L’erranza – il volume di memorie in forma epistolare pubblicato da Carlo Muscetta nel 1992 (Edizioni il Girasole) e riproposto da Sellerio nel 2009 a cura di S. S. Nigro – non è la semplice autobiografia di un intellettuale engagé, vissuto in anni roventi del nostro Novecento, ma qualcosa di più complicato e di più avvincente; e ciò in quanto Carlo Muscetta non è stato soltanto un illustre esponente del mondo accademico italiano e un acutissimo lettore di poesia, ma un personaggio stratificato, complesso, formatosi attraverso un percorso esistenziale piuttosto accidentato, segnato da eventi traumatici (tra cui anche il carcere a Regina Coeli nel ’43, ma non solo quello) e costellato di incontri fondamentali (da Dorso a Croce, da Pertini a Ginzburg, da Pavese a Pintor, a Einaudi e tanti altri).
Saggista, traduttore, polemista, critico militante, consulente editoriale, professore universitario animato da fiero «spirito antiprofessorale» (come egli stesso amava dire),[1] Carlo Muscetta è stato nel corso della sua lunga vita tutto questo e molto altro ancora. Sopra ogni cosa è stato un “intellettuale di sinistra” quando era ancora viva e socialmente operante la funzione intellettuale e, soprattutto, quando connotarsi come «uomo di sinistra» significava collocarsi, senza remore e ambiguità, in un preciso fronte socio-politico e culturale.
Con in mano un contratto editoriale già firmato, indispensabile per sferzare una ben radicata tendenza alla pigrizia, Carlo Muscetta, ottuagenario ancora lucidissimo e combattivo, decide nel 1992, di stendere le sue memorie e di renderle pubbliche con un titolo – L’erranza – tutt’altro che casuale:
Bisogna che io superi la mia contraddizione mortale tra una struggente vocazione all’inerzia e la voglia di viaggiare, l’abbandono all’“errore” ariostesco o (come tu preferisci) all’“erranza”, che è parola del giovane Dante, di un giorno in cui tutti i suoi pensieri parlavano d’amore, sicché era incerto, “come colui che non sa per quale via pigli lo suo cammino, e che vuole andare e non sa onde se ne vada”.[2]
Il racconto di una vita inquieta, dunque, vissuta da “girovago” anticonformista, segnata da cambiamenti, traslochi, e continui congedi da città, grandi e piccole, rimastegli nel cuore: l’amatissima e mai dimenticata Avellino, la Firenze degli anni universitari, la Molfetta degli anni d’insegnamento al liceo, e poi Catania, Parigi, Roma, negli anni della non facile carriera accademica, e infine Capalbio e Aci Trezza: un continuo viaggiare, traslocando da una casa all’altra – come ricorda la figlia Mara –[3] tipico di chi «ha in orrore l’abitudine» e ha eletto l’erranza a cifra della propria esistenza. Raccontare, o meglio “raccontarsi”, allora, diviene un modo per trovar requie, per tirare le somme, ma al tempo stesso per continuare, sia pure virtualmente, questo “vagabondaggio”, magari rintracciando nel flusso dei ricordi le linee di un esemplare percorso intellettuale e, forse, il senso ultimo delle proprie scelte esistenziali, culturali, ideologiche… Insomma, è l’eccezionalità della biografia muscettiana ad autorizzare senza dubbio una lettura delle sue memorie in chiave di bildungsroman. La vita di Carlo Muscetta è un romanzo, è la storia straordinaria, a tratti avventurosa, di un “individuo” che compie un apprendistato, che si forma e giunge all’età adulta all’interno di una “collettività”, rispetto alla quale si pone in modo critico, polemico, in quanto sinceramente animato da forti istanze utopistiche di rinnovamento politico-sociale. Nonostante l’avversione per i molteplici aspetti involutivi della politica e della società italiana post-resistenziale, Muscetta preferisce sempre la partecipazione polemica all’isolamento, l’estroversione sdegnosa alla regressione pessimistica; la sua esistenza si consuma interamente, e anzi acquista un surplus di senso, sempre e solo all’interno dello spazio sociale in cui egli vive ed opera. Dotato di un carattere curioso, impulsivo, inquieto, lo studioso non rinuncia mai ad esplorare lo spazio sociale attorno a sé e a sperimentare fino in fondo quegli «attributi “giovanili” di mobilità e irrequietezza interiore»[4] che – per Franco Moretti – sono i tratti distintivi del personaggio-protagonista del «romanzo di formazione» classico, altrimenti definito «romanzo di socializzazione».[5] Se la struttura dell’Erranza è estremamente moderna, duttile, per nulla vincolata alle norme della tradizionale narrazione autobiografica – penso alla disarticolazione della fabula distillata in 40 lettere di varia misura, alla presenza massiccia di citazioni intertestuali, di versi e frammenti poetici che interrompono l’azione narrativa –, la vicenda esistenziale che questo libro racconta ricorda, invece, da vicino quella di un personaggio da romanzo ottocentesco, da bildungsroman di area anglosassone: un personaggio che giunge a maturazione (e acquista stabilità) solo al termine di un processo formativo lungo e difficile, fatto di incontri e di scontri, di traumi e di cambiamenti, di passioni e di rabbiose delusioni. Muscetta è perfettamente consapevole dell’unicità ed esemplarità della propria esistenza, privata e pubblica, ed è proprio tale consapevolezza a far scattare la molla dei ricordi, il desiderio di raccontare:
[…] son tenuto a scrivere – leggiamo nella lettera al figlio Sergio – perché m’illudo che il mio nome almeno per qualche anno non scomparirà tra tutti i nessuno della letteratura, che pur son vissuti.[6]
E da qui, ovvero dalla preoccupazione ansiosa di non far obliare il ricordo di sé, che, probabilmente, discende la volontà di essere il più possibile “preciso”. Il “pellegrino” che “erra” nella selva dei ricordi non vuole commettere errori: pretende di ripercorrere il cammino della memoria «nella verità», senza farsi «deviare dall’ottimismo dell’immaginazione, verificando e controllando i dati», pur nella consapevolezza di essere (a dirla con l’amatissimo Gioacchino Belli) «poco “memorioso” e molto “letteroso”».[7] Oltre alla memoria dal funzionamento difettoso, anche preoccupazioni di altro genere sembrano frenare, inizialmente, la vena affabulatoria dell’anziano narratore che non può fare a meno di interrogarsi circa il senso e l’opportunità di un’operazione faticosa, ovvero mettersi a scrivere memorie, condotta in un momento della storia in cui «tanta gente […] lavora per la fine del mondo»:
[…] temevo di essere troppo ottimista per l’interesse che oggettivamente potrebbe avere una mia autobiografia, anche se ho avuto incontri degni d’essere ricordati per le persone che ho conosciute. Ma soprattutto mi scorava il beffardo pessimismo di una battuta di Moravia, non ricordo a che proposito: “memorie d’oltre bomba”. Con tanta gente che lavora per la fine del mondo, mettersi a scrivere un’autobiografia aveva senso?[8]
Ma tornando al tema della memoria, questo è presente soprattutto nelle lettere iniziali, nelle quali più volte è sottolineata la difficoltà del giovane Muscetta di tenere a mente le cose e, quindi, di serbare i ricordi. Nella lettera a Sarah Forti, ad esempio, nella quale rievoca il proprio passato di talentuoso attore dilettante, Muscetta si rammarica di non aver potuto intraprendere quell’affascinante carriera (verso la quale si sentiva naturalmente portato…) anche, e soprattutto, a causa di una memoria lacunosa:
Avrei potuto fare l’attore, io che ho solo memoria figurativa e associativa, e sono affatto sprovvisto di facoltà mimetiche?[9]
Il problema di una memoria dal cattivo funzionamento, tutt’altro che precisa e affidabile, ritorna dunque più volte all’interno del libro, specie nelle lettere ai familiari, quasi a volersi scusare con loro per le eventuali inesattezze o per chiedere soccorso, onde garantirsi dagli «scherzi del rimosso»:
Mi domando, figlio mio, – leggiamo nella lettera a Sergio – se ha un senso che io tenti di scrivere lettere autobiografiche, dopo quell’unicum che sono le Memorie di mio padre dove giorni, ore, cifre, tutto è ricordato con invidiabile precisione di sequenze.[10]
Delle Memorie di un commerciante del Cav. Angelo Muscetta, pubblicate nel ’65 su «Nuovi argomenti», il nostro parla diffusamente nella lettera ad Attilio Marinari. Muscetta figlio racconta, con malcelato orgoglio, del «ritmo narrativo» di quel libro di ricordi paterni, dell’«unicità» della sua «parlante scrittura», nella quale è rintracciabile una «deliziosa verve bouffonne», irresistibile ma sempre controllata «con misura d’attore»; soprattutto egli insiste sulla «minuziosità» e «scrupolosità» di «cronista» del padre, «preoccupatissimo di non essere creduto».[11] È una preoccupazione che Muscetta figlio condivide, anche se poi nella già citata lettera a Sergio, lo smemoratissimo «autobiografante» dichiara di non inseguire mai i ricordi ma piuttosto di lasciarsi «sorprendere» da essi, «da quel che gli sovviene».[12] In realtà, molti e puntuali sono i ricordi che assalgono la mente dell’anziano narratore. Le quaranta lettere che compongono il volume sono fitte di episodi, di circostanze e soprattutto di nomi: nomi di familiari, di compari e comari avellinesi, di amici d’infanzia e di giovinezza, di compagni di cella e di partito, di poeti, di giornalisti, di scrittori, e di generazioni di alunni affezionatissimi. Alcuni nomi, tuttavia, (quelli di Dorso, di Croce, di Ginzburg, di Pavese) intuiamo che sono più cari di altri all’autore, nomi di personaggi incontrati, amati e poi raccontati con quel tratto di penna lieve e confidenziale che caratterizza il modo di narrare di Carlo Muscetta, un modo che conserva la sua eleganza e sottigliezza (anche quando i fatti da raccontare sono assolutamente gravi) e che è sempre pervaso da uno humor saporoso, di matrice tipicamente meridionale. In breve, Muscetta prosatore, attraverso la formula della narrazione autobiografica in forma epistolare, formula collaudata nella nostra tradizione letteraria dal Foscolo in poi, si rivolge in modo cordiale al lettore, comunicandogli esperienze, private e pubbliche, che si trasformano in altrettante occasioni di riflessione o di emozione. Emozionano ad esempio le lettere piene di affetto e di gratitudine scritte alla moglie Marcella (dedicataria del libro) e ai figli Mara e Sergio, come pure le altre indirizzate a fratelli e nipoti che racchiudono i ricordi dell’infanzia trascorsa a Borgo Ferrovia ad Avellino, e quelli legati alla scoperta dell’amore e della sessualità. Nella lettera ad Anna Muscetta, ad esempio, veniamo a conoscenza dell’amore tenerissimo per la prima maestra, Alessandra, impegnata ad insegnargli «La Vispa Teresa o altri versi della stessa classica stupidità»[13] e degli incontri maliziosi con la «rosea e ricciuta Nunziatina», alla scoperta delle rispettive diversità anatomiche:
Zia Mariuccia, non volendo dormire sola, chiamava me e la rosea e ricciuta Nunziatina. Da brava massaia si levava prestissimo e scendeva al pian terreno per dare il cibo ai polli e preparare il caffè d’orzo, “rinfrescante ed economico”. Ci lasciava e ci ritrovava con gli occhi chiusi. “Buon giorno, dormiglioni”. Ma noi non eravamo innocenti come lei, e in sua assenza gli occhi li avevamo aperti e spalancati a scoprire le nostre diversità.[14]
Se le prime dieci lettere, dunque, indirizzate ai familiari, appassionano e commuovono il lettore, delineando il quadro di una vita privata vivace, stimolante, ricca di affetti autentici maturati all’interno di una famiglia meridionale numerosa, laboriosa e unita, quelle successive allargano il quadro, raccontano drammatiche vicende personali che s’intrecciano con quelle di uomini (e donne) che sono entrati a far parte, a volte tragicamente, della storia nazionale, sullo sfondo del fascismo, prima, e della guerra e della lotta partigiana, dopo. In questo quadro si incastonano, come preziose tessere di un mosaico, alcuni incontri fondamentali che hanno determinato la crescita intellettuale dello studioso, orientandone, nel corso degli anni, le scelte culturali e ideologiche. Penso ad esempio all’incontro con Benedetto Croce, «affettuoso, e anzi indulgente» con un giovanissimo (e petulante) Muscetta che spesso si recava a fargli visita nella villa di Pollone in Piemonte e lo accompagnava in lunghe passeggiate che per il Maestro «erano occasione di svago e di riposo»:
Non era un Socrate dialogante e piuttosto bruscamente preferiva schermirsi con le battute. Io invece, con bella illusione e proterva ingenuità, continuavo imperterrito a proporre quesiti e dubbi e una volta […], poiché riproponevo l’esigenza di ripercorrere il processo genetico dell’opera d’arte, Croce mi rispose in napoletano: “Vuie vulite trasì sott’a coppola d’‘o parrocchiano” (voi volete entrare sotto la berretta del parroco). Certo, volevo proprio questo.[15]
Un affetto, quello per Croce, rimasto inalterato nel tempo, anche quando, consapevole di essere «più desanctisiano che crociano», Muscetta approdava, «attraverso Labriola e Gramsci», al suo ben noto «storicismo integrale».[16] Non meno importante, per la sua formazione, l’incontro con Luigi Russo:
Fra i tanti “russiani” io non ero certo riducibile a quelli che egli “con una freddura alla fiorentina” leggeva “ruffiani” (pensando all’antica grafia delle doppie ss).[17]
Ma ancor più importante e determinante fu forse l’amicizia con Leone Ginzburg e con Sandro Pertini, compagni di cella al terzo braccio del carcere di Regina Coeli nel tragico inverno tra il ’43 e il ’44.[18] Ma se le vicende della guerra e della lotta partigiana hanno segnato drammaticamente l’esistenza di Muscetta e dei suoi amici intellettuali e compagni di partito, anche lo «scoppio della pace» (come recita il titolo della lettera a Luigi Cortesi)[19] non fu facile da gestire. Le vicende della biografia muscettiana posteriori al ’45 si saldano con i momenti cruciali della nostra storia nazionale e fanno tutt’uno con essa: la militanza politica nel P.C.I., i rapporti, a volte conflittuali, con gli amici di partito, con i quali compì un memorabile viaggio in Russia,[20] il ’68, vissuto naturalmente dalla parte degli studenti e degli operai,[21] gli anni di piombo, gli anni eroici della lotta alla mafia. Sono vicende a molti note e non è il caso di rievocarle in questa sede. Nell’Erranza molte pagine sono dedicate agli anni turbolenti trascorsi all’Università di Catania («nel primo consiglio di Facoltà, a sentire le mie battute, si accorsero subito che tipo di “collega” io fossi»),[22] tra docenti timorosi e spesso restii ad accogliere le idee nuove e giovani studiosi, invece, pieni di talento, alcuni afflitti da «mal di cattedrite», ma quasi tutti destinati ad una brillante carriera.[23] Un pungente sarcasmo, dunque, attraversa quasi tutte le lettere indirizzate ai protagonisti (docenti e studenti) del controverso e variegato mondo dell’accademia, verso il quale Muscetta (negli anni ’60 e ’70) non cessò mai di esercitare la sua inesausta vena polemica:
Da buon conoscitore della poesia comica e satirica – leggiamo nella lettera a Marisa Bulgheroni –, ho sempre considerato il riso come un’arma. E in facoltà ero temuto soprattutto per questo (i catanesi sono gente assai spiritosa, ma i professori di rado sono “animal risivi”).[24]
L’ironia sottile e affettuosa delle prime lettere, invece, ricompare nelle ultime, pervase da un sentimento di quiete ritrovata (nonostante l’amaro rimpianto per ciò che non si è avuto il tempo di fare) e nelle quali torna a prevalere la dimensione degli affetti familiari. È nell’amore e nell’assoluta dedizione verso la fedele compagna Marcella Tedeschi,[25] musa ispiratrice di questo appassionante “romanzo in forma di lettere”, che l’anziano Muscetta sembra trovare infine pace e stabilità. Un delicato equilibrio interiore, costruito a furia di disinganni e delusioni, e nonostante un’irrequietezza di fondo avesse “condannato” questo singolare personaggio – «presidente dell’Accademia degli Iracondi» (come pure amava definirsi) –[26] a continui mutamenti, passaggi, ritorni e, quindi, ad un’interminabile “erranza”:
Ma il giudizio spetta ormai a chi mi leggerà – conclude l’ottuagenario scrittore nell’ultima lettera-postfazione – e per insufficienza di prove, forse sarò assolto dalle mie ambizioni utopistiche.[27]
Questo saggio è apparso col titolo ‘L’erranza’: un “romanzo in forma di lettere” di Carlo Muscetta, in «Misure critiche», Nuova Serie, a. IV, n. 1-2, 2005, pp. 174-181.
[1]. «[…] neppure in occasioni solenni ho smentito lo spirito antiprofessorale che fu il vanto di Giordano Bruno: amante della dialogicità e “accademico di nulla accademia”» (C. Muscetta, Il medico dei pazzi, a Sarah Forti, in Id., L’erranza. Memorie in forma di lettere, Valverde-Catania, Il Girasole Edizioni, 1992, p. 19).
[2]. Muscetta, La morte ci ha da trovar vivi, a Marcella, in Id., op. cit., p. 10.
[3]. Mara Muscetta, donna colta ed energica, attenta custode della memoria paterna, non solo ha firmato il lungo e appassionante “racconto” Vita col padre, da vicino e da lontano, nell’Italia che finge di cambiare, pubblicato nel succitato quaderno monografico di «Sinestesie», ma ha dedicato al padre anche un puntuale e affettuoso ritratto apparso sulla rivista bimestrale «L’irpinia illustrata» (Carlo Muscetta nel ricordo di Mara, a. IV giugno 2004, n. 3 pp. 4–53).
[4]. Cfr. F. Moretti, Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999, pp. 4–6.
[5]. Ivi, p. 3.
[6]. Muscetta, Sull’orlo della memoria, a Sergio, in Id., op. cit., p. 14.
[7]. Muscetta, La morte ci ha da trovar vivi, cit., p. 10.
[8]. Ivi, p. 9
[9]. Muscetta, Il medico dei pazzi, cit., p. 18
[10]. Muscetta, Sull’orlo della memoria, cit., p. 16.
[11]. Cfr. Muscetta, Le memorie di un commerciante, ad Attilio Marinari, in Id., op. cit., pp. 25–30.
[12]. Muscetta, Sull’orlo della memoria, cit., p. 15.
[13]. «Ma il mio primo amore, la mia Beatrice fu una ragazza che aveva alcuni anni più di me e io le dicevo che avrebbe dovuto aspettarmi perché l’avrei sposata. Era la mia prima maestra. Accanto alla chiesa del nostro borgo lei e sua madre avevano organizzato una scuola domestica d’intrattenimento. La signora Olimpia e la figlia Alessandra c’insegnavano La Vispa Teresa o altri versi della stessa classica stupidità, che raccontavano d’un bambino serrato in una stanzetta “dove stanno i colombi a far cucù”, per aver profferito la parola “voglio”. Figuriamoci!» (Muscetta, Beatrice, ad Anna Muscetta, in Id., op. cit., p. 21).
[14]. Ivi, p. 20.
[15]. Muscetta, Via Trinità Maggiore, a Benedetta Craveri, in Id., op. cit., p. 55.
[16]. Ibidem.
[17]. Muscetta, Magistero a Firenze, a Carlo F. Russo, in Id., op. cit., p. 66.
[18]. Le lettere Torino antifascista, a Natalia Ginzburg (pp. 68–71) e Lo scalino per diventar romani, a Carla Pertini (pp. 81–86), occupano una posizione centrale all’interno dell’Erranza e costituiscono senz’altro il nucleo più emozionante e drammatico dell’intero libro, il momento di massima tensione e, forse, di maggiore forza narrativa.
[19]. Cfr. Muscetta, Lo scoppio della pace, a Luigi Cortesi, in Id., op. cit., pp. 93–96.
[20]. Cfr. Muscetta, La mano di Lenin, a Franco Venturi, in Id., op. cit., pp. 125–128.
[21]. «Mi sono sempre considerato un “arcistudente” e quindi non mi spaventavano le formazioni estremistiche del “potere studentesco” […], nonostante le mie riserve pessimistiche, non mancai di sostenere e incoraggiare il movimento studentesco…» (Muscetta, Quando la Cina era vicina, a mia nipote Amelia di Mario Muscetta, in Id., op. cit., pp. 132–137).
[22]. Muscetta, Memento cataudere semper, a Nino Recupero, in Id., op. cit., pp. 129–131.
[23]. «La cattedrite è una delle affezioni da cui è più difficile e forse impossibile guarire. Parodiando Montale io soglio dire: “Spesso il male da cattedra ho incontrato…”» (Muscetta, Il primato della dissimulazione, a Silvano S. Nigro, in Id., op. cit., p. 79).
[24]. Muscetta, Siculorum Gymnasium, a Marisa Bulgheroni, in Id., op. cit., p. 140.
[25]. Proprio a Marcella Tedeschi – il cui «ordine estetico […] tutto rende armonioso e rassicurante» – sono dedicati alcuni versi, forse i più toccanti tra quelli disseminati all’interno del volume: «Mariposa non ha ali ma instabili / mani instancabili. / Quel che tocca trasforma e fa rivivere / come fiori di suono. Intoccabili / gli oggetti siano / dove li lascia lei. Senza pausa / vibrano ancora / nel silenzio indicibile / della casa ch’è tutta sua.» (Muscetta, Dove si ritrova il mare, ad Angelo Scandurra, in Id., op. cit., p. 167).
[26]. Muscetta, Autopsia fatta da esso, al lettore, in Id., op. cit., p. 189.
[27]. Ivi, p. 190.