LA POESIA DEL “NONSENSE” IN ITALIA? La “terna” Scialoja, Niccolai, Maraini (parte terza)

Se, dopo quanto è stato detto nella seconda parte di questa indagine, preferiamo sorvolare sui molti casi di “cedimento al nonsense” da parte di autori tutto sommato serissimi (anche se con qualche comprensibile debolezza) e scegliamo invece di restare nell’ambito di una nozione più ristretta del genere (che ha struttura e regole ben definite), appare oggi più che mai giustificata l’affermazione di Italo Calvino che, al principio degli anni Settanta, indicava in Toti Scialoja l’unico vero caso italiano di poeta nonsense:

[…] il primo vero esempio italiano di un divertimento poetico congeniale alla straordinaria tradizione inglese del ‘nonsense’ e del ‘limerick’[1].

Il giudizio di Calvino è corretto e senz’altro condivisibile, ma crediamo di poter accostare a quello di Scialoja almeno altri due nomi: quello di Fosco Maraini (fotografo, etnologo, orientalista, padre della scrittrice Dacia) e quello di Giulia Niccolai (scrittrice, poetessa, fondatrice con il compagno Adriano Spatola della rivista «Tam Tam»). Vicini anch’essi alla tradizione umoristica anglosassone e ugualmente impegnati sul fronte della sperimentazione linguistica, Maraini e la Niccolai condividono con Scialoja la passione per la manipolazione verbale, per il gioco dei significanti, per il nonsense. Allo stesso modo dell’artista-poeta romano, entrambi puntano sull’invenzione e/o alterazione del lessico, si lasciano sedurre dal suono delle parole, dal loro ritmo interno, e costruiscono i loro testi a partire da significanti caricati di nuove e impreviste «possibilità semantiche» (è il caso della Niccolai) o del tutto privi di significato ma tenuti insieme da salde relazioni grammaticali che ne rendono possibile la decifrazione (come nel caso delle poesie «metasemantiche» di Maraini).

Nella Prefazione a Greenwich (la raccolta di «nonsense geografici» edita da Geiger, Torino 1971), la Niccolai spiega come la struttura grammaticale delle sue poesie sia – sul piano morfologico e sintattico – quella della lingua d’uso, mentre l’elemento lessicale – «tratto esclusivamente da un atlante, filtrato attraverso vari gradi di manipolazione o stravolgimento» – sia sufficiente a far slittare il testo verso il territorio del nonsense.

Igea travagliato / trento, treviso e trieste / di disgrazie in disgrazia / fino Pomezia. / Como era trieste Venezia[2].

Sono versi che richiamano alla mente i “paesaggi senza peso” di Scialoja, costruiti anch’essi a partire da una suggestione sonora, ovvero dal particolare suono di un termine geografico sgusciato fuori chissà da dove, e dai significati inattesi che quella «musica concettuale» può sprigionare. Nei “paesaggi” scialojani il luogo indicato nei versi – il nome di una città, di un fiume, di un lago – non rinvia mai ad una località reale e ad immagini concrete ad essa legate; il nome è flatus vocis, occasione di gioco, materia fonica con cui gingillarsi attraverso allitterazioni, assonanze, spezzature, rime interne:

È mesto il mare a Mestre / quando la luce tras / colora e sull’impiastro / ha i lustri di uno strass. // A Mestre il cielo è triste / celeste fino al gres / se occorre far le viste / d’ignorare lo stress[3].

Questo procedimento compositivo che conduce dal significante al significato (suono – segno – senso) è tipico del genere nonsensical ed è riscontrabile nella prassi poetica della Niccolai, che essa stessa ha avuto modo di illustrare in un’intervista rilasciata a Irene Palladini:

Con Greenwich ho ricavato le parole da un atlante geografico, ma si trattava di parole che funzionavano, al contempo, come sostantivi, verbi, aggettivi, e che producevano un potente effetto sonoro il quale, da parte sua, sembra dire “molte cose”… Ognuno poi le capisce come vuole. La creazione di un linguaggio altro nasceva, credo, dalla paura di esprimere opinioni personali in poesia. Ed era un modo per aggirare il non-spazio del mondo. Un famoso Lama Tibetano definisce così l’umorismo: “Trovare spazio dove spazio non c’è”[4].

Nella poesia nonsensical la nota locuzione giustinianea nomina sunt consequentia rerum (Institutiones, libro II, 7, 3) risulta di fatto ribaltata: nella logica simmetrica che sorregge l’universo giocoso e surreale del nonsense, i nomi sono infatti segni evanescenti, contraddittori e polisemici e ogni cosa può rovesciarsi nel suo contrario in «una vertigine di inversioni / infinite e diverse». La poesia Positivo & negativo della Niccolai è quasi un manifesto di tale relativismo concettuale, essendo interamente costruita sull’assunto che non vi è corrispondenza diretta e univoca tra i nomi e le cose che indicano, quanto piuttosto la facoltà dei primi di suscitare il senso (mutevole, aperto) delle seconde (res sunt consequentia nominum?):

Ogni cosa può accadere / avere un senso o non averlo. / Non ha verità da proporre / mantiene aperto il significato / il senso nasce nominando le cose. / Un’impaginazione / una comunicazione di forme / l’ipotesi di una realtà in movimento: / una vertigine di inversioni / infinite e diverse. / E ciò che ad esse si oppone / può essere sempre rovesciato: / nel proprio contrario[5].

Se gli adulti fanno fatica ad entrare in questo “universo parallelo” fatto di contrari e di vertiginose inversioni semantiche, per i bambini, è cosa da nulla “attraversare lo specchio” (intendiamo quello dell’Alice carrolliana, alla quale spesso la Niccolai allude)[6], essendo naturalmente predisposti al gioco e ignorando la distinzione tra finzione e realtà, vita vera e vita del sogno. Nell’introduzione a Poema & oggetto (Geiger, 1974), non a caso Milli Graffi insiste sull’affinità tra poesia e infanzia, quale indispensabile chiave di lettura dell’opera della Niccolai[7]. Ed effettivamente l’infanzia è per la poetessa una stagione magica dell’esistenza durante la quale si formano immagini e suoni («malintesi, fraintendimenti linguistici») destinati a riemergere attraverso i ricordi e a funzionare come rimedio alla noia/alienazione della vita adulta:

L’infanzia è uno stato di grazia. I malintesi dell’infanzia, che riemergono con forza nella memoria, ti sanno regalare uno spiraglio che ti libera dalla pesantezza della vita. Forse i malintesi, i fraintendimenti linguistici dell’infanzia, (quello, ad esempio, che mi suggeriva immensi catini perché interpretavo “nunc et in ora” come “nunc catinora” ) rappresentano una sorta di salvezza dalla noia[8].

Anche su questo punto è inevitabile il confronto con Toti Scialoja, per il quale la dimensione dell’infanzia – intesa come «luogo di apparizioni infernali», ma anche di gioie improvvise e di percezioni intensissime – è condizione necessaria dell’invenzione poetica:

Io non conosco tutte le infanzie, conosco solo la mia infanzia. Quello che ricordo di allora è uno stato d’animo dentro il quale vivo ancora. L’infanzia è una cosa molto seria. Il mio ricordo è un periodo di solitudine assoluta, di sospetto, di ‘mito’ continuo. Il tempo andava all’infinito, lo spazio andava all’infinito e la morte non esisteva. Questa infinità, questa perpetuità mi sgomentava e affascinava allo stesso tempo. […] La mia infanzia di allora è immersa in una sensazione di unicità. La mia infanzia sono io[9].

E ancora:

Lo spazio-tempo che io chiamo infanzia lo percepisco come sapore intensissimo, colore intensissimo, delirante, una trafittura di gioia. In quella stilla di vita si riattinge all’eternità di tempo e spazio che è propria dell’infanzia[10].

Calarsi nello spazio-tempo dell’infanzia significa, dunque, vivere sensazioni con la massima intensità e attingere ad uno spazio autenticamente libero; sottrarsi al mondo dell’utile e del necessario, proprio degli adulti. Come scrive la Niccolai «per me la poesia è stata proprio questo, una ricerca continua di uno spazio libero, aperto, senza ostacoli. Uno spazio vero e anche divertente o comico»[11]. La medesima aspirazione è alla base anche della ricerca poetica di Fosco Maraini che, tuttavia, non resta, come Scialoja e la Niccolai, nel terreno della lingua d’uso (sia pure soggetta a continue alterazioni e manipolazioni) ma ne crea una nuova e personalissima fondata sull’introduzione, all’interno della sintassi tradizionale, di un lessico di pura invenzione. L’insieme degli elementi “metasemantici” – la forma e il suono delle parole, la loro posizione nel verso, il gioco delle rime, la presenza di nessi grammaticali – non svela il significato dei singoli lemmi che resta oscuro e indecifrabile, ma concorre a creare un vortice di allusioni fono-semantiche che attrae il lettore, ne scatena la fantasia e l’intuito. Irresistibile è Il lonfo, la più celebre delle «fànfole» marainiane[12], resa popolare anche presso il grande pubblico dalla magistrale interpretazione che ne ha dato in teatro l’attore Gigi Proietti:

Il lonfo

Il lonfo non vaterca né gluisce

e molto raramente barigatta,

ma quando soffia il bego a bisce bisce

sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta.

È frusco il lonfo! È pieno di lupigna

arrafferia malversa e sofolenta!

Se cionfi ti sbiduglia e t’arrupigna

se lugri ti botalla e ti criventa.

Eppure il vecchio lonfo ammargelluto

che bete e zugghia e fonca nei trombazzi

fa lègica busìa, fa gisbuto;

e quasi quasi, in segno di sberdazzi

gli affarfaresti un gniffo. Ma lui zuto

t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi[13].

Come ha scritto Daniele Baglioni – in uno studio sul rapporto tra lingue inventate e nonsense nel Novecento – «Maraini permette a chi legge di identificare il lonfo con un animale senza ricorrere mai al lessico» e ciò in virtù di una serie di «sostegni» (articoli, congiunzioni, preposizioni, avverbi) che consentono di recuperare il senso complessivo del testo, ovvero lo rendono intellegibile, anche «in assenza dell’informazione lessicale»[14]:

Quale che sia la conclusione, il lettore, pur ignorando in che consistano le azioni descritte dai verbi, ha ben chiara la dinamica degli eventi, essendosi appoggiato quasi esclusivamente ad informazioni grammaticali[15].

Tutti gli elementi morfosintattici delle poesie marainiane, in definitiva, non sono veri ma verosimili e sono identificabili in quanto ricalcano suoni e terminazioni delle parole dell’italiano standard; sono parole che vivono nella fantasia dell’autore che le ha create[16] ma hanno bisogno, per acquistare «significati, valori emotivi, profondità e bellezze» che anche il lettore faccia la sua parte, che entri nel “gioco” con il suo «patrimonio d’esperienze interiori»:

Per millenni il procedimento principe seguito nella formazione e nell’arricchimento del patrimonio linguistico è stato questo: dinanzi a cose, eventi, emozioni, pensieri nuovi, o ritenuti tali, trovare suoni che dessero loro foneticamente corpo e vita, che li rendessero moneta del discorso…Nella poesia, o meglio nel linguaggio metasemantico, avviene proprio il contrario. Proponi dei suoni e attendi che il tuo patrimonio d’esperienze interiori, magari il tuo subconscio, dia loro significati, valori emotivi, profondità e bellezze. […] Il lettore non diviene solo azionista del poetificio, ma entra subito a far parte del consiglio di gestione e deve lui, anche, provvedere alla produzione del brivido lirico. L’autore più che scrivere, propone. Se è riuscito nel suo intento, può dire di avere offerto un trampolino, nulla più[17].

L’uso dell’endecasillabo, la sequenza di rime alternate, la massiccia presenza di connettivi consentono al lettore di afferrare, sia pure a livello puramente intuitivo, il significato testuale (diversamente da quanto accadeva con l’indecifrabile pseudolingua landolfiana), a patto, però, che egli cooperi con l’autore accettando il gioco delle allusioni fono-semantiche, senza tentare di oltrepassare la soglia del nonsense. Occorre intendersi bene su questo punto per evitare facili fraintendimenti: quando l’autore di nonsense verses sollecita la cooperazione del lettore non gli chiede di attribuire a tutti i costi un significato a quello che legge, ma semplicemente lo invita ad accettare il gioco così com’è, ad abbandonarsi al puro suono dei significanti, in quanto – come avverte Maraini – nel registro nonsensico le parole non puntano ad un significato univoco, come accade nella lingua d’uso, «non infilano le cose come frecce», ma…

…le sfiorano come piume, o colpi di brezza, o raggi di sole, dando luogo a molteplici diffrazioni, a richiami armonici, a cromatismi polivalenti, a fenomeni di fecondazione secondaria, a improvvise moltiplicazioni catalitiche nei duomi del pensiero, dei moti più segreti[18].

La parola «come musica e come scintilla» – di cui parla Maraini nell’introduzione alle Fànfole – non è dunque dissimile dalla «parola-melagrana» di Scialoja che «contiene e fa germinare i semi sillabici e anagrammatici di tutte le altre»[19]; in entrambi i casi si tratta di parole-suono, “fantocci sonori”, che accendono l’epifania lirica:

La parola indica. E però, esaltata come suono in poesia, indica qualcosa che non sempre coincide con il dato iniziale. In un verso una parola che indica orrore può suonare incantevole. Non mi riferisco alla lacaniana rete dei significanti, bensì alla complicazione sillabica, per cui il suono non coincide con la parola, come una mano con il guanto, ma contiene una quiddità di senso che appartiene alla sillabazione stessa, che si sparpaglia nelle sillabe, si mimetizza nelle sillabe[20].

Il fatto che il gioco verbale di Maraini si fondi su un lessico inventato, mentre quello di Scialoja e della Niccolai si serva di parole della lingua d’uso (ma spezzate, manipolate, combinate con altre), non impedisce di riscontrare altri punti di contatto tra le rispettive pratiche nonsensiche[21]. Non vi è dubbio che per tutti e tre gli autori la parola poetica sia «parola detta» non parola scritta, da pronunciarsi a voce alta e con il coinvolgimento di tutto il corpo, per assaporarne le infinite sfumature sonore e cromatiche, per gustarne i sapori e gli umori:

[Maraini] con le sue “fanfole” ha un approccio visionario alla parola, egli parla “di valori cromatici e tattili, dei sapori e degli umori, della pelle e dei baci, dell’ombra e del profumo delle parole”, vede “parole tonde e gialle, lunghe e calde, voluttuose e lisce, oppure polverose e bigie, sfilacciate e verdi, parole a pallini e salate, parole massicce, fredde, nerastre, indigeste, angosciose”. E per meglio cogliere ogni più piccola sfumatura, l’autore fornisce un vero e proprio libretto di istruzioni, dal quale si coglie che “la poesia metasemantica va piuttosto recitata o letta ad alta voce, che scorsa con gli occhi in silenzio come si fa normalmente con i versi tradizionali. È legata al suono, al corpo, alla fisiologia, alle passioni della parola. Per questo, anche, va letta con una certa lentezza”[22].

Leggiamo, allora, ad alta voce e lentamente, come consigliava il poeta, altri due celeberrimi componimenti “metasemantici”:

Il giorno ad urlapicchio

Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dagro e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo infrangelluto,
ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzìllano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;
è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio
in cui m’hai detto “t’amo per davvero”[23].

E gnacche alla formica

Io t’amo o pia cicala e un trillargento
ci spàffera nel cuor la tua canzona.
Canta cicala frìnfera nel vento:
E gnacche alla formica ammucchiarona!

Che vuole la formica con quell’umbe
da mòghera burbiosa? E’vero, arzìa
per tutto il giorno, e tràmiga e cucumbe
col capo chino in mogna micrargìa.

Verra’ l’inverno si, verra’ il mordese
verranno tante gosce aggramerine,
ma intanto il sole schìcchera gigliese
e sgnèllida tra cròndale velvine.

Canta cicala, càntera il manfrore,
il mezzogiorno zàmpiga e leona.
Canta cicala in zìlleri d’amore:
E gnacche alla formica ammucchiarona[24]!

Questi testi, è evidente, vanno recitati più che letti: la pronuncia esatta e la giusta intonazione (cadenzata dal ritmo del verso endecasillabo e delle rime alternate), sono elementi essenziali per la costruzione del significato testuale che resterebbe oscuro o, quantomeno, avviluppato nell’intrico delle parole inventate, se la lettura fosse fatta a mezza voce o appena sussurrata. Era questa la raccomandazione di Maraini ai suoi lettori, ma anche la preoccupazione costante di Scialoja, per il quale la poesia, come il canto, esiste solo nell’atto della dizione:

Io credo che la poesia nasca per esser detta. Se non arriva ad essere pronunciata dalla voce resta in un campo di scrittura, come la musica che ha una sua fase di realtà nel pentagramma […], ma esiste soltanto quando tu la percepisci con l’orecchio[25].

Le poesie di Scialoja, in verità, non avrebbero bisogno di sostegni “metasemantici” o di una lettura necessariamente a voce alta per essere comprese e gradite dal lettore, in quanto, come è stato detto più volte, il lessico è quello del vocabolario comune e il gioco fono-sillabico delle allitterazioni, assonanze e spezzature non intacca la morfologia e la sintassi (che non fuoriescono mai dai binari dell’ortodossia linguistica). Leggiamo qualche esempio, tratto da La stanza la stizza l’astuzia (1973-1976), la raccolta scialojana di nonsenses “per adulti” con poesie decisamente più “acide” (e anche audaci) rispetto alle prime degli anni Sessanta:

Ogni topo di chiavica / appena nato naviga (VSP, p. 98)

Quattro grasse troie turche / in un trogolo a Istanbul / grufolando mele annurche / poi mi dettero del tru. (Ivi, p. 97)

Con il verme di Viterbo / venerdì venni a diverbio: / lui si fece tetro tetro / poi, scolato il mezzo litro, / mi fissò con occhio vitreo. (Ivi, p. 99)

Questa cicala rauca / in cima all’araucaria / ha tra le foglie un’aula / dove predica gloria. (Ivi, p. 103)

In mezzo alla vasca / – finita la festa – / ci resta una vespa / svestita, che annaspa. (Ivi, p. 110)

Come i limericks leariani, anche i nonsense verses scialojani sono “favole astratte” – a volte esilaranti, altre volte ciniche o sconce – fondate sul ritmo del verso e sulla sonorità «concettuale» delle singole parole; sono racconti minimali costruiti mediante il ricorso ad una logica visionaria e allucinatoria che il lettore deve condividere con l’autore senza l’ambizione di rintracciare a tutti i costi in essi il «senso perso».

 

[1] Italo Calvino, quarta di copertina, in Toti Scialoja, Una vespa! Che spavento Einaudi, Torino 1975.

[2] Si cita da Antonio Porta (a cura di), Poesia degli anni Settanta, prefazione di Enzo Siciliano, Feltrinelli, Milano 1979, p. 202.

[3] Toti Scialoja, Versi del senso perso, Prefazione di Paolo Mauri, Postafazione di Orietta Bonifazi, Einaudi, Torino 2009, p. 225. Riproduce la raccolta omonima edita da Mondadori nel 1989.

[4] Giulia Niccolai, Della verità ultima delle cose, intervista a c. di I. Palladini, «Griseldaonline», IX (2009-2010).

[5] Cfr. Giulia Niccolai, La misura del respiro. Poesie scelte, Anterem, Verona 2002, p. 61.

[6] Lewis Carroll è un punto di riferimento costante della Niccolai, autrice, tra le altre cose, di una sorta di libro-omaggio al poeta inglese dall’eloquente titolo Humpty Dumpty (Geiger, Torino 1969), nel quale sono presenti «libere interpretazioni, anche sotto forma di poesie visuali, dei nonsenses e dei calembours linguistici usati a iosa da Lewis Carroll nel suo Alice in wonderland».

(http://www.archiviomauriziospatola.com/prod/pdf_geiger/G00047.pdf).

[7] Cfr. Milli Graffi, Introduzione a Giulia Niccolai, Poema & Oggetto, Geiger, Torino 1974, pp. 4-8.

[8] Niccolai, Della verità ultima delle cose, cit.

[9] Cfr. Andrea Rauch, La mia infanzia sono io…, in Toti Scialoja, pittura e poesia. Opere su carta, catalogo della mostra, Accademia Nazionale di San Luca, Roma, 26 novembre 2004-8 gennaio 2005, De Luca Editori d’Arte, Roma 2004, p. 80.

[10] Scialoja, Come nascono le mie poesie, in Opere 1983-1997, Mostra alla Galleria dello Scudo, Verona, 9 dicembre 2006 – 28 febbraio 2007, catalogo a cura di R. Lauter e M. Vallora, Skira, Milano 2006, p. 24.

[11] Niccolai, Della verità ultima delle cose, cit.

[12] «Le Fànfole furono pubblicate la prima volta a Bari nel 1966 in sole 300 copie, destinate, come si legge nella quarta di copertina, “agli amici dell’autore, dell’editore, dello stampatore”. Anche se alcuni componimenti acquistarono subito una certa popolarità, […] una seconda stampa della raccolta, questa volta per il commercio, si ebbe ventotto anni dopo, per i tipi della Baldini Castoldi Dalai» (Baglioni, Poesia semantica o perisemantica? La lingua delle Fànfole di Fosco Maraini, in A.a., V.v., Studi linguistici per Luca Serianni, a cura di Valeria Della Valle e Pietro Trifone, Salerno Editrice, Roma 2007, p. 469).

[13] Fosco Maraini, Gnòsi delle Fànfole, Prefazione di Maro Marcellini, Baldini & Castoldi Dalai Editore, Milano 20072, con CD audio (musiche di Massimo Altomare e Stefano Bollani), p. 25.

[14] Baglioni, Lingue inventate e ‘nonsense’ nella letteratura italiana del Novecento, in Aa.Vv., «Nominativi fritti e mappamondi». Il ‘nonsense’ nella letteratura italiana, Atti del convegno di Cassino, 9-10 ottobre 2007, a cura di G. Antonelli e C. Chiummo, Salerno Editrice, Roma 2009, p. 274. I termini oscuri presenti nelle Fànfole si comportano – scrive Baglioni – «come incognite matematiche», la cui comprensione è possibile solo se ci si affida agli elementi riconoscibili contigui; da qui la definizione di «poesia peri-semantica», più che metasemantica, attribuita alla poesia di Maraini. (Cfr. Baglioni, Poesia semantica o perisemantica?…, cit., pp. 475-478).

[15] Cfr. Baglioni, Poesia semantica o perisemantica?…, cit., p. 475.

[16] Nella quarta di copertina de La gnòsi delle Fànfole, leggiamo che «Quasi ogni parola è frutto di un lungo studio. Certe parole proprio non mi venivano per mesi, sapevo quello che cercavo, ma il sassolino giusto la marea non me lo gettava mai sulla spiaggia. Poi un certo giorno, magari facendomi la barba, cambiando una gomma della macchina, studiando gli ideogrammi cinesi o seduto nella neve al sole, eccoti il sassolino cercato».

[17] Cfr. Maraini, Introduzione a Gnòsi delle fanfole, cit., pp. 15-17.

[18] Ivi, p. 16.

[19] Toti Scialoja, quarta di copertina di La stanza la stizza l’astuzia, Cooperativa scrittori, Roma 1976; cfr. Versi del senso perso, Prefazione di Paolo Mauri, Postafazione di Orietta Bonifazi, Einaudi, Torino 2009. Riproduce la raccolta omonima edita da Mondadori nel 1989, p. 279.

[20] Scialoja, Come nascono le mie poesie, in Opere 1983-1997…, cit., p. 224.

[21] Non è un caso che Stefano Bartezzaghi citi proprio la “terna” Scialoja, Maraini, Niccolai per esemplificare il suo discorso sulla «vertigine del nonsenso»: «In letteratura il nonsenso ha una tradizione venerabile e per rendersene conto non c’è bisogno di andare alla tradizione britannica (e irlandese) dei limerick e di Lewis Carroll, ma anche di Samuel Beckett e di Thomas S. Eliot. Anche in Italia abbiamo i nostri nominativi fritti e mappamondi e, per limitarci alla seconda metà del Novecento, il lonfo (che non vatercagluisce, e molto raramente barigatta) di Fosco Maraini o i levrieri di Toti Scialoja («Ieri vidi tre levrieri / neri neri; / oggi ho visto tre levroggi / mogi mogi / che domani sloggeranno / levri levri»). Per non dire di tutto sul nonsenso della neoavanguardia, con il culmine delle poesie toponomastiche di Giulia Niccolai («Igea travagliato […] di disgrazia in disgrazia / fino Pomezia. / Como era trieste, Venezia). Ma si sa che gli scrittori possono concedersele tutte, o quasi». Cfr. Stefano Bartezzaghi, Arepo e i suoi fratelli. Una breve testimonianza sul senso in gioco. 

(http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/nonsensi/1.html).

[22] Giuseppe Ciarallo, Anarchia metasemantica. La poesia caleidoscopica di Fosco Maraini in ‘Gnòsi delle fànfole’, «Paginauno», II, 9, ottobre-novembre 2008.

(http://www.rivistapaginauno.it/numero9.php).

[23] Cfr. Maraini, Gnòsi delle Fànfole, cit., p. 41.

[24] Cfr. Ivi, p. 61.

[25] Cfr. Scialoja, Come nascono le mie poesie, in Opere 1983-1997…, cit., pp. 223-224.

 

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4 pensieri riguardo “LA POESIA DEL “NONSENSE” IN ITALIA? La “terna” Scialoja, Niccolai, Maraini (parte terza)

  1. Non ho mai letto (e ascoltato) Gnosi delle fànfole, che naturalmente ora sto cercando: come sarebbe a dire “esaurito”! E’ recente! Confesso che non amo il prestito bibliotecario (benemerito), appartenendo alla specie che malmena i libri (note a margine, orecchiette…) che, pur non devastando, non amo, come oggetti, nella versione pulitissima, nuova e non mia.
    Grazie mille per questa (e per le altre) “lezioni”.

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