Trascorsi gli anni bui della guerra e dell’immediato dopoguerra, poteva finalmente partire il programma di ricostruzione urbana e industriale della nazione con la conseguente mobilitazione di ingegneri, architetti e tecnici, uniti nell’intento di voler dare all’Italia un nuovo volto (europeo) e un’economia organizzata su scala internazionale. La riapertura, nel ’48, della Fiera di Milano fu il sintomo più appariscente di questa volontà di ripresa, che, comune a tutte le città italiane, si manifestò con particolare fervore e concretezza proprio nella capitale lombarda, città industriale per eccellenza.
Fu l’inizio di un periodo magico per architetti, designers, ingegneri e, più in generale, per tutti gli esponenti della cultura scientifico-tecnologica italiana; ciò non vuol dire che gli intellettuali fossero spinti ai margini del processo di sviluppo economico del paese, relegati ad un ruolo di meri spettatori o tutt’al più di “cronisti” di tale processo. Mai come in questo periodo, infatti, poeti, scrittori, artisti, filosofi di varie scuole e tendenze furono coinvolti attivamente nel programma di ricostruzione del paese, sollecitati a dare il loro apporto vitale soprattutto negli uffici di pubblicità e propaganda dei grandi complessi industriali, costretti, questi ultimi, soprattutto dalla concorrenza straniera, a riorganizzarsi su basi nuove anche sul piano dell’“immagine”.
La posizione degli intellettuali nei confronti della neonata civiltà tecnologico-industriale – che negli anni cinquanta, ovvero nella sua fase “pioneristica”, andava caratterizzandosi attraverso l’espressione di forti istanze utopico-progressiste – fu tuttavia assai complessa e non sempre limpida: scrittori, poeti, pittori, critici d’arte, spinti da motivazioni contrastanti (e talora ambigue), il più delle volte non si tirarono indietro dinanzi ai richiami allettanti delle grandi industrie, non si rinchiusero nelle loro “torri d’avorio”, ma accettarono di instaurare rapporti di collaborazione a vario livello con il mondo della finanza e della grande industria. Se è vero che, non di rado, entrarono in gioco ragioni di mera opportunità economica, il più delle volte l’adesione degli intellettuali alla nuova “civiltà delle macchine” fu sincera e consapevole, in quanto dettata dall’“illusione di poter collaborare attivamente alla costruzione di un rapporto illuminato fra capitale e lavoro, fra capitale e società italiana”.[1]
Quali che siano le ragioni (più o meno nobili) che spinsero letterati ed artisti verso il mondo dell’alta produzione industriale, resta il fatto che mutò, nel corso degli anni ’50 e soprattutto nel decennio successivo, il ruolo tradizionale dell’uomo di cultura: “alla figura ortodossa dell’intellettuale guida […] eticamente libero e critico di fronte al potere”,[2] subentrò quella dell’intellettuale “integrato”, del “tecnologo letterario” che, dotato di nuove competenze specialistiche esplicitamente richieste dall’industria, offriva a quest’ultima, come un qualunque lavoratore salariato, le proprie prestazioni lavorative:
Questo intellettuale non più guida, non più intellettuale organico in senso gramsciano, ma eteronomo e integrato, necessita di un modernissimo, intenso grado di qualificazione; all’uomo di cultura integrato, all’esperto e al tecnologo letterario si richiedono specialismi sempre più aggiornati, padronanza metodologica e maneggio seriale dei nuovi strumenti disciplinari e interdisciplinari forniti dalla civiltà industriale avanzata.[3]
Gli studiosi che, soprattutto negli anni Settanta, hanno analizzato il rapporto tra intellettuali e capitale, soffermandosi in particolare sulla difficile posizione del “letterato aziendale”, hanno rilevato la profonda contraddizione (o crisi d’identità) vissuta da quest’ultimo, che spesso, pur mostrandosi critico nei confronti dell’industria nella sfera privata o nell’ambito dell’attività teorico-letteraria, sul piano strettamente professionale visse con essa un rapporto di “segreta” complicità:
Rimane comunque irrisolta la contraddizione politica di fondo, che le discussioni e teorizzazioni degli anni ‘60 (sulla rivista “Menabò” in particolare) non ponevano neppure sul tappeto: quella fra i due ruoli dell’intellettuale “aziendale”, che vota per i partiti di sinistra e condanna nella produzione privata, teorica o letteraria, l’alienazione indotta dalle strutture capitalistico-industriali, mentre nella vita professionale è complice nella produzione di alienazione.[4]
Simonetta Piccone Stella – nel volume Intellettuali e capitale, da cui è tratta la citazione – al principio degli anni Settanta denunciava polemicamente l’ambiguità ideologica di tanti intellettuali italiani, i cui “matrimoni segreti” col mondo dell’industria furono spesso consumati proprio sulle pagine delle “numerose e costose riviste aziendali” che mai come negli anni della “ricostruzione” ebbero una straordinaria fioritura:[5]
I matrimoni segreti fra l’industria e gli scrittori, i professori universitari, i pubblicisti di grido, i critici d’arte, gli esperti di mass-media si celebrano, all’insaputa del grosso pubblico, proprio nelle pubblicazioni di prestigio […] e nelle riviste aziendali (Pirelli, Selenia, Esso, Notizie Iri, Finsider, Civiltà delle Macchine e una quantità di riviste farmaceutiche) dove l’intellettuale è usato come un ornamento, un convalidatore compiacente di soluzioni e tattiche già perfettamente decise. Sono tentativi che assumono talvolta forme sommamente ridicole a dispetto della diabolicità dell’intento.[6]
Affermazioni di tal genere – solo in parte accettabili, ma perfettamente comprensibili se rapportate agli anni in cui furono scritte (anni di forti tensioni socio-politiche e di duri scontri di classe) – vanno oggi ripensate e mitigate al fine di ricostruire con maggiore obiettività e con opportune distinzioni la controversa storia dei rapporti tra mondo della cultura e mondo dell’industria. Innanzitutto, va detto che se la collaborazione tra intellettuali e industriali, artisti e tecnici, almeno in un primo tempo, si mostrò possibile e fruttuosa, ciò fu anche dovuto alla presenza, negli anni del dopoguerra, ai vertici delle maggiori industrie della nazione di personaggi di grande statura morale e intellettuale: Adriano Olivetti, Alberto Pirelli, Giuseppe Luraghi, per fare qualche nome.
Adriano Olivetti, le cui raffinate elaborazioni teoriche in campo culturale e politico sono note, popolò il suo ufficio pubblicitario di Milano – diretto dal ’38 al ’40 da Sinisgalli – di intellettuali del calibro di Franco Fortini, Giansiro Ferrata, Geno Pampaloni; Alberto Pirelli, fondò, nel ’48 un prestigioso Centro Culturale per i dipendenti dell’azienda[7] e, nello stesso anno, chiamò Sinisgalli, poeta oltre che ingegnere, a dirigere un nuovo tipo di house organ a testimonianza di un’avvenuta conciliazione tra umanesimo e tecnologia; lo scrittore e general manager Giuseppe Luraghi[8] (prima Pirelli, poi Finmeccanica e Alfa Romeo) non solo diede vita, sempre nel ’48, con Solmi e Sereni, alle raffinate Edizioni della Meridiana ma, amico e ammiratore di Sinisgalli, patrocinò e finanziò quasi tutte le riviste aziendali create e dirette da quest’ultimo: “Pirelli” (1948-52), per l’omonima azienda, “Civiltà delle macchine” (1953-58), per la Finmeccanica, “Il quadrifoglio” (1966-73), per l’Alfa Romeo.
Tuttavia, la presenza di capitani d’industria attenti all’evoluzione anche culturale e morale del paese e di managers “illuminati” può spiegare solo in parte la carica d’entusiasmo con cui gli intellettuali del tempo si lasciarono coinvolgere in progetti e iniziative maturati nel multiforme universo aziendale, appassionandosi di volta in volta ad argomenti e problematiche ad esso collegate: meccanizzazione, sviluppo urbanistico, nuove tipologie architettoniche, nascita dell’industrial design, ecc. In realtà bisogna tenere conto di un fattore oggettivo che spiega lo slancio con cui Sinisgalli, Fortini, Pampaloni, Volponi, Giudici, Bertolucci e tanti altri parteciparono alla rinascita industriale del paese e giustifica la riuscita integrazione, sia pure per un periodo limitato, tra le cosiddette “due culture”.
Gli anni Cinquanta sono gli anni del “miracolo economico”, del trionfo del made in Italy, soprattutto in campo automobilistico, del fervore ricostruttivo, in campo urbanistico. Come è già stato detto, la grande industria, nella sua fase arcaica, “pionieristica”, si fa portavoce di istanze progressiste, “azzarda i suoi nuovi miti”,[9] suscitando un’immediata adesione da parte di coloro che credevano nella possibilità di fare dell’industria un centro propulsore di cultura in senso lato e il luogo privilegiato di quella mediazione, ritenuta indispensabile, tra mondo della produzione e società civile. Sono questi gli anni in cui maturò la “grande illusione”, nutrita da tutti e anche dalla maggioranza degli intellettuali, che il progresso tecnologico, immune da rischi e pericoli, fosse unicamente sinonimo di benessere sociale ed economico. Se è vero che alcuni intellettuali, sociologi ed esperti di costume, già intravidero i pericoli connessi ad uno sviluppo industriale incontrollato e quindi “non sostenibile” (inquinamento, disoccupazione, alienazione), non pochi scrittori subirono il “fascino” della periferia industriale o diedero un’ambientazione “aziendale” ai loro romanzi e molti pittori riscoprirono il mito del macchinismo (nel ’48 nasce a Milano il MAC, Movimento Arte Concreta, ideato da Soldati, Munari e Dorfles, che, in contrapposizione al neorealismo, promuoveva l’affermazione di un’“arte concreta”, antinaturalistica, aperta ai contributi della civiltà meccanica).[10]
Tuttavia come ha notato con una felice espressione Vanni Scheiwiller: “dopo il boom il boomerang”.[11] Sul finire degli anni ’60, infatti, esauritasi l’era del “pionierismo” industriale, l’ottimismo degli anni precedenti si affievolì progressivamente, lasciando uno spazio sempre maggiore alle critiche e ai bilanci di rado positivi. Molti di quegli intellettuali che avevano popolato gli uffici pubblicitari delle grandi aziende milanesi sentirono di non poter aderire fino in fondo alle istanze puramente economico-produttive espresse dalla nuova organizzazione industriale. Agli scrittori e ai pittori italiani sempre più frequentemente capitò di dover lasciare gli uffici aziendali e di ritornare a lavorare al chiuso dei loro studi o ateliers:
La grande industria si toglie la maschera. […] La finanza e la tecnica si sbarazzano della cultura. L’industria non ha necessità di esprit. Ha chiesto l’esprit per dirozzarsi per uscir dalla bottega, dal gergo. […] Per guadagnare i mercati ha sentito il bisogno di parlare per metafore, per ideogrammi, per simboli come hanno fatto le religioni. L’industria presa dal panico cede il comando ai ragionieri. Questi mandano al fuoco gli stregoni. […]. Le staff degli intellettuali vengono smantellate.[12]
Questo breve articolo è un estratto del mio saggio Il Bello e l’Utile. Sinisgalli e l’utopia industriale (1937-1965), pubblicato nel volume miscellaneo Oltre il regolo. Da Dostoevskij a Gadda: percorsi umani e intellettuali di ingegneri-artisti, a cura di E. Martinelli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 19-36.
[1] S. Piccone Stella, Intellettuali e capitale nella società italiana del dopoguerra, Bari, De Donato, 1972, p. 222.
[2] Cfr. R. Bertacchini, L’intellettuale integrato e tecnologo nel periodo del miracolo economico, in Id., Le riviste del Novecento. Introduzione e guida allo studio dei periodici italiani. Storia, ideologia e cultura, Firenze, Le Monnier, 1980, pp. 216–217.
[3] Ibidem.
[4] Piccone Stella, Intellettuali e capitale…, cit., p. 221.
[5] Un’ampia rassegna delle principali riviste aziendali pubblicate in Italia negli anni Cinquanta è contenuta in un articolo di Renato Giani, La carta dell’amicizia, pubblicato sul n. 1 (1958) di “Civiltà delle macchine”, pp. 36–40. Cfr. anche L. Bigiaretti, Caratteri e scopi delle riviste aziendali, “Linea Grafica”, XIII, 11-12, novembre-dicembre 1958, pp. 282–285.
[6] Piccone Stella, Intellettuali e capitale…, cit., p. 234.
[7] Sulle iniziative del Centro Culturale Pirelli cfr. l’articolo di S. Severgnini, Una cultura come il pane, “Pirelli”, IV, 1, gennaio-febbraio 1951, pp. 36–38.
[8] Originale figura di intellettuale-manager col pallino dell’arte (da giovane avrebbe voluto fare il pittore), Giuseppe Luraghi è stato un apprezzato autore di poesie, traduzioni e saggi sull’arte figurativa. Riscosse un discreto successo negli anni Settanta – rivelando anche una spiccata vocazione parodica – con una serie di racconti semi-dialettali incentrati sulla figura del bottegaio milanese Pepp Girella. (Cfr. R. Gianola, Luraghi. L’uomo che inventò la Giulietta, Milano, Baldini e Castoldi, 2000).
[9] Cfr. L. Sinisgalli, Presentazione a Poesie di Ieri, Milano, Mondadori, 1966.
[10] “Si tratta di collaborare con i tecnici, di riprendere quei contatti che in un triste periodo furono interrotti, ma riprenderli con gusto moderno, attuale […]. Oggi altre esperienze ci hanno insegnato che un oggetto può e deve essere bello con le sue stesse forme, come lo è un insetto o un fiore. […] E chi può far ciò se non un artista arrivato ormai alla origine delle forme e agli accordi puri di colore? Chi ancora si attarda a ritrarre paesaggi o nature morte sia in modo verista o neocubista, si convinca che è lontano dalla vita, dai contatti umani più vivi. Ormai quest’arte da cavalletto o da salotto non dice più nulla. Vediamo invece nelle opere degli artisti più avanzati forme, colori, accordi e ritmi applicabili ad oggetti di uso comune. E se tutto ciò è applicabile, vuol dire che viene da un’arte pura, vera e concreta” (B. Munari, Arte e industria, “AZ”, II, 4, Milano, aprile-maggio 1950).
[11] Cfr. “Pirelli”. Antologia di una rivista d’informazione e di tecnica. 1948-1972, a c. di V. Scheiwiller e A. Longoni, Milano, Libri Scheiwiller, 1987, p. 15.
[12] l. s. [Leonardo Sinisgalli], s. t., “La botte e il violino”, II, 1, 1965, pp. 1–2.
Un pensiero riguardo ““DOPO IL BOOM IL BOOMERANG”. INTELLETTUALI E INDUSTRIA NEGLI ANNI CINQUANTA E SESSANTA”