da Scialoja durante il soggiorno americano; una lezione rimeditata nelle pagine del Giornale di pittura e infine pienamente operante nell’approccio alla poesia. A metà degli anni Cinquanta, Scialoja – che ha finalmente scoperto la straordinaria forza liberatoria del gesto, che lo sospinge lontano da quello che Pasolini definiva il «volgare ornato geometrico-coloristico che è stato con qualche eccezione, l’astrattismo patrio di questo decennio»[26] – punta non più alla rappresentazione di forme e colori nello spazio ma a dipingere lo spazio del quale sente di essere parte:
La pittura cosiddetta ‘astratta’ mi ha insegnato a sentirmi vivo, ad essere vivo, mi ha dato gli strumenti per essere vivo e riconoscermi nella realtà. […] Quel che io faccio non è più un dipingere, è solo un vivere la pittura. […] Nuova sensazione, nuovo concetto di spazio, di cui faccio parte e che ‘agisco’ dal di dentro. È come se l’universo fosse entrato in me. Come se la mia intera vita si fosse sparpagliata intorno a me con la misura e il respiro di ogni altra cosa che esista insieme.[27]
Questo appunto del Giornale di pittura (palpitante di vitalismo post-dannunziano) è datato ottobre 1954. Quattro anni dopo Scialoja torna a parlare di astrattismo e di pittura gestuale, chiarendo ulteriormente le ragioni del proprio «automatismo» pittorico che, lungi dall’essere «una tecnica esoterica» per sollevare il velo di Maja, per compiere «un’esplorazione del labirinto e del sogno» o per proiettarsi verso «l’inespresso e l’inconscio», è intesa come «un modo per sentirsi più riccamente, più completamente vivi».[28] Lo straccio «stretto a batuffolo», intriso di pigmento e impresso sulla tela con moto istintivo, si presenta come lo strumento più idoneo per arrivare ad una «comunicazione interamente fisica» con il «fondo concreto dello spazio»:[29]
Attraverso le viscere dello straccio che stringo tra le dita e sento muoversi e resistermi, attraverso questo mezzo aggrovigliato e inzuppato di colore, tanto che l’intera mano mi si bagna fino al polso, mi pare di vivere immerso.[30]
La suggestione di Kline è evidente in questo procedimento fondato sulla forza cieca, immediata del gesto; Scialoja, che rifugge dall’eccesso di «velocità», dall’«impazienza» dei suoi colleghi d’oltreoceano e intuisce la minaccia di una precoce stagnazione insita nella loro pittura gestuale e automatica, ammette però di aver appreso da essa una fondamentale lezione di libertà e anche di profonda umanità:
Il messaggio della pittura di Pollock (già quasi completamente dimenticato e travisato, proprio a New York) è per me un messaggio di carica umana nell’opera, di trasmissione totale e nel profondo della vita umana nella materia espressiva, nel processo stesso del fare.[31]
La violenza anarchica del gesto – che nei giovani astrattisti newyorkesi rischiava di divenire compiaciuto gioco di maniera – è ricondotta da Scialoja all’interno della forma e trova un «freno» nella chiusura dell’impronta. L’atto dello stampare − cioè di «trasferire un colore già spalmato su di una superficie di carta matrice, premendolo e battendolo su di una nuova superficie di tela che dovrà accoglierlo» −[32] è il metodo di lavoro adottato dall’artista a partire dall’estate del ’57 a Procida:[33]
La forma è dunque per Scialoja, ora, il freno posto all’arbitrio della superficie. La forma è l’impronta. L’impronta è a sua volta, la necessità di ricondurre l’eccezione all’interno della norma: è il dato che mitiga il cieco furor degli action painters, che guida il volo notturno del gesto libero sulla tela.[34]
Il passo ulteriore si compie l’anno successivo: «Nel 58, attraverso il mio gesto vero ho raggiunto il mio vero ritmo, cioè quella certa ripetizione del gesto che è il mio naturale modo di esistere».[35] L’operazione di stampaggio dell’immagine, «trasmessa tutta insieme e in uno stesso momento», viene ora ripetuta più volte sulla medesima superficie, con ritmo cadenzato: l’impronta che si replica sempre uguale, sbiadendo progressivamente, quasi spegnendosi, nella dimensione spaziale della tela, reca in sé la traccia del tempo che fluisce; un tempo soggettivo che interviene a vivificare, dinamizzare ritmicamente la superficie piana del quadro. Le pagine del Giornale scritte nel corso del mese di marzo del 1958 sono tutte incentrate su quest’ultima esaltante «scoperta» e ne registrano minuziosamente le fasi:
Il rapporto tra me e la tela è piuttosto nel tempo ora che nello spazio. […] La decima impronta non avrà la freschezza e l’acerbità della prima come per un invecchiamento, per una saggezza acquistata […][36]
Stampare vuol dire per me esprimere, manifestare la mia vita dal più profondo, il mio trascorrere come essenza, come verità.[37]
Per Scialoja, insomma, dipingere significa essenzialmente partecipare «al flusso della realtà, a questa comunicazione incessante»,[38] affermare la propria esistenza nel mondo: reagire alla «demente ferocia della vita», recuperando attraverso la pittura «una altrettanto feroce, forse stupefatta immortalità».[39] Dipingere per essere/sentirsi vivo a dispetto di quella pulsione-di-morte (Freud) o essere-per-la-morte (Heidegger) che condurrebbe l’uomo − ogni uomo −, consapevole della propria finitezza, verso l’annullamento di sé («la pittura è un modo di esorcizzare questa indecente corsa alla distruzione»[40]). È questa disperata volontà di esserci (l’heideggeriano Dasein) nonostante tutto e tutti, che spinge l’artista a recuperare il senso della temporalità («versare il tempo nello spazio») attraverso la creazione di «rapporti ritmici» che leghino gli elementi (linee, forme, colori) della superficie. L’impronta – quale «grumo, coagulo di tempo: attimo fatto carne» – costituisce l’unica possibilità di sfuggire all’inerzia della materia, alla paralisi formale; il suo persistere nella ripetizione è l’antidoto all’immobilità, altrimenti esiziale, dello spazio-superficie:
Comporre secondo il tempo, non più secondo lo spazio. L’emozione del succedersi (il teatro umano, il dramma dell’accadere). Ciò che accade, che persistendo si ripete, cioè insiste nel suo essere, voler essere, vivo. […] Occorre umanizzare lo spazio – la superficie fisica, la materia – attraverso il tempo – il respiro vivente, l’identità nel fluire, la persistenza nel consumarsi, la continuità nell’estinzione. […] Spazio è pura immobilità. Ciò che è vivo è per essenza non-immobile, è patimento di tempo, anzi è tempo incarnato, vita in atto.[41]
Negli anni Sessanta si fa più pressante il bisogno di “temporalizzare” l’immagine. La presenza, ora, sulla tela di inserti materici − corde, merletti, ritagli di giornale che collegano le impronte scandendo con maggiore evidenza la loro successione ritmica sulla tela − sta ad indicare una nuova esigenza di “racconto” da parte dell’artista, il bisogno di conferire un’articolazione narrativa alle immagini che, allacciate tra loro in uno speciale «percorso spazio temporale», si susseguono ad intervalli regolari invitando ad una “lettura” da sinistra verso destra:
Teoricamente i miei quadri dovrebbero essere letti come un percorso da sinistra a destra, perché è così che li faccio. Naturalmente non è una lettura obbligata, ma è una chiave. […] Quindi è proprio un percorso, un percorso temporale, spazio temporale che crea un racconto […] Per me il percorso da una prima impronta a sinistra, fino a una seconda, una terza, è uno scorrere che crea una memoria, è una prospettiva che si struttura nel tempo. Cioè il significato del racconto si affida proprio al salto tra una prima e una seconda, tra una seconda e una terza impronta, e alla durata di questo salto, o pausa.[42]
Queste dichiarazioni − rilasciate a Nello Ponente nel corso di un colloquio per la rivista «Marcatre» − risalgono al settembre del 1964, anno in cui Scialoja rientra in Italia dopo il lungo soggiorno parigino, durante il quale ha ritrovato il gusto per la parola poetica cimentandosi nell’invenzione dei suoi primi versi nonsensici. Nello stesso anno, come abbiamo detto, s’interrompe il Giornale («La pittura […] poteva procedere senza più parole che l’accompagnassero e la rimettessero in gioco»)[43] e non è certo un caso che l’approdo ad un linguaggio pittorico più strutturato ritmicamente (per pause e salti) avvenga in concomitanza alla parallela scoperta di un linguaggio poetico ugualmente fondato sulla struttura ritmica del verso:
Infatti, identificato il proprio linguaggio espressivo nelle impronte, Toti può dedicarsi alla poesia, e recuperare il ritmo interno della parola poetica cominciando a scrivere, quasi per gioco, le sue prime poesie nonsense.[44]
Questo saggio è apparso (con qualche variante) nel volume Memoria della modernità. Archivi ideali e archivi reali a cura d C. Borelli, E. Candela, A. R. Pupino, Atti del XIII Convegno Internazionale della MOD 7-10 giugno 2011, Edizioni ETS, collana MOD, 2013, pp. 175-187.
[1] Ci riferiamo al volume curato da Giovanni Raboni Poesie 1979-1998 (Milano, Garzanti, 2002) e ai Versi del senso perso, con Introduzione di P. Mauri e Postfazione di O. Bonifazi (Torino, Einaudi, 2009), che riproduce la raccolta mondadoriana del 1989.
[2] Il voluminoso dattiloscritto del Giornale di pittura − conservato presso l’archivio della Fondazione Toti Scialoja di Roma − presenta una numerazione di pagina progressiva per ciascun anno. Ogni appunto contiene l’indicazione del mese e dell’anno in cui è stato scritto. Alcune pagine scelte del diario sono state pubblicate nel volume Toti Scialoja, Giornale di pittura, Prefazione di G. Dorfles, Poscritto di D. Fasoli, Roma, Editori Riuniti, 1991(d’ora in avanti GP). Ampi stralci del dattiloscritto, non confluiti nell’edizione del ’91, sono stati pubblicati in Vita, opere, fortuna critica (d’ora in avanti VOF) a cura G. Appella, in Toti Scialoja. Opere 1955-1963, Mostra alla Galleria dello Scudo, Verona, 5 dicembre 1999 – 13 febbraio 2000, catalogo a cura di F. D’Amico, Skira, Milano 1999, pp. 127-216.
[3] F. D’Amico, Toti Scialoja: dagli esordi agli anni Sessanta, in Opere 1955-1963, cit., p. 15.
[4] GP, p. 21.
[5] T. Scialoja, Avvertenza a questo Giornale, luglio 1958, p. 64bis del dattiloscritto; cfr. VOF, p. 151.
[6] B. Drudi, Toti Scialoja. Pittore e poeta, in Toti Scialoja, pittura e poesia. Opere su carta, catalogo della mostra, Accademia Nazionale di San Luca, Roma, 26 novembre 2004-8 gennaio 2005, De Luca Editori d’Arte, Roma 2004, p. 17.
[7] Cfr. D. Fasoli, Poscritto, in GP, p. 186.
[8] Ibidem.
[9] T. Scialoja, Avvertenza a questo Giornale, in VOF, p. 151.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] D. Fasoli, Poscritto, in GP, p. 186.
[14] Ibidem.
[15] GP, pp. 26-27.
[16] Ivi, p. 27.
[17] Ivi, pp. 32-33.
[18] Ivi, p. 23.
[19] Ivi, p. 35.
[20] P. Odifreddi, Meraviglie nel paese di Alice, Progetto Polymath, Politecnico di Torino, 6 giugno 2005. Cfr. areeweb.polito.it/didattica/polymath/htmlS/Interventi/Articoli/Alice/Alice.htm
[21] T. Scialoja, “Una grande voglia di poesia”, in Toti Scialoja. Opere 1983-1997, Mostra alla Galleria dello Scudo, Verona, 9 dicembre 2006 – 28 febbraio 2007, catalogo a cura di R. Lauter e M. Vallora, Skira, Milano 2006, p. 226.
[22] A. Tinterri, Scialoja, il topino e i nonsense per il nipotino James, in «Il Secolo XIX», 21 agosto 1992.
[23] GP, p. 74.
[24] Ivi, p. 61.
[25] Ivi, p. 73.
[26] P. P. Pasolini, Presentazione al catalogo della mostra Toti Scialoja, Galleria del Teatro, Parma, 18-27 maggio 1955 (cfr. VOF, p. 155.)
[27] Appunto del Giornale di pittura, ottobre 1954, p. 10 del dattiloscritto; cfr. VOF, p. 153.
[28] GP, p. 90.
[29] Ivi, pp. 9-11.
[30] Ibidem.
[31] Ivi, pp. 68-69.
[32] Ivi, p. 77.
[33] «Lavoravo a Procida, in una casa di campagna, e quell’estate attraversai una serissima crisi di identità pittorica. Ogni mio intervento sulla tela inchiodata al suolo mi appariva ingiustificato e arbitrario. Così copersi la tela di nero e attesi. Per giorni e giorni mi ‘sfogavo’ spalmando colore sulle cento carte di giornale che ingombravano lo studio, finché un giorno, forse un colpo di vento, rovesciò un foglio sulla tela. Può essere che l’abbia sognato.» (Cfr. Toti Scialoja. Opere dal 1940 al 1991, catalogo della mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, 31 maggio-30 settembre 1991, p. 53).
[34] F. D’Amico, Toti Scialoja: dagli esordi agli anni Sessanta, in Opere 1955-1963, cit., p. 21.
[35] Appunto del Giornale di pittura, maggio 1958, p. 36 del dattiloscritto; cfr. VOF, p. 165.
[36] GP, pp. 84-85.
[37] Ivi, p. 87.
[38] Ivi, p. 5.
[39] Cfr. La parola agli artisti, rubrica di «Flash Art», ottobre-novembre 1989, 152.
[40] Ibidem.
[41] GP, pp. 103-104.
[42] Cfr. N. Ponente, L’intervista con i pittori, in «Marcatre», 1964, 8-9-10.
[43] D. Fasoli, Poscritto, in GP, p. 186.
[44] B. Drudi, Toti Scialoja. Pittore e poeta, in Opere su carta, cit., p. 17.