Edward Lear è stato autore di celeberrimi limericks – forma poetica mista di versi e disegni – il cui successo, nella seconda metà dell’Ottocento, servì a decretare il definitivo ingresso del “genere”, già presente nella tradizione letteraria inglese, nell’ambito della poesia umoristica europea:
Lear chiamava queste sue composizioni nonsense rhymes o anche nonsense rhymes and pictures; e d’altra parte, la parola limerick compare per la prima volta – a quanto scrive l’Oxford English Dictionary – in una lettera di Aubrey Beardsley nel 1896, quando Lear era già morto da alcuni anni[1].
Oltre che poeta nonsensical, Lear fu anche un discreto pittore, specializzato nella raffigurazione del mondo animale; nei suoi limericks i disegni sono ingenui, privi di dettagli superflui, di qualsiasi tipo di ambientazione storica o geografica, di riferimenti al mondo reale; una totale «assenza di contesto figurativo» che – come ha notato Marco Graziosi – consentirebbe di stabilire un’importante distinzione tra Lear e l’altro grande autore inglese di nonsense, Lewis Carroll:
L’assenza di contesto figurativo in Lear, unita alla continua deformazione delle proporzioni, impedisce la costruzione di un mondo stabile. Si può già a questo punto rilevare che Lear tende ad evitare di fare riferimento ad un mondo precostituito di cui tutti hanno una precedente esperienza, come invece avviene spesso in Carroll. […] È questa una prima conferma all’ipotesi sulla differenza fondamentale fra Lear e Carroll: il primo fa funzionare una lingua nonsense e così facendo crea un mondo corrispondente; il secondo mantiene il mondo reale e ce ne descrive un altro in riferimento a questo (cfr. l’espediente del sogno). In questo modo l’operazione di Carroll non si distingue da quella dei tanti autori di fantasy contemporanei se non per la qualità del mondo descritto[2].

Le immagini, dunque, sono parte integrante dei testi di Lear, concorrono a costruire, unitamente ai versi, i tratti distintivi del suo mondo nonsensico (che ha caratteristiche e leggi affatto diverse da quelle del mondo reale) e – con la loro «funzione essenzialmente costrittiva» – contribuiscono a «evitare di mettere in moto un processo di interpretazione metaforica» che l’autore di nonsense rifugge decisamente. Come scrive Graziosi:
Per il lettore non si tratta di un processo interpretativo in larga misura libero e soggettivo, come nella metafora, quanto piuttosto di ricavare un’immagine di mondo prospettata, e in gran parte rigidamente determinata, da due codici differenti[3].
È noto che già negli anni Venti dell’Ottocento circolavano nel mondo anglosassone volumetti di poesie illustrate destinati ad un pubblico infantile con struttura e motivi propri del limerick[4], tuttavia è con il Book of nonsense di Lear, pubblicato nel 1846, che questo tipo di componimento riceve una sua definitiva codificazione:
Consistenti in singole strofette di cinque righe, con versi a ritmo giambico anapestico – comune nella poesia ‘umoristica’ inglese – e schema di rime aabba, i limericks hanno tre versi di tre piedi (i primi due e l’ultimo) e due più brevi, di soli due piedi (terzo e quarto verso)[5].
Lear, dunque, – come scrive Negri – «non inventò il genere: si limitò a perfezionare ciò che la tradizione gli offriva, limitando le varianti possibili allo schema di base e accompagnando i versi con illustrazioni stilizzate e surreali […]»[6]. La struttura dei versi è rigida, pur nella sua estrema semplicità, e si ripete, con poche eccezioni, sempre uguale:
- Nel primo verso compare il personaggio (Old Man / Young Lady / Old Person / Young Person) e si cita il luogo geografico (scelto per ragioni fonetiche) da cui proviene o in cui si svolge l’azione;
- nel secondo verso il personaggio acquista tratti caratteriali e/o fisici;
- nel terzo e quarto verso si sviluppa il racconto (spesso in forma dialogica);
- il quinto verso ripete, alterandolo, il primo e riporta l’attenzione sul personaggio protagonista al quale viene attribuito un aggettivo che lo connota.
Graziosi ha poi sottolineato l’uso, da parte del poeta, di «una serie di formule fisse assai limitative» che ricorrono costantemente in tutti i componimenti:
[…] Old é generalmente associato a Man e a Person quando si tratta di un uomo, e Young quasi sempre a Lady e, assai raramente […] a Person intendendo una donna. Inoltre Person é la variante bisillabica per Man quando X [luogo di provenienza] é monosillabico o bisillabico con stress sulla prima. La mancanza di un sostituto monosillabico per Lady […] chiarisce il perché della superiorità numerica dei personaggi maschili[7].
L’esistenza fugace dei personaggi leariani si consuma totalmente in questi cinque versi, nei quali il loro destino «pare compiersi e trovare un senso o, ancor meglio, un “non senso”»[8]. Fatti di pura “materia verbale”, omini e animali dell’universo leariano prendono consistenza e forma nel riverbero sonoro delle parole; è il gioco ritmico e rimico a determinare il carattere eccentrico, le abitudini insolite e a segnare la sorte di questi personaggi tanto strampalati quanto evanescenti, che vivono il tempo effimero della storiella e finiscono con essa, senza portare al lettore alcun insegnamento o messaggio di natura morale:
Le storie sono inevitabilmente brevissime, soprattutto se si considera che lo sviluppo propriamente narrativo è quasi sempre confinato al solo terzo verso, e che il quarto non aggiunge quasi mai niente […]. Questo ha come inevitabile conseguenza la stranezza, la non adeguatezza dei finali, che assumono un aspetto di notevole irrilevanza o sembrano buttati lì a casaccio[9].
I finali dei limericks leariani, senza capo né coda, lasciano di stucco il lettore e, più che muoverlo al riso «fisiologico, irresistibile, clamoroso» dei testi comici, o al sorriso «contenuto» dei testi umoristici, a malapena gli strappano un ghigno, «una smorfietta di sorriso senza corpo», «qualcosa di simile al ‘grin’ del gatto del Cheshire di Lewis Carroll in Alice in Wonderland […]»[10]. Scrive Carlo Izzo:
Grosso modo proporrei tre categorie: la comicità, che dà luogo al riso fisiologico, irresistibile, clamoroso, quando l’incongruo ci coglie talmente di sorpresa da non lasciare via di scampo; e si può ridere in faccia alla persona che è oggetto della nostra ilarità; l’umorismo, che dà luogo al sorriso, più o meno esplicito o contenuto, quando l’inserimento in una situazione seria – solenne o patetica – di un elemento, non in sé e per sé, ma per contrasto, risibile, induce a una sorta di correttivo critico che distoglie dalla partecipazione cui ci eravamo abbandonati; il “nonsense”, infine, che dà luogo a qualcosa di simile al “grin” del gatto del Cheshire di Lewis Carroll in “Alice in Wonderland”, il gatto in cima all’albero, che comincia a sparire dalla punta della coda, e un po’ alla volta sparisce del tutto, ma ne rimane in cima all’albero appunto “the grin”, una sorta di smorfietta di sorriso senza corpo. In altri termini, non farei rientrare il “nonsense” nella categoria dell’umorismo propriamente detto. Il “nonsense” è, semmai, una sorta di “a priori” dell’umorismo, anche se teoricamente rintracciabile, forse, in ogni espressione che sia, o pretenda di essere, umoristica[11].
Un riscontro immediato alle parole di Izzo – che definisce il nonsense «umorismo in potenza» – è possibile attraverso la lettura di alcuni componimenti del Book di Lear; gustiamoceli pure, ben consapevoli che la traduzione italiana (anche quella eccellente dello studioso) può rendere solo in parte il gioco fonico e lo humor surreale dei testi originali:
There was an Old Man of the Hague,
Whose ideas were excessively vague;
He built a balloonTo examin the moon,
That deluded Old Man of the Hague.[C’era un vecchio di Praga / Dalla mente quanto mai vaga; / Costruì un aeronave di fortuna / Per osservare la luna, / Quell’illuso vecchio di Praga][12].
There was an Old Person of Pinner,
As thin as a lath, if not thinner,
They dressed him in white,
And roll’d him up tight,
That elastic Old Person of Pinner.[C’era un vecchio di Corfù / Sottile come un’asse e forse più; / Gli misero un càmice bianco / E lo arrotolarono su tutto quanto, / Quell’elastico vecchio di Corfù][13].
There was an Old Man in a Marsh
Whose manners were futile and harsh;
He sate on a Log,
And sang Songs to a Frog,
That instructive Old Man in a Marsh.[C’era un vecchio di Palude / Di natura futile e rude; / Seduto su di un rocchio / Cantava stornelli a un ranocchio, / Quel didattico vecchio di Palude][14].
La poesia di Lear, dunque, ha tutte le caratteristiche della cosiddetta poesia «formulaica, costituita di parti prefabbricate»[15], di elementi ricorrenti e prevedibili assemblati in vario modo, facili da memorizzare e da recitare. L’autore popola i suoi micro-racconti di bizzarri animali e si lascia guidare, nella scelta dei toponimi, da associazioni fonico-ritmiche: ne vien fuori un mondo deliziosamente surreale nel quale la presenza, accanto a buffi omini, di pesci, uccelli e altri animali si spiega con la parallela attività di pittore («fin dalla prima giovinezza s’era distinto per la sua abilità nella raffigurazione del mondo zoologico»), ma anche con il «peso di una tradizione favolistica millenaria nella quale proprio loro sono i protagonisti delle storie»…
…con la differenza che nessuna intenzione didascalica, moralistica o pedagogica, muove l’estro di Lear, per il quale parole e figure sono semplicemente trampolini di lancio per qualche felice capriola del pensiero[16].
Gli animaletti che compongono il fantastico bestiario leariano – che si annidano tra i versi, si acquattano tra le rime strizzando l’occhio al lettore – si muovono in uno spazio metafisico, fuori dal tempo e dalla storia; sono gli stralunati protagonisti di un mondo surreale non regolato dalle leggi della fisica né da quelle della logica comune: un universo nel quale ogni cosa è compatibile con qualunque altra e dove anche i comportamenti più assurdi o incongrui appaiono plausibili e “naturali”. È un mondo “rovesciato” nel quale la formula verbale “There was” con cui si aprono tutti i componimenti (il “c’era una volta” delle nostre più celebri fiabe) serve proprio ad introdurre i lettori in «una dimensione parallela ma distanziata nello spazio e nel tempo, in cui non vigono le categorie, immaginative e razionali, alle quali abitualmente ci si attiene»[17]. Occorre fare attenzione, però, a non confondere il mondo assurdo e “impossibile” del nonsense con quello fantastico, non reale ma “possibile,” immaginato dagli autori di fiabe o di racconti fantasy. In questi ultimi le leggi fisiche e logiche del mondo reale sono certamente sovvertite, ma solo per essere «riformulate» subito dopo e fissate in un sistema coerente (anche se alternativo) e, dunque, plausibile. Quello delle fiabe e dei racconti fantastici, insomma, è «un mondo […] i cui abitanti sono perfettamente in grado di prevedere, entro certi limiti, i rapporti di causa-effetto che vi si istituiscono»:
Il mondo del meraviglioso presenta quindi un funzionamento in tutto simile a quello del mondo reale nell’esperienza quotidiana o come viene descritto nei romanzi realistici; entrambi sono mondi rassicuranti, grazie alla prevedibilità connessa alla costanza delle leggi che vi operano[18].
Quando all’interno di un racconto fantastico interviene un evento straordinario e imprevedibile che interrompe la catena causa-effetto, i personaggi ne sono sconvolti “psicologicamente” ed entrano in crisi; nell’universo nonsensico, in cui l’elemento psicologico è del tutto assente, l’assurdo è accettato con indifferenza, come fatto naturale e per nulla “destabilizzante”[19]:
È insomma un mondo a entropia massima, in perfetta quiete o perenne movimento. Perfetta quiete perché tutti gli elementi sono contemporaneamente causa ed effetto di se stessi; perenne movimento perché possono essere manipolati a piacimento dall’esterno, aggregati e separati senza che questo comporti alcun mutamento sostanziale. Il Nonsense, come genere, si allontana dai modi fantastici per il fatto di presentare un unico mondo, e quindi per il rifiuto di sistemi metafisici; ma non un mondo “possibile”, bensì “impossibile”, perché bloccato in partenza dalla sua stessa assenza di leggi: in esso proposizioni contraddittorie […] sono perfettamente adeguate[20].
Come ha scritto John Boynton Priestley (citato da Izzo) il mondo di Lear è «l’incongruità trionfante. È l’assurdo trasportato in un’atmosfera poetica. È una felice vacanza dal mondo dei sensi, un rapido scorcio d’un altro mondo più pazzo del nostro […] »[21].
[1] Martino Negri, Umori d’Albione: Il ‘libro dei nonsense’ di Edward Lear, 2004. Nel mondo anglosassone si cimentarono nell’invenzione di limericks anche Robert Louis Stevenson, James Joyce e Bertrand Russell; in Italia Gianni Rodari ne ha scritti diversi e ha dedicato un intero capitolo della sua Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie (Einaudi, Torino 1974) alla “costruzione di un limerick”. Altri autori italiani di limericks sono: Max Manfredi e Manuel Trucco, Il libro dei Limerick. Filastrocche, poesie e nonsense, Vallardi, Milano 1994 e Paolo De Benedetti, Nonsense e altro, Libri Scheiwiller, Milano 2002. Anche Michele Serra nelle sue Canzoni politiche (Feltrinelli, Milano 2000) ha inserito alcuni «limericks elettorali». Cfr. Paolo Albani, Un breve viaggio intorno al limericco italiano, Postfazione al libro di Virginia Boldrini, Viaggio a Limerick e dintorni, Campanotto, Udine 2006.
[2] Cfr. Marco Graziosi, Testo verbale e testo iconico nei ‘limericks’ di Edward Lear, tesi di laurea, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna, a. a. 1981-82, pp. 65-69. Preziose informazioni sul nonsense in generale e sui limericks di Edward Lear, in particolare, sono contenute nell’ottimo sito internet http://www.nonsenselit.org creato da Graziosi.
[3] Ivi, p. 174.
[4] «[…] tra il 1820 e il 1822 erano infatti comparsi tre volumetti di poesie illustrate che presentavano la struttura metrica e i temi tipici del limerick leariano: The History of Sixteen Wonderful Old Women, illustrated by as many engravings: exhibiting their principal Eccentricities and Amusements (1820), Anecdotes and Adventures of Fifteen Gentlemen (1821) e Anecdotes and Adventures of Fifteen Young Ladies (1822), i quali si inserivano nel contesto dello straordinario sviluppo che la prima editoria illustrata di massa […] ebbe proprio nel terzo decennio del XIX secolo». (Negri, Umori d’Albione: Il ‘libro dei nonsense’ di Edward Lear, cit.).
[5] Ibidem. Come ha sottolineato Marco Graziosi: «Lear, nel riprendere questo tipo di componimento, non sembra interessato ad esplorarne e ad allargarne le possibilità espressive, quanto piuttosto a restringerle, regolarizzando al massimo la scansione ritmica, nei libri precedenti ancora molto “irregolare”» (cfr. Graziosi, Testo verbale e testo iconico nei ‘limericks’ di Edward Lear, cit.).
[6] Negri, Umori d’Albione: Il ‘libro dei nonsense’ di Edward Lear, cit.
[7] Graziosi, Testo verbale e testo iconico nei ‘limericks’ di Edward Lear, cit..
[8] Negri, Umori d’Albione: Il ‘libro dei nonsense’ di Edward Lear, cit.
[9] Graziosi, Testo verbale e testo iconico nei ‘limericks’ di Edward Lear, cit.
[10] Maurizio del Ninno ha interpretato le conclusioni “brusche” dei limericks leariani come il segno di un rapporto «più forte di quanto possa apparire» tra «filastrocche e precarietà dell’esistenza»: «Si potrebbe infatti vedere un’omologia tra una certa concezione della vita e la forma stessa della filastrocca. Come ha notato Caboni […] c’è in questi testi una “sinistra allusività che può a volte essere esplicita”. In effetti, tanto più la filastrocca è insensata, tanto più il suo termine risulta arbitrario, sicché il concatenarsi di elementi disparati e il suo necessario interrompersi a caso si presta ad essere letto come metafora dei casi della vita e in particolare del suo brusco concludersi». Cfr. Maurizio del Ninno, Considerazioni sul nonsense, in Alessandro Peressinotto (a cura di), Il gioco. Segni e strategie, Paravia, Torino 1997, pp. 117-124. Consultabile online all’indirizzo: http://www.etnosemiotica.it/userfiles/dnm%201997%20Considerazioni%20sul%20nonsense.pdf
[11] La lunga citazione è tratta dall’ottima introduzione di Carlo Izzo (pp. I-XXVI), a Edward Lear, Il libro dei nonsense, Einaudi, Torino 2004.
[12] Ivi, pp. 150-151.
[13] Ivi, pp. 256-257.
[14] Ivi, pp. 258-259.
[15] Come ha scritto Walter J. Ong in Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola (Il Mulino, Bologna 1986), la poesia «formulaica», basata su formule prevedibili e standardizzate «raggruppate attorno a temi ugualmente standardizzati», è tipica delle culture orali nelle quali «la conoscenza […] doveva essere costantemente ripetuta, o si sarebbe persa […]». È il caso dei poemi omerici che «valorizzavano […] la frase fatta, la formula, l’aggettivo prevedibile: il cliché. […] L’intero mondo poetico poggiava su un pensiero formulaico» (pp. 46-47).
[16] Negri, Umori d’Albione: Il ‘libro dei nonsense’ di Edward Lear, cit.
[17] Ibidem.
[18] Graziosi, Testo verbale e testo iconico nei ‘limericks’ di Edward Lear, cit.
[19] Cfr. ivi, pp. 183-185.
[20] Ivi, pp. 187-188.
[21] Cfr. Carlo Izzo, Umoristi inglesi, Eri, Torino 1962, p. 75.