Non si può negare che Scialoja, Maraini, Porta, Niccolai siano a tutt’oggi considerati autori “di nicchia” e che i loro nonsense verses, letti da pochi (anche se qualificati) estimatori del genere, abbiano scarsa diffusione e solo in rari casi siano inclusi nelle antologie poetiche in circolazione. Ma lasciando da parte il discorso sulle inclinazioni e sui gusti letterari del pubblico italiano (che, pronto a ridere di gusto per un doppio senso[1], resta attonito e “freddino” dinanzi a un nonsenso[2]), ritorniamo piuttosto al tentativo di individuare e di circoscrivere il «filone carsico» della letteratura nonsensical in Italia.
Oltre al Burchiello, indicato come iniziatore della poesia del nonsense, nomi importanti e sicuramente rappresentativi della nostra tradizione letteraria possono essere ascritti al genere: da Folengo a Berni, dai poeti barocchi Giulio Cesare Croce e Anton Francesco Doni a Giambattista Basile, solo per citare i maggiori e, «dopo una pausa settecentesca», «ecco dispiegarsi un variegato e a tratti pirotecnico spazio tra fine Ottocento e, ancor più, primo e secondo Novecento»[3]. È dunque al principio del secolo scorso, almeno dalla rivoluzione avanguardista in poi, che quel filone semi-clandestino pare venire alla luce ed entrare di diritto nel canone della letteratura ufficiale. Come ha scritto Adele Cammarata:
…la letteratura italiana post-quattrocentesca, fino al secolo scorso e (in parte) alla prima metà del Novecento aveva relegato i giochi di parole nelle stanze dei bambini o nelle memorie del popolo, facendone un materiale tipicamente popolare e in quanto tale snobbato dalla cultura ufficiale. L’interesse per il gioco linguistico in Italia avviene solo all’inizio di questo secolo, con Pascoli e soprattutto con Palazzeschi; una parte rilevante hanno avuto i futuristi […]. Ma è dal secondo dopoguerra in poi che gli scrittori ‘alti’ scoprono il nonsense…[4]
Alessandro Caboni ha voluto inserire a pieno titolo nella tradizione nonsensical italiana «le filastrocche della poesia pseudo-simbolistica» di Aldo Palazzeschi, il «nonsense cripto-satirico» di Petrolini», quello «comico-surreale» di Achille Campanile, nonché «i sofisticati e oscuri paradossi» di Tommaso Landolfi, mentre i nomi di Nico Orengo, Antonio Porta e Toti Scialoja sono posti a chiusura della “genealogia” proposta dallo studioso quali «tentativi contemporanei di poesia nonsensical, riportata all’originaria destinazione infantile»[5]. «Nelle esperienze neoavanguardistiche degli anni Sessanta e nella loro successiva presa di coscienza», potrebbe essere infine indicato – secondo Giuseppe Antonelli – il culmine della tradizione nonsensical italiana:
I titoli scelti da Edoardo Sanguineti per due sue raccolte – Bisbidis (1987) e la riassuntiva Il detto del gatto lupesco (2002)[6] – sembrano voler chiudere il cerchio di questa linea, riallacciandosi a produzioni medievali in cui Zaccarello[7] riconosce «a nonsense effect»[8].
Sorvoliamo, in questa sede, sul genere del grammelot[9] – affidato per lo più all’oralità e legato all’uso di altri codici espressivi quali la gestualità e la mimica[10] – e tralasciamo anche il gergo, linguaggio «pseuodfurbesco»[11], che agisce come una sorta di “parassita”, inserendosi nella lingua-ospite e modificandone la struttura morfo-sintattica e fonologica, piegandola ai propri fini (“criptare” l’oggetto della comunicazione a coloro che non fanno parte del gruppo gergante).[12] Può essere interessante, invece, soffermarsi sulle lingue inventate e sulle pseudolingue utilizzate da alcuni scrittori italiani del Novecento per creare quelli che Zaccarello chiama “nonsense effects”. Daniele Baglioni ha riscontrato, ad esempio la «presenza diffusa di inserti di pseudolingue» in alcuni racconti fantastici di Tommaso Landolfi, il quale «nel suo primo racconto, il Dialogo dei massimi sistemi, contenuto nell’omonima raccolta del 1937, […] dà la prova più ingegnosa di uso di una pseudolingua per creare effetti di nonsenso»[13]. La poesia Aga magéra difúra – inclusa nel Dialogo e scritta in una misteriosa lingua mediorientale (una sorta di pseudopersiano) – è divenuta, nel corso degli anni, un testo di culto per gli estimatori del genere nonsensical:
Aga magéra difúra natun gua mesciún
Sánit guggérnis soe-wáli trussán garigúr
Gúnga bandúra kuttávol jerís-ni gillára.
Lávi girréscen suttérer lunabinitúr
Guesc ittanóben katír ma ernáuba gudún
Vára jesckílla sittáranar gund misagúr,
Táher chibíll garanóbeven líxta mahára
Gaj musasciôr guen divrés káes jenabinitúr
Sòe guadrapútmijen lòeb sierrakár masasciúsc
Sámm-jab dovár-jab miguélcia gassúta mihúsc
Sciú munnu lússut junáscru gurúlka varúsc[14].
Questo componimento è un’ardua sfida lanciata al lettore: non si tratta di un esempio di grammelot (che è un linguaggio totalmente inarticolato), poiché «se si osservano le terminazioni delle parole, s’individuano alcuni elementi ricorrenti, come – ùr, ùra, ùn, –en, –àra e ùsc – nei quali è facile individuare dei morfemi»[15]; tuttavia quando il lettore sembra essere sul punto di afferrare il significato, in virtù di labili nessi grammaticali e di corrispondenze interne, il suo tentativo puntualmente è frustrato, come se l’autore si divertisse a giocare con lui «premiandolo e deludendolo di volta in volta»[16]. Il senso del testo landolfiano è insomma assolutamente criptato, ma resta, tuttavia, al lettore, a parziale consolazione, l’eco musicale delle parole, la raffinatezza di suoni mai uditi prima, la perfezione della gabbia metrica…e dunque la sensazione di aver letto qualcosa di indecifrabile, ma indiscutibilmente bello[17].
A questo punto è legittimo chiedersi se Landolfi – con il suo linguaggio raffinatissimo e visionario, sempre spinto sui binari del paradosso e dell’ironia – possa essere considerato uno scrittore nonsensical oppure no. E la stessa domanda, forse, dobbiamo porcela per altri “irregolari” del nostro Novecento (che hanno giocato con il codice-lingua, sfruttandone la polisemicità e le risorse fonico-ritmiche), per i quali è possibile parlare tutt’al più di una “modalità” nonsensical, affiorante a tratti e solo in alcune opere; autori che hanno inventato lingue nuove, che hanno deformato la lingua d’uso o l’hanno contaminata con inserti dialettali e gergali, ottenendo effetti di straniamento e di comicità surreale: pensiamo naturalmente, oltre a Landolfi, a Buzzati, Campanile, Palazzeschi (e magari Gadda), le cui opere, pur contenendo elementi di «approssimazione al nonsense»[18], non possono essere considerate prove nonsensiche tout court quali sono, a tutti gli effetti, le “poesie con animali” di Scialoja, le “fànfole” di Fosco Maraini, i “nonsense geografici” di Giulia Niccolai. C’è poi chi, come Andrea Afribo, si è spinto oltre in questo tipo di indagine sul moderno nonsense italiano e ha cercato «le possibili derive o contatti, coincidenze o intersezioni della mentalità e della prassi del nonsense nel codice della poesia “sensata” del Novecento». Lo studioso avrebbe dunque individuato tracce di questa “pratica” in poeti e scrittori al di sopra di ogni sospetto:
[…] dunque non autori nonsensical istituzionalizzati o ghettizzati in generi (burchielleschi o berneschi, scialojani, limerick, “poesia per gioco”), ma ad esempio figure più o meno insospettabili come Montale, Caproni, Nelo Risi, Zanzotto, la Neoavanguardia, ecc[19].
In verità, nutriamo forti dubbi sulla reale utilità di allargare a dismisura la nozione di nonsense per far rientrare in essa tutti quegli autori che nel corso del Novecento, almeno dagli anni Sessanta in poi, hanno compiuto esperimenti linguistici e/o metrici come attività ludica e comunque marginale rispetto alla produzione ufficiale, cosiddetta “seria” (ed aggiungerei ai poeti sopra citati, anche il nome di Alberto Arbasino, notoriamente appassionato di calembour e scioglilingua). D’altro canto lo stesso Afribo si è detto consapevole del rischio di vedere «effetti di nonsense dappertutto», da cui la necessità di circoscrivere il terreno d’indagine, definendo con rigore i limiti e i criteri della sua ricerca:
Pretendevo cioè da loro [Montale, Caproni, Risi, Zanzotto, novissimi] che, punto primo, a monte del loro scarto dal senso codificato non agisse l’idea consueta dell’oscurità e della difficoltà, cioè di quanto è la norma della grande lirica tragica moderna, ma che agisse invece la strategia consueta del nonsense, ovvero il divertissement, lo humour, con i relativi effetti apotropaici e antiautoritari, anarchici. Punto secondo: da questi poeti non nonsense pretendevo che qualche volta citassero nella loro poesia o in altre sedi, autori, episodi ecc. legati all’istituzione nonsensical; e infine, punto terzo, che almeno una volta nella vita, esibissero exploits nonsensical con tutti i crismi[20].
Il termine post quem dell’indagine di Afribo sono gli anni Sessanta, che, come è già stato detto altrove, costituiscono una tappa fondamentale nell’evoluzione del linguaggio poetico contemporaneo, un vero e proprio “punto di non ritorno”. Lo studioso cita, quindi, a mo’ di esempio, delle suggestive «pillole montaliane»:
Si pensi ad esempio a queste pillole montaliane: «il distorto era il dritto» (p. 466), oppure «stasi o moto /in nulla differiscono» (p. 471), o al fatto che da Satura in poi, le non poche occorrenze della parola senso risultano sempre situate in contesti negativi e dubitativi: «se un prima e un dopo hanno ancora un senso» (p. 509), «non può nemmeno avere un senso» (p. 567), «se ha senso dire punto dove non è spazio (p. 712) e così via; e che in un luogo senso e nonsenso letteralmente si incontrano: «bisogna fingere / che movimento e stasi / abbiano il senso / del nonsenso / per comprendere che il punto fermo è un tutto nientificato» (p. 359)[21].
Le succitate «pillole» indubbiamente testimoniano lo spaesamento di un poeta serio e sensato trascinato dal proprio nichilismo verso derive nonsensiche. Ma pur ammettendo la vocazione del poeta ligure (come di Zanzotto, Caproni o Risi) alla parodia, «al ghiribizzo concettuale ai fini di una conclusione straniante e paradossale», e pur accertando (come richiede Afribo) la frequentazione da parte di questi poeti dei testi di Lear o di Carroll, crediamo non sia lecito (né utile) spingersi oltre in questa “caccia al nonsense”, mentre riteniamo più appropriata (e, in un certo senso, conclusiva) un’altra considerazione dello studioso per il quale «a una certa altezza del Novecento, cedere alla tentazione del nonsense è, per Montale e per altri grandi poeti, un vizio da coltivare in segreto, da tenere nel cassetto o al guinzaglio di una corrispondenza tutta privata»[22].
[1] Stefano Bartezzaghi – nell’Introduzione al volume di Pier Paolo Rinaldi, Il piccolo libro del nonsense, Vallardi, Milano 1997 – ha sottolineato come in Italia «le forme della letteratura del doppio senso […] abbiano storicamente prevalso sulle forme di letteratura del nonsense»: «Il doppio senso, però, è soprattutto quello disonesto, delle barzellette e delle battute a sfondo osceno […]. C’è una forma di indovinello in cui il testo sembra osceno e in realtà è del tutto innocente […]. Normalmente invece il doppio senso funziona dall’innocente all’osceno. Se non cogliete il senso osceno (perché la malizia vi fa difetto), vi resta in mano un testo magari un po’ buffo, certo quasi del tutto insensato» (pp. 25-27).
[2] Costituisce un’eccezione il caso dell’autore-attore-scrittore bolognese Alessandro Bergonzoni il cui teatro comico-surreale, basato essenzialmente sulla manipolazione del linguaggio comune (con molti effetti di nonsense), ha riscosso sin dagli anni Ottanta ampi consensi di critica e di pubblico (Scemeggiata è del 1982). Va pur detto che i giochi linguistici di Bergonzoni non sono mai gratuiti e nascono sempre da un’«urgenza», dalla necessità di non astenersi dal dire. Urge è appunto il titolo del suo ultimo spettacolo (2010): «Stai colmo! Questo mi sono detto nel fare voto di vastità, scavando il fosse, usando il confine tra sogno e bisogno (l’incubo è confonderli). Come un intimatore di alt, come un battitore di ciglia che mette all’asta gli apostrofi delle palpebre, come l’inventore del cuscino anticalvizie o del transatlantico anti aggressione, come chi è posseduto da sciamanesimo estatico, a suon di decibellezze da scorticanto, come giaguaro che diventa uno degli animali più lenti se in ascensore e come lumaca che diventa uno dei più veloci se in aereo, così tra tellurico e onirico, tra lo scoppio delle alte cariche dello stato (delle cose), tra me e me, in uno spazio da antipodi, in un limbo dell’imparadiso (infermo di mente più che fermo di mente), ho avuto un sentore: urge.» (Cfr. http://alessandrobergonzoni.it/eventi/p/urge.htm).
[3] Giuseppe Antonelli e Carla Chiummo, Premessa, in Aa.Vv., «Nominativi fritti e mappamondi». Il ‘nonsense’ nella letteratura italiana, Atti del convegno di Cassino, 9-10 ottobre 2007, a cura di G. Antonelli e C. Chiummo, Salerno Editrice, Roma 2009, p. 7.
[4] Adele Cammarata, “La Gran natica dell’Aringa”. I giochi di parole in Alice’s Adventures in Wonderland. Traduzioni italiane a confronto, @dic edizioni & Lulu.com, 2007, p. 8.(http://www.lulu.com/items/volume_42/614000/614827/2/print/614827.pdf)
[5] Cfr. Alessandro Caboni, Nonsense: Edward Lear e la tradizione del nonsense inglese, Bulzoni, Roma 1988, p. 15.
[6] Precisiamo che il titolo esatto della raccolta sanguinetiana è Il gatto lupesco: poesie 1982-2001 (Feltrinelli, Milano 2002).
[7] Antonelli qui si riferisce a: Michelangelo Zaccarello, Off the Paths of Common Sense: From the “frottola” to the “per motti” and “alla burchia” Poetic Styles, in Nonsense and Other Senses. Regulated Absurdity in Literature, a cura di E. Tarantino con la collaborazione di C. Caruso, Cambridge University Press, Cambridge 2009, pp. 89-116.
[8] Antonelli, Il nonsoché del nonsenso, in Aa.Vv., «Nominativi fritti e mappamondi»…, cit., p. 14.
[9] Sulle caratteristiche del grammelot cfr. Alessandra Pozzo, Grr…grammelot. Parlare senza parole, Clueb, Bologna 1998 e Daniele Baglioni, Lingue inventate e ‘nonsense’ nella letteratura italiana del Novecento, in Aa.Vv., «Nominativi fritti e mappamondi»…, cit., pp. 269-267 (in part. pp. 276-280).
[10] Esempi di grammelot nella lingua scritta sono rintracciabili in Campanile e Buzzati, cfr. Achille Campanile, Agosto, moglie mia non ti conosco, in Romanzi e racconti 1924-1933, vol. I, a cura di Oreste Del Buono, Bompiani, Milano 1989, pp. 689-891 (in part. le pp. 888-890) e Dino Buzzati, Il critico d’arte, in Sessanta racconti, Mondadori, Milano 1995, pp. 511-516 (in part. le pp. 515-516).
[11] La definizione è di Daniele Baglioni che ha rintracciato alcune caratteristiche del linguaggio gergale nella pseudo-lingua di Fosco Maraini. Cfr. Daniele Baglioni, Poesia semantica o perisemantica? La lingua delle Fànfole di Fosco Maraini, in A.a., V.v., Studi linguistici per Luca Serianni, a cura di V. Della Valle e P. Trifone, Salerno Editrice, Roma 2007, p. 477.
[12] Il gergo, come ha scritto Carla Marcato, è stato ampiamente utilizzato in letteratura «in quanto fonte di arricchimento del vocabolario; ad esso si attinge secondo scelte stilistiche motivate da intenti ora prevalentemente comici ora realistici, in una tradizione in cui plurilinguismo, invenzione e sperimentazione linguistica conoscono un periodo di intensa ricerca» (Carla Marcato, Il gergo, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni e P. Trifone, Einaudi, Torino 1993, vol. II, p. 780).
[13] Baglioni, Lingue inventate e ‘nonsense’ nella letteratura italiana del Novecento, in Aa.Vv., «Nominativi fritti e mappamondi»…, cit., p. 283.
[14] Cfr. ivi, p. 284.
[15] Ibidem.
[16] Ivi, p. 285.
[17] «Di certo, anche se la grammatica gli sfugge, non può non riconoscere la raffinatezza della lingua del componimento, evidente nel rigido rispetto del metro, nelle rime, negli omoteleuti e nel fonosimbolismo dell’ultimo verso […].» (Ibidem).
[18] Cfr. Andrea Afribo, Approssimazioni al ‘nonsense’ nella poesia italiana del Novecento, in Aa.Vv., «Nominativi fritti e mappamondi»…, cit., pp. 289-305.
[19] Ivi, p. 289.
[20] Ivi, p. 290.
[21] Afribo, Approssimazioni al ‘nonsense’…, in Aa.Vv., «Nominativi fritti e mappamondi»…, cit., p. 290. In nota Afribo avverte che «i numeri tra parentesi si riferiscono alle pagine di E. Montale, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1984».
[22] Andrea Afribo, Tracce di nonsense nella poesia del Novecento, http://www.treccani.it (http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/nonsensi/3.html).
La aspettavao questa seconda puntata. Lo trovo un compendio completo, meraviglioso, ottimamente documentato, utilissimo. Grazie.
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Ci sarà anche una terza puntata…grazie mille per le tue parole!
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