Negli anni Quaranta ha inizio la multiforme collaborazione del poeta-pittore romano Toti Scialoja (esponente di spicco dell’espressionismo astratto italiano e poeta nonsensical) con il mondo del teatro[1]; un’attività tutt’altro che marginale, svolta con particolare intensità negli anni 1943-1956, durante i quali il giovane artista collabora, tra gli altri, con il regista Vito Pandolfi, con il coreografo ungherese Aurel M. Milloss, con Cesare Brandi, cimentandosi in regie[2], scrivendo saggi (sulla moderna scenografia pittorica e sul rapporto danza-pittura[3]) e soprattutto, creando memorabili décor, nei quali il linguaggio espressionista delle prime realizzazioni si evolve progressivamente in senso antinaturalistico, metafisico, approdando a creazioni totalmente astratte, in sintonia con quanto accadeva nel parallelo percorso pittorico. La collaborazione con Pandolfi risale al 1943, anno in cui Scialoja realizza le scene di stile espressionista dello spettacolo L’opera dello straccione (ispirato all’Opera da tre soldi di Brecht) che, rappresentato con grande successo al Teatro Argentina di Roma l’11 febbraio, non ebbe repliche, in quanto giudicato “provocatorio” dalla censura fascista (tra gli interpreti: Vittorio Gassman, Luciano Salce, Lea Padovani e altri giovanissimi allievi della Regia Accademia di Arte Drammatica di Roma).
Con Aurel M. Milloss, attivo al Teatro Reale dell’Opera di Roma già dal 1938, Scialoja stringe un sodalizio umano e professionale durato oltre dieci anni. Per il coreografo ungherese – cui va il merito di aver avvicinato l’artista romano al mondo della danza – Scialoja realizza il décor del balletto Capricci alla Strawinsky, rappresentato al Teatro delle Arti di Roma il 30 aprile 1943, le scene e i costumi per Il Mandarino meraviglioso (con musiche di Béla Bartók) in scena al Teatro Adriano il 2 dicembre del 1945 e la scenografia per Rhapsody in blue, da un’idea musicale di Gershwin, andato in scena al Teatro dell’Opera di Roma il 31 gennaio 1948. Sempre nel ’48 Toti disegna le scene e i costumi per il balletto Marsia (con musiche di Luigi Della Piccola e coreografie di Milloss) rappresentato al teatro La Fenice di Venezia il 9 settembre nell’ambito del Festival internazionale di musica contemporanea.
Nel biennio 1947-48, però, Scialoja non solo si dedica con particolare fervore al lavoro teatrale, sviluppando la sua idea di scenografia come «spazialità espressiva», ma ha anche modo di approfondire la propria ricerca pittorica, attraverso due importanti soggiorni parigini, il primo dei quali risale all’estate del 1947 in compagnia dell’inseparabile Milloss, del compositore Goffedo Petrassi e dei pittori Tamburi e Gentilini. Nella capitale francese, meta obbligata per tutti i giovani artisti della sua generazione, Scialoja “scopre” Soutine, Picasso, Braque, Cézanne ed elabora, nel giro di pochi anni, un diverso linguaggio pittorico tanto da dichiarare, nell’ottobre del 1954, di essere giunto alla sua «verità», di aver trovato, cioè, quella pienezza espressiva che solo una «pittura di sensazione» poteva finalmente garantirgli:
Da una pittura di impressione o deformazione ottica – attraverso un tirocinio operato su elementi razionali di forma e concettuali di spazio – sono arrivato alla mia verità: ad una pittura di sensazione. Una pittura che rientra e partecipa direttamente al flusso della realtà, a questa comunicazione incessante[4].
Negli anni Cinquanta, forte di queste nuove esperienze ed acquisizioni formali, Scialoja rinsalda il sodalizio con Milloss e dà vita ad autentici capolavori scenici. Le invenzioni dell’artista, oramai scenografo apprezzato in Italia e all’estero, si fanno più audaci, anticipando stilemi e contenuti del più avanzato teatro d’avanguardia. Nella Ballata senza musica del 1950, scritta da Scialoja con il coreografo ungherese, scompaiono i classici fondali pittorici, sostituiti da oggetti “impoetici” – casse, corde, scarpe militari, scale – che, sottratti alla quotidianità d’uso e alla loro funzione meramente pratica, divengono emblemi fortemente allusivi, scampoli di realtà sospesi in un’atmosfera rarefatta carica di valenze metafisiche. Forte è l’impatto emotivo di questo spettacolo sugli spettatori, ma, quando l’artista, l’anno successivo, decide di spingersi “oltre” e di realizzare fondali assolutamente astratti per La strada sul caffè, spettacolo di Cesare Brandi coreografato da Milloss, non trova appoggio nei due amici. Entrambi, infatti, in pieno clima neorealista, intendono orientarsi verso la costruzione di scene più tradizionali e aderenti al “vero” e Toti si adegua alle loro richieste modificando il décor in senso naturalistico, ma lo spettacolo non va in scena.
Nel giro di pochi anni la situazione muta radicalmente. La ricerca artistica di Scialoja evolve, dopo il ’54, verso una nuova visione spaziale, a-prospettica e anti-naturalistica, in linea con quanto accadeva negli stessi anni negli Stati Uniti; un’autentica “rivoluzione” concettuale segnata dall’abbandono del tradizionale pennello sostituito dallo straccio intriso di pigmento e impresso sulla tela con gesto libero. L’intento dell’artista è, ora, quello di scavare «nel fondo concreto dello spazio […] anche a costo di sprofondare»[5]:
Da quando dipingo con lo straccio stretto a batuffolo e intriso di colore, mi pare di non muovere più lo spazio dal di fuori, ma di agire dal di dentro dello spazio e della materia. Mi muovo al centro dello spazio[6].
Le soluzioni formali cui giunge Scialoja in questa nuova stagione artistica si trasferiscono naturalmente dalla pittura al teatro; ne è un esempio il balletto a tema folklorico Hungarica, ideato da Milloss e rappresentato al Teatro dell’Opera di Roma nel gennaio del 1956. Per questo spettacolo, che costituisce il capitolo finale della straordinaria collaborazione tra il coreografo e l’artista romano, quest’ultimo, crea delle scene astratte, di forte impatto drammatico, dipinte con la tecnica del dripping (di derivazione pollockiana): ampie colature di colore rosso scivolano su un fondale completamente nero, dando vita ad un forte contrasto cromatico che esercita sullo spettatore un irresistibile fascino ipnotico. E ancora totalmente astratte sono le scene realizzate per la Persephone di André Gide (con musiche di Strawinsky) rappresentata il 6 febbraio del ’56 al Teatro Massimo di Palermo. Un importante riconoscimento dell’attività svolta da Scialoja in ambito teatrale era stato l’incarico straordinario di Scenotecnica ottenuto nel 1953 presso l’Accademia di Belle Arti di Roma (della quale, nel 1982, diviene direttore) e conservato fino al 1957. Tra i suoi allievi: Mario Ceroli, Jannis Kounellis, Pino Pascali, Giosetta Fioroni, tutti incantati dalle lezioni del maestro che «realizzava le sue opere in classe» e «attraverso il teatro arrivava poi alla pittura, alla letteratura, alla filosofia»:
Il senso aprospettico dello spazio, l’idea di superficie, la pittura gestuale e l’automatismo psichico, tutto quello che Scialoja andava formulando in questi anni come sua poetica, prendeva corpo e veniva trasmesso in classe[7].
L’attività teatrale di Scialoja, insomma, costituisce un capitolo importante della storia del teatro italiano del secondo dopoguerra, soprattutto per l’azione di rottura portata avanti nei confronti della tradizione scenografica italiana fondata sulla vetusta idea della scena «come puro fondale immobile, semplice arredo della rappresentazione»[8]. Avverso questa visione rigidamente classica e supinamente realistica del teatro, l’artista romano, come abbiamo visto, propone una concezione nuova dello spazio scenico che, «mobile e metamorfico», è essenzialmente «spazio illusivo, incommensurabile certo allo spazio naturale»[9]:
[…] la scenografia non come contenitore, come è intesa volgarmente da tutti, come una scatola il più possibile prospettica per illudere di una profondità spaziale che non c’è, per dare più respiro. Non c’è scenografia che non sia simmetrica, prospettica, cioè che non ripeta meccanicamente la forma del boccascena, di quello che è il teatro. Il teatro è prospettico e simmetrico. Allora dentro questa bocca, il boccascena, in questo spazio che dovrebbe essere lo spazio del dramma, dell’apparizione del dramma, ancora si ripete la prospettiva e la simmetria. È grottesco. Lo spazio scenografico dovrebbe essere libero e fluente, come lo spazio di un quadro. […] Lo spazio scenografico è lo spazio tout court, è lo spazio dell’arte, della pittura che poi diventa scenografia, che non perde nulla ma si arricchisce di una funzione ulteriore che è quella di far apparire il tempo del dramma[10].
All’interno dello spazio scenico così inteso, tutte le arti (musica, pittura, danza) devono entrare in gioco e concorrere ad esaltare nel modo più felice possibile la figura assolutamente centrale dell’attore-danzatore. Al centro dell’azione teatrale, infatti, c’è sempre l’Uomo con la sua espressività corporea, con la sua gestualità, con la «sua straordinaria umanità», che la pittura, la danza e la musica devono saper valorizzare:
In pittura il mezzo espressivo è il colore, in musica è il suono, in teatro è l’uomo, l’uomo che appare agli altri. Adoro questa sua straordinaria umanità. Il teatro è voce e apparizione, è arte visiva. Tutte le arti che partecipano a questa spazialità devono avere, mantenere la loro autonomia – la pittura deve essere una bella pittura – però devono anche assumere contemporaneamente, parallelamente, un funzione nuova, diversa. È qui la vena dell’umanizzazione, della presenza umana. Lo spazio pittorico quando diventa spazio di teatro deve servire a tirar fuori il più possibile questa apparizione, questa maschera che è l’uomo, senza perdere i suoi valori.[11]
Nella seconda metà degli anni Cinquanta l’attività teatrale dell’artista romano subisce una battuta d’arresto, riprenderà solo una decina d’anni più tardi ma in un contesto culturale affatto diverso e senz’altro meno stimolante. Anche se tra il 1977 e il 1978 progetta fiabe teatrali per la televisione e, nel 1981, realizza per Italo Calvino il bozzetto dell’azione scenica Le porte di Bagdad, alle soglie degli anni Ottanta Scialoja è “distratto” da nuove prospettive di ricerca in campo artistico e poetico. La pittura “esplosiva”, all over, delle ultime tele palesa un’ansia di libertà espressiva e di emancipazione totale da ogni tipo di costrizione formale; i versi lunghi (“lirico-narrativi”) delle ultime raccolte poetiche mostrano, invece, il lato più intimo e inquieto dell’anziano artista, rivelando una condizione “senile” di estrema fragilità esistenziale. Ma questa è un’altra storia.
Estratto del saggio Uno “spazio mobile e metamorfico”. L’attività teatrale di Toti Scialoja, pubblicato in Letteratura e arti dal Barocco al postmoderno (e-book), Edizioni Sinestesie, 2012
[1] Barbara Drudi ha puntualmente ricostruito le tappe principali dell’attività di scenografo svolta da Scialoja negli anni Quaranta e Cinquanta nel saggio Toti Scialoja: il teatro e la pittura, in Opere 1955-1963, Mostra alla Galleria dello Scudo, Verona, 5 dicembre 1999-13 febbraio 2000, catalogo a cura di F. D’Amico, Skira, Milano 1999, cit., pp. 29-47.
[2] In pieno clima esistenzialista, Scialoja scrive la tragedia in un atto Morte dell’aria (sue anche le scenografie),
musicata da Goffredo Petrassi e andata in scena al Teatro Eliseo di Roma il 21 ottobre del 1950.
[3] Cfr. T. SCIALOJA, Premesse per una moderna scenografia pittorica, in «Mercurio», Roma, 1 novembre 1944, I, 3, pp. 142-148 e ID., Danza-Pittura, in «Mercurio», Roma, gennaio 1946, a. III, n. 17, pp. 143-149.
[4] T. SCIALOJA, Giornale di pittura, Prefazione di G. Dorfles, Poscritto di D. Fasoli, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 5.
[5] Ivi, p. 9.
[6] Ibidem.
[7] B. DRUDI, La “classe” di Scialoja, «La Tartaruga», Roma, marzo 1989, pp. 143-144.
[8] DRUDI, Toti Scialoja: il teatro e la pittura, cit., p. 34.
[9] Ibidem.
[10] A. TINTERRI, Scialoja, il topino e i nonsense per il nipotino James (intervista a Toti Scialoja), «Il Secolo XIX», 21 agosto 1992.
[11] Ibidem.