Il campo delle “divine impurità” (l’espressione è di Leonardo Sinisgalli) mi ha sempre affascinato e ritengo che valga la pena indagare le opere di alcuni protagonisti della cultura dell’Otto/Novecento, per far emergere le interferenze, i cortocircuiti, i “prestiti” da un ambito all’altro del sapere (letterario, scientifico, artistico, tecnico) e vedere a quali risultati può giungere la creatività di pittori, musicisti, architetti, poeti, narratori qualora vengano “fatti saltare” gli argini che separano rigidamente le singole discipline, umanistiche e scientifiche, e si lasci libero campo ad ogni possibile (e proficuo) “sconfinamento”…
Tra gli autori della modernità letteraria è praticamente impossibile trovare uno scrittore, un poeta che sia rimasto del tutto impermeabile agli stimoli provenienti dai diversi settori della cultura scientifica, figurativa, musicale. Possiamo anzi dire che esiste, oggi, una volontà comune ad artisti, musicisti, scienziati e scrittori di dialogare senza più la diffidenza e le riserve di un tempo: un desiderio di scambiarsi codici, metodi, linguaggi e metafore nel tentativo di “accorciare le distanze” tra mondi ritenuti tradizionalmente irrelati e, soprattutto, con l’obiettivo di comprendere, in virtù di una «strumentazione» teorica più ricca e variegata, una realtà che si fa ogni giorno più complessa e ambigua, sfuggente e contraddittoria. Anche per questa ragione (di natura epistemologica) quasi tutti gli autori della modernità e della post-modernità letteraria hanno operato (e operano) in zone di confine, ai margini della letteratura intesa stricto sensu: hanno prediletto la contaminazione – che è tensione sperimentale, pluralità di esperienze, proliferazione di stimoli – e non hanno temuto, anzi hanno perseguito, nella loro pratica di scrittura la molteplicità, l’hazard, la «fertile impurezza».
Pensiamo, ad esempio, a Dostoevskij: degli studi scientifici e dell’esperienza (durata solo un anno) compiuta in qualità di ingegnere delle fortificazioni, restò allo scrittore una profonda passione per l’arte, specialmente per il disegno, e per l’architettura. Sappiamo che rimase vivamente colpito dall’«utopia abitativa» di Fourier e dalle fantastiche strutture immaginate dai socialisti utopisti. Ecco perché i suoi manoscritti sono corredati da un ricco repertorio di immagini – fisionomie, geometrie, strutture architettoniche che mimano i contenuti – mentre nei romanzi il “visivo” è totalmente calato nella parola. Su quanto abbia influito invece la formazione tecnico-ingegneristica (e filosofica) dello scrittore lombardo Carlo Emilio Gadda sulla sua concezione della realtà e sul modo di interpretarla, ovvero di “mimarne” il movimento caotico e “aggrovigliato” pel tramite di una scrittura violentemente espressionistica, è inutile insistere: è stato detto e scritto tanto. Tuttavia potrebbe risultare affatto interessante mettere in relazione gli svolgimenti e gli esiti della scrittura gaddiana con quelli di altri due ingegneri, protagonisti di spicco della letteratura europea del Novecento: l’ingegnere meccanico Robert Musil e l’ingegnere industriale Leonardo Sinisgalli. Musil e Gadda, pur con le riconosciute differenze di ideologia e di scrittura, senz’altro hanno condiviso la passione filosofica (Musil compì anche studi di psicologia) e la conseguente riflessione sulla crisi definitiva del nesso di causalità; hanno risentito entrambi della fine della visione meccanicistica del mondo moderno nel quale al nesso causa/effetto si è sostituita la ben poco rassicurante dialettica ordine/disordine. La «fuga nell’arte» compiuta dai due scrittori e la scelta formale del romanzo-saggio (elaborata da gran parte dei «centauri»[1] del Novecento letterario europeo), vanno allora letti come tentativi di sottrarsi alla crisi o di reagire ad essa attraverso gli strumenti dell’analisi o della «mimesi» interpretativa della realtà. Insomma, L’uomo senza qualità di Musil, La cognizione e il Pasticciaccio di Gadda risponderebbero alla medesima esigenza di coniugare “verità” e “soggettività”, esattezza (della scienza) e contraddizione (del reale), di far coesistere Logos e Caos nell’unico ambito dove fare ciò è possibile: la letteratura. Assai diverso è il percorso ideologico e letterario compiuto dall’ingengnere-poeta lucano Leonardo Sinisgalli. Quest’ultimo, appassionato cultore della matematica algebrica, riuscì a coniugare esprit de géométrie ed esprit de finesse, spirito razionale e fascinazione estetica, tanto nelle sue opere letterarie e saggistiche quanto nelle sue straordinarie riviste aziendali: «Pirelli» (1948-1952), «Civiltà delle macchine» (1953-1958), «La botte e il violino» (1964-1966). Fautore di una letteratura impura, aperta alle più ardite e spericolate contaminazioni (con la matematica, con la filosofia, con la pittura, con l’architettura), Sinisgalli pubblicò nel 1950 presso Mondadori quello “strano oggetto letterario” intitolato Furor mathematicus, nel quale poesia e matematica, filosofia e geometria, autobiografia, arte, disegno, design interagiscono in un esaltante gioco combinatorio che, ancora oggi, sfugge a qualunque tentativo di “incasellamento” all’interno della storia dei generi.[2] Ci sono poi altri autori che pure andrebbero inseriti in questa rassegna: Paul Valéry, poeta “puro” per antonomasia, eppure fautore di una possibile e proficua “circolarità del sapere” e appassionato conoscitore della matematica, dell’architettura e della musica; Italo Calvino, che acquisisce in famiglia, tra agronomi e botanici, una particolare attitudine alla speculazione scientifica; Primo Levi, chimico e scrittore, vittima addirittura di una «spaccatura paranoica» che lo induce a trasferire nel suo “secondo mestiere”, non solo un «vasto assortimento di metafore», ma anche una serie di preziose «abitudini» («a scrivere compatto», «a evitare il superfluo», «a non lasciarsi ingannare dalle apparenze», «a pesare le parole»),[3] prese in prestito dal primo, e mai abbandonato, mestiere di chimico. E quanto il «dizionario di simboli visivi e mentali degli alchimisti» abbia colpito l’immaginario di famosi poeti e narratori dell’Otto/Novecento, è uno scrittore contemporaneo – Giuseppe Montesano – ad averlo evidenziato in un articolo apparso su «Il Mattino» di Napoli alcuni anni fa:
…come sottrarsi al fascino della «Coniunctio», l’unione erotica tra il Re e la Regina che propizia la nascita della pietra filosofale? E come sfuggire alla malia di «Nigredo, Albedo, Rubedo», i tre stadi della trasformazione o «trasmutatio» che dalla putrefazione del nero nella nigredo passa per la perfezione del bianco nell’albedo e arriva al rosso salvifico della rubedo? Artisti e scrittori vi lessero le immagini del loro lavoro, e l’Opus segreto degli alchimisti diventò l’opera d’arte che trasforma con lo stile il brutto in bello.[4]
Nella Ricerca dell’Assoluto di Balzac l’alchimia, conosciuta attraverso letture disordinate e testi teosofici, diventa «un’ossessione che conduce alla follia», mentre nella celebre poesia Vocali di Rimbaud, «genialmente incomprensibile», vi sarebbero tracce della «lettura di compendi alchimistici». Ma segni riconoscibili di una cultura ermetica sarebbero ravvisabili anche in «una mente sobria come quella di Goethe» e in quella, certo meno misurata, di Baudelaire che, nei Fiori del male, parla di «Ermete Trismegisto e di una terribile “Alchimia del dolore”».
Passando dal campo delle scienze a quello delle arti, frequenti e ampiamente indagati dai critici sono i «casi» di contaminazione tra linguaggio musicale e linguaggio poetico nelle opere degli autori del nostro Novecento. Quali siano, ad esempio, e di quale portata, i riflessi all’interno della prassi versificatoria di Montale e di Caproni della passione nutrita da entrambi per la musica, è addirittura superfluo ricordarlo. È noto il debito di Eugenio Montale, cantante lirico mancato, verso Debussy e i suoi Minstrels: vale per tutti l’esempio della celebre Musica sognata del 1923 (la poesia degli Ossi di seppia che ricalca il titolo del brano pianistico del musicista francese, ascoltato per la prima volta a Genova nel 1916) in cui la contiguità tra la scrittura del poeta ligure e la musica del grande compositore contemporaneo si annuncia non solo sul piano tematico («si parla infatti di tre menestrelli fragili e umili, che ricordano molto gli evanescenti personaggi della fantasia musicale di Debussy, compresi i protagonisti della sua opera Pelleas e Melisande»),[5] ma soprattutto si rivela a livello fonico:
[…] come nel Preludio debussyano abbiamo l’elemento caratteristico dell’acciaccatura, qui già dai primi versi abbiamo la sonorità graffiante e ricorrente delle R: “Ritornello, rimbalzi / TRA le veTRAte […]” e poi più avanti “ACRE groppo di note soffocate […]”, e ancora più volte fino alla fine, ad inseguire il gioco fonico, peraltro non nuovo per Montale. Qui però esso non è più, come fino ad allora, fine a se stesso, ma mira a riprodurre il carattere scanzonato e divertito del Preludio. Come qui il tema ricompare variato alla fine, così nella poesia di M. troviamo alla fine la ripresa del secondo verso. Non si tratta di un semplice omaggio al musicista, ma di un esperimento linguistico a metà fra musica e poesia, un messaggio completo in cui la parola SI FA musica, in senso letterale e non solo simbolico, per arrivare a dire ciò che altrimenti non può dire meglio della musica. Nel Quaderno genovese Montale stesso ci dice: “È un fatto che le lettere tendono sempre di più alla musicalità e al colore” e ancora “[…] e, in fondo, diciamo pure tutta la coraggiosa verità: la letteratura È MUSICA”.[6]
Una «coraggiosa verità», quest’ultima enunciata da Montale, pienamente condivisa da Caproni del quale è nota la passione per la musica (che va oltre, naturalmente, il mero dato biografico, ovvero lo studio del violino presso l’Istituto musicale «G. Verdi» di Genova, continuato fino ai diciotto anni e poi definitivamente abbandonato) che si traduce, in poesia, nella famosa «cantabilità»[7] dei suoi versi, non privi di dissonanze e improvvise spezzature, e nella «continuità musicale» che mantiene «ininterrotto il filo della poesia […] pur nel variare dei temi e dei tempi del discorso».[8] Una “continuità musicale” che ha anche garantito al poeta «un aggancio forte con la tradizione e con la popolarità»:
…popolarità e tradizione di struttura anche, se pensiamo al punto d’attacco che Caproni ha mostrato con la ballata antica, coi modi del melodramma, con la canzoncina arcadica, una canzonetta rinata robustamente nei suoi versi brevi, e l’assunzione della rima facile e insieme sapiente.[9]
La rassegna degli autori del Novecento europeo, animati da passioni “altre” rispetto a quella dominante per la letteratura e capaci, dunque, di interessanti «cortocircuiti» linguistico-concettuali con i codici espressivi (e i metodi operativi) delle scienze, della tecnica, delle arti, è però lunga e non può trovare posto in questo spazio, per necessità, breve. Tuttavia non possono mancare nell’ideale elenco i nomi di alcuni futuristi di ingegno multiforme, nei quali riscontriamo non mediocri manifestazioni di un generico eclettismo, ma un’autentica tensione sperimentale e una naturale vocazione a far interferire linguaggi differenti; mi riferisco (oltre allo stesso Marinetti) ad artisti del calibro di Enrico Prampolini (diviso tra pittura, scultura, teatro, cinema, architettura) o del torinese Luigi Colombo Fillia (pittore, poeta, drammaturgo, ma anche geniale architetto, esperto di arti decorative ed altro).
Quanto sia stato profondo e importante, nei primi anni ’30, il legame di Giuseppe Ungaretti, Libero De Libero, Alfonso Gatto, Enrico Falqui con l’ambiente dei giovani pittori e scultori della «scuola romana» di Scipione e Mafai, è senz’altro opportuno ricordarlo in questa sede.[10] È proprio da quegli incontri fecondi di stimoli, di progetti, di iniziative comuni che discende, infatti, la particolare qualità «visiva» di certe poesie ungarettiane e deliberiane. Davvero scontata è, infine, la menzione di scrittori come Alberto Savinio e Carlo Levi, le cui prove pittoriche, hanno addirittura superato, in taluni casi, quelle letterarie, ovvero ne hanno caratterizzato e/o condizionato i modi e gli sviluppi.
In conclusione possiamo dire che la scelta di una “scrittura contaminata”, impura, equivale, da parte dello scrittore, alla rinuncia ai canoni formali imposti dalla tradizione, alla comodità di un protocollo di regole ben definito, alla rassicurante univocità di significato dell’Opera d’arte. Quest’ultima, anzi, si è via via trasformata, specie nelle sperimentazioni artistico-letterarie più all’avanguardia, in una sorta di “spazio frattale”. Come i pezzetti di vetro colorato all’interno di un caleidoscopio, così le esperienze eterogenee, stratificate, dello scrittore (o pittore o musicista) contemporaneo si traducono, nella sua opera, in una pluralità di codici e di significati da decrittare: questi ultimi, come migliaia di punti di fuga, si rifrangono e si rincorrono senza sosta, componendosi in forme musive di volta in volta diverse e affascinanti.
Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, com’è noto, se ha da essere fertile.[11]
[1] Quella del «centauro», è noto, è un’immagine assai cara a Primo Levi e ossessivamente presente nelle sue pagine. Spesso lo scrittore torinese la userà, in interviste, conversazioni e dialoghi, per definire la propria condizione ibrida, «dimezzata», di scrittore e scienziato, intellettuale e uomo di fabbrica. Si veda anche l’intervista del ’66 a Edoardo Fadini, nella quale, non a caso, sono chiamati in causa anche Solmi, Gadda e Sinisgalli, vittime della medesima «spaccatura paranoica» (cfr. E. FADINI, Levi si sente scrittore «dimezzato», «L’Unità», 4 gennaio 1966). Ma in fondo ogni uomo è «centauro» – dichiara Levi nel Sistema periodico – «groviglio di carne e di mente, di alito divino e di polvere» (P. LEVI, Argon, in ID., Il sistema periodico, Einaudi, Torino 1994, p. 9).
[2] Mi permetto di rinviare al mio studio I numeri, le parole. Sul ‘Furor mathematicus’ di Leonardo Sinisgalli, Franco Angeli, Milano, 2002.
[3] Primo Levi e Tullio Regge. Dialogo, a c. di E. FERRERO, Torino, Einaudi 1987, pp. 59–61.
[4] G. MONTESANO, Tutti maghi questi poeti. La pietra filosofale dell’arte, «Il Mattino» di Napoli, 7 dicembre 2006.
[5] M. F. CUCCU, La «musica sognata» di Claude Debussy, in «XÁOS. Giornale di confine», II, 3, Novembre-Febbraio 2003/2004.
[6] Ibidem.
[7] Cfr. il contributo di I. CALVINO in Alcuni scritti sulla poesia di Giorgio Caproni, antologia critica posta in appendice all’edizione garzantiana di G. CAPRONI, Tutte le poesie (Milano 1999), p. 1000.
[8] Cfr. G. PAMPALONI, in ivi, p. 1009.
[9] G. L. BECCARIA, in ivi, p. 1006.
[10] Pier Vincenzo Mengaldo interpreta «la ripresa, dopo l’eccezionale momento futurista, di contatti e scambi fra i poeti e il mondo delle arti figurative» come una conseguenza dell’affermarsi, negli anni ’30 del Novecento, di una nuova figura di poeta in cui «il mestiere di lirico si dirama in una più complessa attività di intellettuale militante». Sono portati a mo’ di esempio i nomi di Bertolucci, Sinisgalli, Gatto. (Cfr. P. V. MENGALDO, Per un’antologia della poesia italiana del Novecento, in ID., La tradizione del Novecento, II serie, Einaudi, Torino 2003, p. 35).
[11] P. LEVI, Zinco, in ID., Il Sistema periodico, cit., p. 35.
Quest’articolo riproduce, con tagli e modifiche, il saggio intitolato Le “scritture contaminate”. Appunti per un’introduzione, pubblicato nel volume monografico Ai margini della letteratura. Le “scritture contaminate”, Introduzione e cura di Alessandra Ottieri, “Sinestesie”, a. IV, I-II quaderno, 2006, pp. 9-17. Cfr. http://www.edizionisinestesie.it