A cavallo tra Otto e Novecento, scoperte e innovazioni (verificatesi in diversi settori della scienza, della tecnologia, dell’economia) modificano profondamente la produzione industriale e il commercio e, conseguentemente, anche le idee, i bisogni e lo stile di vita delle popolazioni europee cambiano.
Possiamo provare a sintetizzare in pochi passaggi gli aspetti più rilevanti (sul piano socio-politico) della cosiddetta “seconda rivoluzione industriale” che innesca un processo irreversibile di modificazione della mentalità e del comportamento delle masse:
1) Dalla produzione artigianale alla produzione in serie
L’Ingegnere americano Frederick Taylor al principio del Novecento, al culmine della seconda rivoluzione industriale, teorizza un nuovo modello di produzione (basato sulla divisione razionale del lavoro e sulla cosiddetta “catena di montaggio”), finalizzato alla diminuzione dei costi e all’aumento dei profitti. L’industriale americano Henry Ford nel 1913 applica per primo il “taylorismo” nella sua fabbrica di automobili di Detroit. Taylorismo e fordismo cambiano radicalmente la concezione del lavoro e rendono ancor più netta e definitiva la distinzione tra la figura dell’artigiano e quella dell’operaio:
- L’artigiano: lavora da solo in bottega ed è orgoglioso dei propri manufatti; produce oggetti unici, costosi; è gratificato dal proprio lavoro “creativo”; è proprietario degli attrezzi e strumenti che utilizza; ha conoscenze e competenze specifiche che è in grado di trasmettere ad un apprendista.
- L’operaio: lavora in fabbrica alla catena di montaggio; non costruisce oggetti, ma solo singoli pezzi da assemblare; svolge un lavoro non qualificato, ripetitivo e non gratificante; non è proprietario dei mezzi di produzione; non acquisisce un “sapere” da trasmettere.
La catena di montaggio, quindi – pur consentendo di abbattere i costi di produzione e di far circolare merci a basso costo prodotte “in serie” – provoca una “disumanizzazione” del lavoro in fabbrica; l’operaio è “alienato”, insoddisfatto, appare sempre più un ingranaggio di un sistema, una macchina al servizio di altre macchine.
2) I partiti di massa
Lo sviluppo dell’industria tra Otto e Novecento porta con sé, dunque, una spinosa “questione operaia”, destinata ad aggravarsi nel tempo con serie conseguenze socio-politiche. I partiti di massa nascono proprio per difendere i diritti dei lavoratori della terra e dell’industria (operai stanchi di essere sfruttati e contadini ancora in attesa della riforma agraria) e per dar voce alle esigenze e alle rivendicazioni socio-economiche di ampie fasce di popolazione. Nella seconda metà dell’Ottocento la vita politica italiana era gestita dai “liberali”, ovvero da un’élite borghese, ricca e istruita, convinta che ad essa potessero accedere solo i ceti privilegiati (industriali, proprietari terrieri, imprenditori, banchieri). Con la società di massa, ceto medio (impiegati) e proletariato (operai) reclamano una maggiore partecipazione alla vita politica, più democrazia e il suffragio universale (che sarà introdotto in Italia solo nel 1914, ma per le donne dobbiamo attendere il 1946).
Nasce il primo partito di massa – il Partito socialista – fondato in Italia da Filippo Turati nel 1892, per rappresentare gli interessi delle classi lavoratrici, sempre sfruttate e mal pagate. All’interno del partito socialista si formano due correnti: Riformisti (pensano che miglioramenti per i lavoratori si possano ottenere attraverso una politica graduale di riforme); Massimalisti (puntano alla rivoluzione comunista attraverso azioni di lotta). Un altro grande partito di massa – il Partito popolare Italiano – nasce dopo la grande guerra, nel 1919, ad opera di Don Luigi Sturzo, con l’obiettivo di dar voce e spazio ai cattolici italiani, esclusi dalla vita politica italiana dal 1874 (ovvero dal “Non expedit” di Pio IX, conseguente all’unificazione nazionale). Sempre nel 1919 Benito Mussolini dà vita ai Fasci di combattimento, un movimento dalla composizione eterogenea che riuniva reduci, arditi, sindacalisti rivoluzionari, repubblicani, futuristi, accomunati dal malcontento per l’esito deludente della guerra e dalla volontà di modificare (anche con la violenza) l’ordine politico-sociale esistente.
3) Società dei consumi e “belle époque”
La produzione in serie, come abbiamo visto, consente la diffusione di merci a basso costo (sia pure a scapito della qualità). Gli industriali si rivolgono alle masse anonime di compratori, spingendoli ad acquistare beni di vario tipo, non solo quelli di prima necessità. A tal scopo nascono:
- i grandi magazzini (dall’abito sartoriale su misure all’abito “confezionato”)
- la pubblicità (per stimolare i bisogni)
- le vendite a domicilio e a rate
L’affermazione della società di massa coincide con la cosiddetta “belle époque”, ovvero con il periodo compreso tra 1880 e il 1914. È un’epoca “bella” perché la seconda rivoluzione industriale crea grande ottimismo e fiducia nel progresso umano:
- la popolazione europea cresce, si vive più a lungo, migliorano la condizioni di vita, i salari aumentano;
- le grandi esposizioni universali (EXPO) sono il simbolo di tale progresso (a Parigi nel 1889 in occasione dell’expo viene costruita la Tour Eiffel);
- la luce elettrica illumina le notti nelle grandi capitali (fioriscono cabaret, teatri, ritrovi notturni);
- cominciano a circolare le prime automobili;
- nasce il cinema come nuova forma di intrattenimento collettivo e di massa;
- cambia anche il modo di viaggiare grazie alle automobili, alle ferrovie, ai transatlantici;
- intellettuale simbolo di questo periodo è Gabriele D’Annunzio, intellettuale di grande personalità, ammirato dalle masse per la sua vita “inimitabile” (amori, duelli, imprese eroiche).
Lo scoppio della prima guerra mondiale chiuderà bruscamente e definitivamente quest’epoca, mostrando l’altro volto (violento e distruttivo) della rivoluzione industriale.