
Mi è capitato altrove di sottolineare le «occasioni mancate» del futurismo italiano che, in molti casi, non riuscì ad orientare la propria azione innovatrice in modo costruttivo e non seppe tradurre le tante intuizioni brillanti in «azioni efficaci di rinnovamento e in invenzioni durature».[1] Per molti anni il futurismo è stato considerato un’avventura effimera, un’esperienza velleitaria consumatasi all’interno di una temperie culturale ancora ampiamente dominata dallo spirito “decadente” e ancor oggi non mancano i detrattori (in verità sempre meno numerosi) che si sono fermati a considerare solo gli slogan e le parole d’ordine del movimento o gli atteggiamenti un po’ naive di Marinetti, non riuscendo a cogliere il senso complessivo della rivoluzione avanguardista e la sua importanza per gli sviluppi successivi della poesia, delle arti figurative, dell’architettura in Europa.[2]
“Primitivi di una nuova sensibilità”,[3] i giovani seguaci di Marinetti non rimasero insensibili dinanzi alle strabilianti innovazioni prodotte, al principio del secolo scorso, dall’accelerazione del progresso tecnologico e ne colsero immediatamente l’enorme ricaduta socio-culturale. Le metropoli illuminate dalla luce elettrica e invase dagli odori e dai rumori delle automobili, i paesaggi naturali trasformati dalla presenza di porti, stazioni e officine, e quelli urbani notturni animati da café-chantants e cabarets divennero uno stimolo potente per la creazione artistica e nuove fonti d’ispirazione per i poeti e i pittori del movimento. Intento primario di Marinetti e dei suoi adepti, dunque, fu quello di dare forma e voce a questa nuova “sensibilità” e di trasferire nel linguaggio dell’arte le forme e i valori della nascente “civiltà meccanica”: dinamismo, geometrismo, velocità, simultaneità.
Uccidiamo il chiaro di luna! è certamente il più celebre degli slogan marinettiani ed anche il più controverso, quello che nel 1909[4] fece sobbalzare gli accademici e gli intellettuali italiani più reazionari, arroccati nell’ostinata difesa dell’ormai logora tradizione letteraria e artistica del paese, celebrata come “patrimonio nazionale” e dunque impermeabile ai fermenti e alle idee nuove che pure cominciavano a manifestarsi oltralpe nei campi dell’architettura, della pittura e della poesia. La battaglia anti-passatista portata avanti dai futuristi della prima ora – Marinetti, Boccioni, Balla, Carrà, Russolo, Severini – ebbe, dunque, come principale obiettivo quello di “sprovincializzare” il nostro paese e portarlo al medesimo livello di sviluppo artistico raggiunto in quegli anni da Francia e Germania; un’operazione necessaria per dare un’accelerazione al rinnovamento della nazione e magari restituirgli il suo antico “primato” culturale. Inneggiare all’abolizione del chiaro di luna – come pure di albe, crepuscoli, tramonti ed altri “polverosi” soggetti ampiamente sfruttati nella poesia e nella pittura di ogni tempo – significava, quindi, farla finita con i luoghi comuni dell’arte e liberarsi finalmente dall’ormai anacronistica «ossessione dell’antico»:
Noi vogliamo combattere accanitamente la religione fanatica, incosciente e snobistica del passato, alimentata dall’esistenza nefasta dei musei. Ci ribelliamo alla supina ammirazione delle vecchie tele, delle vecchie statue, degli oggetti vecchi e all’entusiasmo per tutto ciò che è tarlato, sudicio, corroso dal tempo, e giudichiamo ingiusto, delittuoso, l’abituale disdegno per tutto ciò che è giovane, nuovo e palpitante di vita.[5]
L’arte per essere viva e sempre attuale – leggiamo nel Manifesto dei pittori futuristi del 1910 – deve essere al passo con i tempi, assecondare i progressi della tecnica ed esprimere i cambiamenti culturali e sociali che quest’ultima impone:
Come i nostri antenati trassero materia d’arte dall’atmosfera religiosa che incombeva sulle anime loro, così noi dobbiamo ispirarci ai tangibili miracoli della vita contemporanea, alla ferrea rete di velocità che avvolge la Terra, ai transatlantici, alle Dreadnought, ai voli meravigliosi che solcano i cieli, alle audacie tenebrose dei navigatori subacquei, alla lotta spasmodica per la conquista dell’ignoto.[6]
Sarebbe toccato «agli artisti giovani d’Italia» inaugurare una stagione creativa totalmente nuova, lontana dal «pedantismo» e dal «formalismo accademico», dal condizionamento di critici prezzolati o superficiali e svincolata da ogni forma di inutile specialismo («Finiamola, coi Ritrattisti, cogl’Internisti, coi Laghettisti, coi Montagnisti!…Li abbiamo sopportati abbastanza, tutti codesti impotenti pittori da villeggiatura.»[7]). Se nel succitato manifesto del 1910 – firmato da Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini – i toni sono fortemente polemici nell’intento di spazzar via il «culto del passato» attraverso il disprezzo dell’imitazione, dell’accademismo, della tradizione, diverso è lo stile del successivo La pittura futurista (11 aprile 1910) che, come tutti i “manifesti tecnici” del movimento, non ha carattere demolitivo ma propositivo. I cinque firmatari di questo manifesto sono gli stessi del precedente, ma ora ciò che interessa è definire «l’assoluto pittorico», indicare il modo nuovo, libero e dinamico, di leggere e reinterpretare la figura e il paesaggio:
Il gesto per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza della immagine nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo in corsa non ha quattro gambe: ne ha venti e i loro movimenti sono triangolari. Tutto in arte è convenzione, e le verità di ieri sono oggi, per noi, pure menzogne.[8]
In definitiva, la battaglia artistica ingaggiata dai futuristi italiani non mirava tanto alla dissoluzione dei motivi e dei soggetti dell’arte tradizionale, quanto all’affermazione di un modo assolutamente rivoluzionario di rappresentarli, attraverso forme, linee e colori decisamente inediti. La figura umana e il paesaggio restano al centro dell’interesse dei pittori, e non poteva essere altrimenti, ma con alcune differenze sostanziali rispetto al passato: innanzitutto l’uomo non è più ritenuto il «centro della vita universale» (il suo dolore è giudicato artisticamente «interessante» «quanto quello di una lampada elettrica»), ma è considerato alla stregua di altri elementi della vita animale, minerale, vegetale o meccanica; allo stesso modo il paesaggio naturale, tanto amato dai pittori da cavalletto, è ammesso dai futuristi solo se reso dinamico e vitale dalla presenza di officine e porti, stazioni e garages, locomotive e automobili; solo così “alterata” la Natura sarebbe apparsa stimolante agli occhi degli artisti futuristi al pari del paesaggio artificiale di una coloratissima metropoli notturna, popolata da nottambuli e cocottes, rischiarata da luci elettriche, insegne luminose di café-chantants e music-halls.
In definitiva, affrancato da condizionamenti intellettualistici e da inutili scorie sentimentali, il pittore futurista non ha l’obiettivo di riprodurre paesaggi e figure somiglianti ai loro modelli ma interpreta liberamente quei soggetti alla luce delle «sensazioni pittoriche» che essi suscitano («il pittore ha in sé i paesaggi che vuol produrre»). L’arte futurista, infatti, è assolutamente soggettiva, a-prospettica, dinamica, basata non sulla visione dell’oggetto, ma sulla percezione multisensoriale che di esso ha il pittore. Dal momento che «tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido», non ha senso ritrarre una figura in modo ottusamente statico; essa si compenetra con l’ambiente circostante, si scompone e moltiplica al contatto con altre forme e colori, creando vortici di sensazioni capaci di risucchiare «lo spettatore nel centro del quadro»:
Lo spazio non esiste più: una strada bagnata dalla pioggia e illuminata da globi elettrici s’inabissa fino al centro della terra. Il Sole dista da noi migliaia di chilometri; ma la casa che ci sta davanti non ci appare forse incastonata dal disco solare? Chi può credere ancora all’opacità dei corpi, mentre la nostra acuita e moltiplicata sensibilità ci fa intuire le oscure manifestazioni dei fenomeni medianici? Perché si deve continuare a creare senza tener conto della nostra potenza visiva che può dare risultati analoghi a quelli dei raggi X? […] La costruzione dei quadri è stupidamente tradizionale. I pittori ci hanno sempre mostrato cose e persone poste davanti a noi. Noi porremo lo spettatore nel centro del quadro.[9]
A tre anni di distanza da La pittura futurista, Carlo Carrà pubblica un altro manifesto – La pittura dei suoni, rumori e odori (11 agosto 1913) –, forse meno famoso del precedente ma illuminante per conoscere chiaramente i bersagli polemici della lotta futurista contro l’arte passatista e per meglio comprendere le soluzioni tecniche (formali e cromatiche) proposte dagli artisti del movimento per ottenere una «pittura totale», in grado, cioè, di riprodurre «la vita moderna essenzialmente dinamica, sonora, rumorosa e odorante». Agli impressionisti, scrive Carrà, va riconosciuto il merito di aver fatto «qualche confuso e timido tentativo di suoni e rumori pittorici», ma per ottenere un pieno risultato essi avrebbero dovuto distruggere «il volgarissimo trompe-l’oeil prospettico, giochetto degno tutt’al più di un accademico, tipo Leonardo»», «il concetto di armonia coloristica» che conduce al «grazioso, nel genere Watteau», «l’idealismo contemplativo», ovvero il «mimetismo sentimentale della natura apparente» alla Corot e Delacroix, «l’aneddoto e il particolarismo» che trascinano la pittura nella banale fotografia.[10] I futuristi – prosegue Carrà – infrangendo le unità di spazio e di tempo, rifiutando i colori «in sordina», tenui e sbiaditi, e negando «l’uso dell’orizzontale pura, della verticale pura e di tutte le linee morte», hanno dimostrato di avere quel coraggio che è mancato ai “cugini” francesi:
Noi pittori futuristi affermiamo che i suoni, i rumori e gli odori si incorporano nell’espressione delle linee, dei volumi e dei colori, come le linee, i volumi e i colori s’incorporano nell’architettura di un’opera musicale. Le nostre tele esprimeranno quindi anche le equivalenze plastiche dei suoni, dei rumori e degli odori del Teatro, del MusicHall, del cinematografo, del postribolo, delle stazioni ferroviarie, dei porti, dei garages, delle cliniche, delle officine, ecc. ecc.
Dal punto di vista della forma: vi sono suoni, rumori e odori concavi e convessi, triangolari, elissoidali, oblunghi, conici, sferici, spiralici, ecc.
Dal punto di vista del colore: vi sono suoni, rumori e odori gialli, rossi, verdi, turchini, azzurri e violetti.[11]
La “questione paesaggio” resta un nodo cruciale all’interno della riflessione teorica condotta dagli artisti dell’avanguardia, tanto che Boccioni in uno scritto del 1914 – Contro il paesaggio e la vecchia estetica – proclama la necessità di riformulare il concetto stesso di Natura, non più assimilabile a quello proposto dalle «anime agresti», per le quali l’elemento naturale coincide con «il campestre, la pace nel bosco, il mormorio del ruscello». Boccioni parte dalla considerazione che l’uomo moderno, con l’aiuto della scienza e della tecnologia, ha stravolto irrimediabilmente l’ambiente naturale, imprimendogli delle trasformazioni permanenti: ha livellato terreni, forato montagne, innalzato edifici, colmato laghi, costruito dighe; si tratta di modificazioni straordinarie del paesaggio delle quali l’artista moderno non può non tener conto:
Noi affermiamo che si può creare la natura interpretandone le sue infinite apparizioni anche attraverso le matematiche geometriche trasformazioni che l’uomo moderno le imprime! […] Vi sono possibilità di paesaggio ovunque: nei marmi dei palazzi, nei cementi levigati delle case, negli asfalti delle strade, nei lunghi corridoi degli Hotels […]; nelle stanze smaltate di bianco delle cliniche, nel metodico andare delle macchine affaccendate…[…]. Ciò che esiste è creato dall’uomo e diviene per la nostra plastica l’elemento naturale nel quale scopriamo le forme. Noi possiamo studiare – cioè amare – una macchina, una rotativa qualsiasi e servirci dei suoi piani, dei suoi profili, delle sue cavità, dei suoi moti come di elementi naturali per la costruzione del nostro paesaggio.[12]
Con la pubblicazione, l’11 marzo 1915, del più celebre dei manifesti futuristi – Ricostruzione futurista dell’Universo – Balla e Depero suggellano la definitiva affermazione della rivoluzione artistica avanguardista. A soli sei anni di distanza dalla fondazione del movimento, i due artisti possono già operare un primo bilancio, ovviamente positivo, dei risultati ottenuti in diversi campi d’intervento (poesia, pittura, scultura, musica) e possono proclamare, in pittura, il definitivo «superamento e solidificazione dell’impressionismo». Non dimentichiamo, infatti, che nel biennio 1913-14 Balla aveva lavorato sui concetti di dinamismo, velocità, compenetrazione e aveva dipinto una serie di tele dedicate alla velocità dell’automobile. Quelle tele fissavano in modo perentorio il nuovo canone dell’arte futurista – incentrata sul basilare concetto delle «linee-forza» – e aprivano ufficialmente la strada ad un nuovo tipo di rappresentazione del «paesaggio artificiale» destinato ad avere importanti sviluppi nel ventennio successivo[13]:
Sviluppando la prima sintesi della velocità dell’automobile, Balla è giunto al primo complesso plastico. Questo ci ha rivelato un paesaggio astratto a coni, piramidi, poliedri, spirali di monti, fiumi, luci, ombre. Dunque un’analogia profonda esiste fra le linee-forze essenziali della velocità e le linee-forze essenziali d’un paesaggio. Siamo scesi nell’essenza profonda dell’universo, e padroneggiamo gli elementi. Giungeremo così, a costruire.[14]
Questo articolo è un estratto del saggio Il Futurismo e la nuova estetica del paesaggio, pubblicato in 1914/2014. Cent’anni di architettura futurista, a cura di Andrea Nastri e Giuliana Vespere, Clean, 2015.
[1] Mi permetto di rinviare al mio saggio Ancora sul Futurismo. Tra folgoranti intuizioni e occasioni mancate, Introduzione a Speciale futurismo, numero monografico della rivista «Sinestesie», a cura della sottoscritta, a. VIII, 2010, pp. 9-14.
[2] All’importante eredità culturale del futurismo, ad esempio nei settori della fotografia, del cinema, dell’architettura, dell’ingegneria, è dedicato il volume Schegge futuriste. Studi e ricerche, a cura di M. Cozzi e A. Sanna, Olschki, Firenze 2012. Non è possibile dar conto in questa sede dei molti studi dedicati alla storia del movimento, al suo fondatore o i suoi maggiori esponenti, pubblicati dal 2009 (anno del centenario futurista ) ad oggi. Desidero tuttavia segnalare due recenti volumi che raccolgono gli atti di due importanti giornate di studi: Prima e dopo il 1909. Riflessioni sul Futurismo (Genova, 23 febbraio 2010), a cura di L. Lecci e M. Manfredini. Aracne, Roma 2014 e Marinetti e l’incendio futurista (Biblioteca civica di Voghera, 29 novembre 2014), a cura di L. Gallina, Progetto Voghera, Voghera 2014. Una segnalazione merita infine anche il volume miscellaneo curato da Diego Poli e Laura Melosi I linguaggi del futurismo (EUM, 2013), incentrato sul carattere fortemente sperimentale dell’avanguardia storica nelle sue molteplici diramazioni e articolazioni espressive.
[3] Cfr. Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini, La pittura futurista. Manifesto tecnico (11 aprile 1910), in Manifesti futuristi, a cura di G. Davico Bonino, Rizzoli, Milano 2009, p. 75.
[4] Cfr. Filippo Tommaso Marinetti, Uccidiamo il chiaro di luna! (aprile 1909), in Manifesti futuristi, cit., pp. 47-59.
[5] Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini, Manifesto dei pittori futuristi (11 febbraio 1910), in Manifesti futuristi, cit., pp. 67-68.
[6] Ivi, p. 68.
[7] Ivi, p.69.
[8] Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini, La pittura futurista. Manifesto tecnico (11 aprile 1910), in Manifesti futuristi, cit., pp. 71-72.
[9] Ivi, p. 72.
[10] Cfr. Carlo Carrà, La pittura dei suoni, rumori e odori (11 agosto 1913), in Manifesti futuristi, cit., p. 87.
[11] Ivi, p. 90.
[12] Umberto Boccioni, Contro il paesaggio e la vecchia estetica, in Pittura Scultura futuriste, Edizioni futuriste di «Poesia», Milano 1914; ripubbl. in Filippo Tommaso Marinetti e il futurismo, a cura di L. De Maria, Mondadori, Milano 1973, pp. 211-217. La citazione è alle pp. 212-213.
[13] Il Manifesto dell’aeropittura futurista esce il 22 settembre 1929 sulla «Gazzetta del popolo» all’interno di un articolo intitolato Prospettive di volo. Nove sono i firmatari: Balla, Benedetta, Depero, Dottori, Fillia, Marinetti, Prampolini, Somenzi, Tato. La nuova pattuglia di pittori futuristi operante negli Trenta aggiunge ai valori del dinamismo plastico (Boccioni) e della velocità (Balla), un nuovo fondamentale principio compositivo, quello della simultaneità, intesa come riproduzione sintetica di movimenti e «sensazioni consecutive»: “L’aeropittura ha dunque la sua ragion d’essere nella simultaneità. […]. I paesaggi, i cieli, le luci, il lontano ed il vicino, il passato ed il raggiunto, risultano in blocco ed il pittore ne dà la visione simultanea arricchita dei misteri del suo animo” (Fillia, Spiritualità aerea, «Oggi e Domani», 4 novembre 1930; poi in «Il Giornale dell’arte», 29 marzo 1931, Cfr. Fillia, fra immaginario meccanico e primordio cosmico, a cura di E. Crispolti, Mazzotta, Miklano 1988, p. 77).
[14] Balla, Depero, Ricostruzione futurista dell’universo, (11 marzo 1915), in Manifesti futuristi, cit., p. 96.