Anche Paul Valéry – a dispetto di quanto si possa credere – non fu immune dall’esperienza dell’“impuro”. Anzi, a fatica riuscì a tenere a bada i richiami allettanti del “demone” in nome di costruzioni poetiche pure e simmetriche, vere «architetture di parole», tanto perfette quanto algide. Ma procediamo con ordine e cerchiamo di ricostruire brevemente il percorso teorico-poetico dell’autore dei Quaderni attraverso le sue stesse molteplici dichiarazioni.
In seguito ad una violenta crisi intellettuale culminata nella «notte di Genova» dell’ottobre 1892 (per certi versi paragonabile alla celebre “notte” di Pascal), Valéry decide di interrompere la sua precoce attività di poeta e di letterato. La vicenda è fin troppo nota:
Il mio analitico 1892, prodotto della «coscienza di sé» impegnata a distruggere le ossessioni e i veleni, le connessioni, i raccordi, le generalizzazioni straordinariamente sensibili, — tutto un implesso di associazioni — con ansietà, insonnie, stati per così dire acutamente vibratori ecc. […]. Fu un periodo molto duro e fecondo — Una lotta coi diavoli. Notte di Genova nell’ottobre ‘92. Parigi a novembre. E tutto questo mi portò al mio «metodo» — che era purezza — separazione degli àmbiti[1].
Circa due anni dopo, il poeta comincia la stesura giornaliera dei Quaderni, un lungo e ossessivo «lavoro di Penelope», al quale il poeta per anni si dedicherà tutte le mattine, con maniacale puntualità, dalle 5 alle 8:
Ore 8 . Alzato prima delle 5 — alle 8 mi sembra già di aver vissuto con la mente tutta una giornata, e guadagnato il diritto di essere stupido fino alla sera.
Su questi quaderni non scrivo le mie «opinioni» ma scrivo le mie formazioni.
Qui scrivo le idee che mi vengono. Ma non è che io le accetti. È il loro primo stadio. Non ancora ben deste.
Non scrivo «il mio diario» — Mi annoierebbe troppo scrivere QUELLO che intendo dimenticare; […] Ho annotato soltanto delle «idee» — o piuttosto — (in generale) dei momenti particolarmente semplici, o particolarmente fecondi–in–apparenza, che si producevano «in me».
Non un diario intimo, dunque, e neppure un «Sistema» — del quale Valéry avvertiva «l’intima ridicolaggine» —, ma piuttosto una metodica e ininterrotta analisi del «funzionamento cerebrale», ovvero dell’attività psichica in quanto tale, della quale la poesia, come la scienza o la filosofia o l’architettura, non sono che manifestazioni esteriori, pure applicazioni particolari. Il punto di partenza di questa originale analisi dell’«evento mentale» è costituito dal disprezzo — più volte ribadito nelle pagine dei Quaderni — per le «debolezze intellettuali» dei poeti contemporanei, incapaci di sperimentare, nell’esercizio compositivo, «tutti i poteri della mente»:
In me è sorto, verso il ’92, un certo disprezzo per la poesia e per i poeti dovuto alla considerazione delle debolezze intellettuali che riscontravo nella grande maggioranza, persino dei più celebri. Notavo, da un lato, che essi vivevano su un fondo di idee miserevolmente comune, e ingenuo […] e non esercitavano tutti i poteri della mente, ignoravano gli sviluppi immaginativi dovuti alle scienze — ecc. D’altra parte, che il loro stesso mestiere non era stato spinto sulla via della perfezione, ossia della continuità poetica e della composizione, tanto lontano quanto io immaginavo che si potesse fare, — sull’esempio della musica e del suo progresso tecnico dal XVI secolo ai giorni nostri.
Motivo ricorrente nelle pagine dei Quaderni è, quindi, il rifiuto della poesia intesa come «valore assoluto» e la rivalutazione del fare poetico — vale a dire dell’atto del comporre inteso come esercizio del potenziale psichico — rispetto alla cosa fatta, ovvero all’opera compiuta. Se per Mallarmé la poesia è «l’oggetto essenziale e unico» cui attribuire il significato di uno «scopo ultimo», per Valéry essa è semplicemente «mezzo, non scopo illusorio», «una particolare applicazione dei poteri della mente», un esercizio psichico che ha valore soltanto «ai fini dello sviluppo di poteri espressivi o di potere costruttivo»:
Io non amo la letteratura, ma gli atti e gli esercizi della mente.
La «diffidenza nei confronti di ciò che è Spontaneo», il disprezzo per le «Cose vaghe», ovvero per tutto ciò che non sia rapportabile a modelli matematici, conduce quindi Valéry al rifiuto dell’opera poetica intesa come frutto di un’ispirazione passeggera, non filtrata dall’intelletto. L’ispirazione «vive di felice successione», è produzione arbitraria, «proliferazione lineare» e ininterrotta che esclude l’idea stessa di composizione (il disegno dell’opera, la sua organizzazione interna, la simmetria tra le parti). Valéry non nega in poesia la presenza di «valori arbitrari»; le idee, le immagini, tutto ciò che va sotto il nome di “contenuto”, sono prodotti accidentali, arbitrari: «assolutamente necessari dal momento che si è “in poesia”», ma «sempre subordinati alla figura della forma […] la quale è realtà organica dell’opera». Nell’ambito della forma non esiste, dunque, arbitrarietà, ma solo libertà vera, «contrassegno, ricompensa, risultato di disciplina sapiente»; è la libertà sperimentata dal geometra o dal costruttore che presuppone — per pervenire alla costruzione — «l’istituzione del finito»:
Non ho mai apprezzato la letteratura se non nella misura in cui essa è paragonabile a qualche scienza costruttiva. Mi stimola ciò in cui un’attività si organizza.
A Valéry — lo ripetiamo — non interessa la realizzazione della «Grande Opera», ma l’esercizio poetico in sé, l’attività mentale, rigorosa e disciplinata, che presiede alle fasi di composizione dell’opera e che risulta sintetizzabile in una formula:
…io sono uno scrittore le cui produzioni derivano da una traduzione di dati e di impressioni particolari relative a ciascuna opera — entro un sistema di riflessioni e definizioni generali che mi sono peculiari, e da una ritraduzione di questa trasposizione nel linguaggio ordinario.
Il ben noto «metodo» di Valéry, insomma, esclude del tutto l’improvvisazione, l’arbitrio, e implica due operazioni distinte e consecutive (la fase di ideazione–traduzione e la fase di applicazione–composizione), delle quali la seconda — la trasposizione nel linguaggio ordinario del lavoro mentale di ideazione — risulta di gran lunga più difficile a causa della ben nota sfiducia del poeta nei confronti del mezzo linguistico («Tipica è la mia grande diffidenza per tutto ciò che è dato soltanto attraverso il linguaggio»):
La lingua non è né povera né ricca, né comoda né scomoda — Ma non è regolare né completa. Non ricopre esattamente l’ambito che indica — e qua e là lo copre con molte pieghe.
Quale eresia! questo tradurre nel linguaggio ordinario — fatto cioè da usi sporchi, equivoci e indistinti — i risultati di osservazioni pure!
Il linguaggio ordinario, dunque, si presenta come uno strumento intimamente alienato e necessariamente deformante rispetto alla purezza del pensiero. Quest’ultimo è sì organizzato attraverso le leggi del linguaggio, ma lo è in modo storico e imitativo e quindi «in un certo modo che non è affatto quello razionale, — o rigoroso — o naturale» («Il linguaggio non ha mai visto il pensiero»). L’arbitrarietà, l’impurità, la non aderenza alle cose e ai fenomeni, fanno del linguaggio ordinario un dispositivo dal cattivo funzionamento che inevitabilmente «infastidisce la filosofia»; quest’ultima dovrebbe addirittura fare a meno della notazione scritta per salvaguardare la sua precisione e «solidità»:
Il segreto del pensiero solido risiede nella sfiducia verso i linguaggi — Le speculazioni ben distinte dalle notazioni sono le più possenti, ecc. Giacché le notazioni di qualunque specie sono sottoposte a leggi, dopo tutto, simili o identiche a quelle che devono esprimere e scoprire.
… Il linguaggio ha fabbricato le sue parole più per designare che per connettere. Le ha fabbricate isolatamente.
L’impurità del linguaggio ordinario, la sua inadeguatezza e arbitrarietà, dipendono proprio dall’insignificanza della «parola isolata» che, quando non è inclusa in una proposizione, risulta elemento incompleto, «ionizzato», e resta «allo stato di legame senso–segno». La parola acquisisce un senso preciso solo se collocata in un sistema organizzato: solo in tal caso, infatti, inserita all’interno di una sequenza verbale rigorosa e procedendo «per eliminazione fra i SUOI sensi», essa acquista il suo significato specifico:
Il senso di una frase è la composizione delle deformazioni reciproche che i sensi immediati (riflessi) delle parole isolate subiscono in seguito al contatto e a causa dei legami di posizione o di flessione. (Cfr. frase declamata parola per parola con intervalli molto pronunciati).
In quanto «strumento difettoso» — regolato da leggi arbitrarie e pertanto capace di designare le cose ma non di connettere i significati — il linguaggio risulta infine «più adatto alla poesia che all’analisi». Ma anche in ambito poetico Valéry avverte l’insufficienza e l’alto grado di approssimazione del medio linguistico, assolutamente insufficiente a garantire quegli standard di Purezza e di Precisione che, per l’autore di Charmes, sono i cardini sui quali poggia la costruzione di un’opera di poesia. La principale ambizione di Valéry, dunque, almeno sul piano tecnico–formale, è quella di intervenire sul linguaggio ordinario cercando di trasformarlo in uno «strumento di scoperte» (come l’algebra), o quanto meno in uno strumento rigoroso «di esposizione e deduzione di scoperte»:
Mi accorgo che la mia ambizione letteraria è (tecnicamente) quella di organizzare il mio linguaggio in modo da farne uno strumento di scoperte — un operatore, come l’algebra — o piuttosto uno strumento di esposizione e deduzione di scoperte e osservazioni rigorose.
L’algebra, dunque, in quanto strumento euristico, «operatore» rigoroso praticamente «perfetto» («se il linguaggio fosse perfetto, l’uomo cesserebbe di pensare. L’algebra dispensa dal ragionamento aritmetico»), è il modello da cui partire per la fabbricazione di un nuovo linguaggio poetico:
Il linguaggio si comporta come un veicolo, come l’acqua di una macchina a vapore, come i pezzi solidi di una macchina semplice, e dopo il lavoro, deve ritrovarsi intatto. (Questo non è esattamente il caso del linguaggio ordinario; è il linguaggio algebrico. […].
In definitiva, l’esigenza di rigore e di disciplina nel lavoro letterario — nella fase dell’ideazione come in quella della composizione e, quindi, della trasposizione linguistica — nasce dalla volontà del poeta di trovare un antidoto efficace contro gli «intrugli raccapriccianti» e gli «effetti confusionari» di tanta poesia contemporanea. Partendo da quel «mito della Precisione», inseguito con tenacia e determinazione anche a costo di risultare arido e artificiale (si pensi all’impressionante freddezza di Monsieur Teste, incarnazione del cogito valeriano), il poeta si riprometteva di elaborare un «metodo» grazie al quale superare le molteplici difficoltà inerenti al lavoro compositivo («ho abbandonato Poesia nel ’92 — a causa dello stato d’impotenza in cui mi sentivo a far composizione»). La ricerca del metodo, cominciata dopo il ’92, approda innanzitutto ad un rinnovato interesse per l’architettura: l’arte del costruire, nella quale è possibile coniugare arbitrio e necessità, rigore costruttivo e libertà d’invenzione, all’interno di una forma compiuta. Valéry, che «rimpiange come il suo Socrate di non essere stato un architetto»[2], esige dal poeta l’acquisizione delle medesime virtù formali esercitate dal costruttore nell’edificazione di una casa: capacità progettuale, precisione nel calcolo, ma anche invenzione formale, attenzione ai dettagli, ecc. Dalla musica, invece, altra grande «passione mancata», il poeta prende in prestito il concetto di Modulazione (presente peraltro anche in architettura):
L’idea vaga (in me, che ignoro quest’arte) e la magia della parola Modulazione hanno svolto un ruolo importante — nelle mie poesie.
Musicalizzare — «Armonizzare» […] Si tratta di comporre… di voler ordinare delle parti specializzate — ognuna dedicata a un modo — un movimento — un registro di parole, un regime di sostituzioni (ragionamento, immagini, sentimento —) e di organizzare contrasti, simmetrie, e le modulazioni o le discontinuità. Allegro — Presto — ecc.
Ma più ancora dell’architettura e della musica, abbiamo visto come «le matematiche» sono venute in soccorso del poeta, fornendogli gli strumenti metodologici necessari a scoprire e isolare la sostanza della «poesia pura»:
Esse [le matematiche] non mi hanno dato né una maggiore sensibilità di rappresentazione e di immagini, né suoni. Mi hanno educato e provvisto di idee di rigore che mi hanno immensamente aiutato a farmi un’idea esatta della poesia pura, a isolare questa «sostanza» da ciò che essa non è, a svilupparla come specie e categoria separata.
La «poesia pura», quindi, l’ideale astratto sul quale maggiormente si esercita la riflessione di Valéry, può nascere unicamente come risultato di un’operazione intellettuale rigorosa che punta alla separazione dei costituenti di un’opera e alla loro ricostituzione in una superiore forma sintetica. Il lavoro di composizione così concepito — sia pure condotto da una mente allenata, addestrata alla «manovra della mente» — risulta particolarmente faticoso, in quanto la «fabbricazione dell’opera» è sempre scandita da pause, angosce, incertezze. Queste ultime, tuttavia, non sono «perdite indefinite», inutili dispersioni energetiche, ma «pezzi definiti», momenti costitutivi e necessari, all’interno di un processo che deve assicurare il passaggio dal Caos alla forma, dal disordine all’ordine:
Fare un poema è un poema. Risolvere un problema è un gioco ordinato. Il caso, l’incertezza sono in esso pezzi definiti. L’impotenza della mente, le sue soste, le sue angosce, non sono sorprese, perdite indefinite.
Garantire l’ordine e la continuità della forma attraverso la purezza dei costituenti dell’opera; evitare in ogni modo l’«intruglio», l’azzardo, l’imperfezione; ridurre al minimo «il senso dell’arbitrario»: è questo in definitiva l’obiettivo inseguito con tenacia da Valéry, il suo «metodo», la sua idea di letteratura:
La mia ambizione letteraria è stata la scrittura di precisione. Il contenuto, indifferente.
Si tratta di un obiettivo ambizioso che richiede un lungo lavoro di preparazione. Anche la grande opera poetica, il capolavoro che il lettore assapora e ammira per la sua perfezione e unità, non è mai «un magnifico progetto realizzato d’un colpo», ma è sempre il frutto di una serie di «lentezze», «brancolamenti», «disgusti», «azzardi» che solo il poeta conosce:
Ahimè, disse quel grande artista, l’opera che ho fatto [La jeune Parque], l’opera mirabile che esalta gli animi intorno a me, quella di cui si parla, che viene portata alle stelle, di cui si interroga la bellezza… io sono il solo a non poterne godere! Ne ho disegnato il piano, ne ho raccolto la materia ne ho studiato e composto tutte le parti. Ma l’effetto istantaneo dell’insieme, l’urto, la nascita, l’emozione totale, la scoperta, tutto questo mi è negato, tutto questo è per coloro che non conoscono l’opera, che non sono vissuti con lei, che non ne conoscono le lentezze, i brancolamenti, i disgusti, gli azzardi…ma che vedono solamente come un magnifico progetto realizzato d’un colpo.
Pubblicata nel 1917, dietro insistenza di Gide, La jeune Parque — che segna il ritorno di Valéry alla poesia dopo circa vent’anni di “silenzio” — rappresenta il risultato tangibile della lunga riflessione del poeta francese sull’idea di poesia pura. Concepita con assoluto rigore compositivo, come un «gioco difficile» nel quale i molteplici artifici tecnici (assonanze, allitterazioni, ecc.) sono dosati con sapiente disciplina, La jeune Parque è «l’opera mirabile», il frutto «perfetto» del «metodo» elaborato dal poeta. Ma la perfezione ha il suo prezzo e al poeta tocca pagarlo fino in fondo. La «scrittura di precisione» — come abbiamo visto — è il risultato di un procedimento compositivo lungo e faticoso: il disegno dell’opera, la raccolta del materiale, l’organizzazione delle parti, i fallimenti, gli scarti, le pause, le riprese; tutto il lavoro preparatorio che presiede alla «fabbricazione dell’opera» (il suo lento processo di distillazione…) garantisce la perfezione e la purezza del prodotto finale, ma al contempo impedisce al poeta di goderne appieno la bellezza. La sorpresa, la scoperta, l’incanto dinanzi all’Opera perfettamente compiuta sono doni riservati al lettore; l’«emozione totale» è negata al Poeta in perenne balìa dei suoi Demoni.
Questo testo riproduce, con alcuni tagli e modifiche, un paragrafo del mio libro L’esperienza dell’impuro. Filosofia, fisiologia, chimica, arte e altre “impurità” nella scrittura di Valéry, Ungaretti, Sinisgalli, Levi, Roma, Aracne editrice, 2006.
[1] Questa e tutte le altre citazioni presenti nel saggio sono tratte (salvo diversa indicazione) da P. Valéry, Quaderni, a c. di J. Robinson Valéry, Milano, Adelphi, 1985.
[2] Cfr. R. Contu, Lettera introduttiva a P. Valéry, Eupalino o dell’Architettura, tradotto da R. Contu e con una lettera dello stesso, una nota dell’autore e un saggio di G. Ungaretti, Roma, Quaderni di Novissima, 1933, p. 25.