VALÉRY, UNGARETTI E LA POESIA COME “METODO”

 

La notizia della sua morte [di Valéry], data dai giornali a quattro gatti, mi ha ricondotto ai giorni d’un mese del 1930, in cui incontrai il mio amico Sinisgalli che aveva allora allora trovato una copia di Charmes da un libraio fuori mano; e insieme si lesse subito Le cimitière marin, che un nevrastenico amico ci aveva descritto difficile come un teorema, impossibile come una sciarada. La nostra lettura e i discorsi non si fermarono lì; per qualche tempo se ne parlò se ne discusse.[1]

Con queste parole si apre il dettagliato resoconto di un soggiorno romano di Paul Valéry, pubblicato sulla rivista «Mercurio» nell’agosto del 1945 (a. II, n. 12) da Libero de Libero – poeta e attivissimo organizzatore di cultura nella Roma della metà degli anni Trenta – che, nel marzo del 1937, aveva fatto da guida e da “accompagnatore ufficiale” al poeta francese, per più di quindici giorni.[2] Da queste pagine – poi ripubblicate in volume, con alcune modifiche, circa dieci anni dopo – viene fuori un’immagine inconsueta e senz’altro meno algida del poeta francese: un uomo austero, ma con qualche concessione alla civetteria nella scelta dell’abbigliamento (“mi stupì per certe sue scarpe di antilope marrone, che in quei tempi erano molto usate dai gagà romani”); particolarmente interessato al giudizio dei critici e dei giornalisti italiani sulla sua opera (“volle sapere da me che si diceva di lui nell’ambiente letterario; e, quando gli dissi che i giornalisti e certi critici lo giudicavano responsabile della decadenza della poesia nel suo paese e nel nostro, egli si mostrò seccato”); irrequieto e volubile nei discorsi, ma loquace e facile all’ironia (“Un pomeriggio andammo a sederci nel Campidoglio. Scherzava sui passanti, sulle coppie di innamorati, sulla romanità che in quei giorni starnazzava più che mai nei giornali e negli ordini del giorno”). de Libero ricorda che, “stuzzicato ” da Raffaele Contu nel corso di una cena con Debenedetti, Vigolo e D’Aroma, Valéry “s’intrattenne a parlare di fisica e di matematica, dei suoi primi contatti con la matematica; confessò che la sua cultura matematica era volubile, sregolata”:

…durante i famosi diciott’anni di silenzio non se l’era spassata con le equazioni, come molti dicevano, e aveva badato alla moglie gravemente ammalata, a guadagnare coi lavori più disperati. Parlò di Paul Fort che, durante l’altra guerra gli aveva chiesto il manoscritto dei Vers Anciens per la sua rivista Vers et Prose; e lui, a freddo, li rielaborò, quasi ricomponendoli del tutto, e s’era convinto che la ispirazione è un modo di dire.

Anche in altri punti del resoconto deliberiano troviamo confermata l’avversione di Valéry nei confronti della cosiddetta poesia d’ispirazione, ovvero, come si legge nei Cahiers, “la diffidenza nei confronti di ciò che è Spontaneo”:[3]

Egli scriveva per sé appunti di poche righe. Scriveva il resto su ordinazione […]. «Tranne il mio segreto lavoro di appunti, io lavoro sempre su ordinazione». Così nacque Eupalinos che servì da prefazione a un volume di architettura; gli avevano chiesto 150.000 parole.

È nota, e più volte ribadita dallo stesso poeta, la maggiore importanza annessa da Valéry al suo “segreto lavoro di appunti”, ovvero ai Cahiers – un “lavoro di Penelope” durato quasi mezzo secolo e condotto con maniacale puntualità dalle 5 alle 8 del mattino – piuttosto che al parallelo lavoro di poeta svolto con la facilità e la “freddezza” di chi conosce bene il “mestiere”:

Teneva assai ai suoi libri di frammenti, dicendo che di lì usciva lui uomo, la sua vera autobiografia, quella mentale. Il resto non contava; era tutto un lavoro dal quale egli apprendeva molto. Aveva scritto i poemi di «Charmes», perché, col rielaborare i vecchi versi, s’era fatto un mestiere di facilità: «Perché avrei dovuto rinunciare a quella facilità?»

Riguardo ai rapporti con i colleghi italiani – poeti, scrittori, traduttori, saggisti – de Libero ricorda l’incontro deludente di Valéry con Benedetto Croce a Parigi (“non gli era piaciuto, un pedante”), l’ammirazione manifestata per la pregevole traduzione dell’Eupalino eseguita da Raffaele Contu per l’edizione italiana del dialogo («Quaderni di Novissima», 1933), e infine la richiesta di notizie su alcuni poeti amici:

Domandò notizie di Ungaretti, di Eugenio Montale, di Sergio Solmi, di Alberto Rossi, e fu l’unica volta che si ricordasse degli scrittori italiani.

Non a caso in cima a questo scarno elenco di nomi riportato da de Libero compare quello di Ungaretti. Quest’ultimo fu testimone della grande suggestione esercitata dal poeta e saggista, discepolo di Mallarmé, su un’intera generazione di poeti e scrittori italiani, nutrita di letteratura francese e attratta dal fascino di Charmes e di Eupalinos, come dalle sonorità musicali della poesia di Rimbaud o dalla “prosodia acrobatica” del Coup de dés mallarméano. Amato come un “maestro” da Sinisgalli, de Libero, Beccaria, Gatto (poeti-studenti più giovani di lui di una generazione), Ungaretti era tra i frequentatori assidui del mitico Caffè Aragno di Roma, assieme a Cecchi, Barilli, Cardarelli, Bacchelli. In un breve scritto del ‘74, de Libero ricorda la grande emozione provata assieme all’amico romano Luigi Diemoz (poeta, saggista e traduttore dal francese e dall’inglese) dinanzi all’improvvisa “apparizione” di Ungaretti al Caffè Aragno in una sera del 1927:

L’indomani sera del nostro incontro Diemoz volle farmi la sorpresa di andarci a sedere da Aragno, e d’allora cominciò l’abitudine di trascorrere là dentro le ore più diverse tutti quanti noialtri […] Non ci volle molto, sia pure a distanza, a conoscere uno dopo l’altro Cardarelli Cecchi Baldini Barilli, a guardarli affettando indifferenza per nascondere l’ansia di superare lo steccato di tavoli e sedie che ci teneva lontani dall’avvicinarli, l’attrazione non finiva, arrivava a stento la voce loro, finalmente apparve Ungaretti e fu l’allegria del suo parlare a voce alta.[4]

Amico di Valéry e di Gide, Ungaretti svolse compiutamente, attraverso un’intensa attività di traduttore, critico e saggista, il ruolo di mediatore in Italia della cultura francese simbolista e post simbolista. I numerosi saggi ungarettiani dedicati a Valéry e scritti in circostanze e in tempi diversi (dai primi della metà degli anni Venti, all’introduzione all’Eupalino del ’32, dalla testimonianza accorata scritta in occasione della morte del poeta, fino al Discorso del 1961) documentano la profonda conoscenza dell’opera e della personalità del poeta francese, indicato (assieme a Mallarmé) quale straordinario modello di coerenza teorica e di rigore formale: “uno dei rari uomini viventi che abbiano qualcosa da insegnarmi in poesia”, dirà nel 1926. Lo stesso esercizio critico ungarettiano, la sua personale “lettura” dell’opera d’arte trova le fondamentali premesse teoriche nella riflessione di Valéry e naturalmente, andando a ritroso, di Edgard Allan Poe:

Valéry impara da Poe che per capire la genesi di un’opera d’arte si deve partire non da un’emozione iniziale, ma dai mezzi tecnici messi in opera dall’artista per produrre tale o tal altro effetto. La vera causa dell’opera d’arte è dunque nell’impiego dei mezzi.[5]

Se per Valéry il poeta è innanzitutto “homo faber” che costruisce la sua opera attraverso la scelta di particolari soluzioni tecnico-formali, allora “non può stanarsi l’ispirazione se non dedicando attenzione ai mezzi tecnici”.[6] Si tratta di un metodo critico-interpretativo assai vicino al programma “formalista” di Ungaretti che, nel 1930, così definiva il lavoro del critico:

Il giudizio del critico, suppongo, non può cadere che sulle forme, su organismi di parole volti a suggerire un’identità con quell’ordine universale che il poeta sotto esame sente e immagina.[7]

Spostandoci dal piano dell’esercizio critico a quello della creazione poetica è unanimemente riconosciuta la “solidarietà tecnica” di Ungaretti con la prassi poetica simbolista e futurista in relazione all’uso dei procedimenti espressivi. La ricerca di condensazione semantica e di concentrazione verbale praticata dai futuristi paroliberi e soprattutto la ricerca di assolutezza verbale e di precisione linguistica perseguita da Valéry (il suo onnipresente “demone della purezza”) dovettero senz’altro funzionare per il giovane Ungaretti, “saturo di letteratura”, quale punto di partenza per la scoperta della cosiddetta “parola innocente”:

Valéry mi sorprende e mi seduce non porgendo degli esempi da imitare, ma avviando a riaccorgersi di un’infinità di risorse e di effetti della parola. Chi è pensoso di esprimersi il più precisamente possibile, gli è grato.[8]

Vent’anni dopo nella dolente Testimonianza scritta in occasione della morte di Valéry, Ungaretti ritorna sull’eccezionale lavoro di “scavo” compiuto sulla parola dal poeta francese “affetto dal male acuto della precisione”:

[…] spinto all’estremo dal desiderio di capire, portava la sua lente, il suo faro, lo strumento meraviglioso ch’era il suo intelletto a scoprire la parola sino alla radice del moto di passioni, di sensi o di pensieri che perseguiva; a scoprirla sino al punto dell’indicibile, sino a quel punto dove la parola può farsi così colma di poesia da suggerire idea e sentimento del divino, da suggerire del divino, oserei dire, un fisico senso.[9]

In Valéry, il rifiuto della letteratura intesa come frutto di un’ispirazione momentanea non mediata dal pensiero (“in quanto scrittore, non ho sognato che costruzioni e ho aborrito l’impulso che riempie il foglio con una produzione ininterrotta”)[10] e la conseguente adesione al “modello matematico-algebrico” (“[le matematiche] mi hanno educato e provvisto di idee di rigore che mi hanno immensamente aiutato a farmi un’idea esatta della poesia pura”) conducono, dopo la “crisi” del ‘92, verso la ricerca di un metodo compositivo rigoroso e verso l’adozione di un linguaggio “costruttivo”, “preciso” capace di assecondare le molteplici operazione dell’intelletto: [11]

Il mio fine non è letterario. Non è di agire sugli altri quanto piuttosto su di me – Io – in quanto questo Io possa essere trattato come un’opera… della mente.[12]

Comporre, per Valéry, equivale a costruire, e costruire significa analizzare, separare, distinguere gli elementi costitutivi dell’opera – anziché impiegarli “mescolati” – per farne sentire la differenza e per poterli ricostituire “allo stato puro”. “Io stimo, soprattutto, le menti disgiuntive”[13] – scrive Valéry nel 1894, all’epoca del Léonard – denunciando subito la presenza, nel suo sistema di pensiero, di quel “demone della Purezza” che, già visibile nell’architettura, nella musica, nell’algebra, Valéry avrebbe voluto vedere operante anche in letteratura. La Purezza e la Precisione (ovvero la vittoria del rigore formale sull’arbitrio, sull’ispirazione, sullo spontaneismo) sono i due “demoni” attraverso i quali Valéry si cimentò nell’ambizioso progetto di trasformare, more mathematicorum, il lavoro del poeta nel senso di una sempre maggiore acquisizione di severità e disciplina nell’esercizio compositivo (“mi è sembrato che l’epoca lo esigesse”):[14]

l’oggetto generale della mia tendenza intellettuale è stato di sostituire il cosciente all’incosciente nei lavori di composizione.[15]

Riguardo allo stile la mia mania è di ridurre ciò che è irrazionale allo stretto necessario e di portare ogni volta ciò che è razionale ai suoi limiti di estensione.[16]

Non ho mai apprezzato la letteratura se non nella misura in cui essa è paragonabile a qualche scienza costruttiva.[17]

Mi stimola ciò in cui un’attività si organizza.

Il “fare poetico”, quindi, si presenta a livello metodologico, come una rigorosa operazione di tipo matematico, il cui procedimento, escludendo affatto l’improvvisazione, risulta sintetizzabile in una formula:

Io sono uno scrittore le cui produzioni derivano da una traduzione di dati e di impressioni particolari relative a ciascuna opera – entro un sistema di riflessioni e definizioni generali che mi sono peculiari, e da una ritraduzione di questa trasposizione nel linguaggio ordinario.[18]

In un appunto dei Cahiers datato 1931, Valéry afferma perentoriamente: “Il mio metodo, sono io. Ma io ricapitolato, riconosciuto”;[19] e ancor prima leggiamo: “Io sono una tavola di trasformazioni che si volle riclassificare”[20]. È chiaro, quindi, che l’Io del poeta, in quanto “funzione invariabile” sottesa ai processi di rappresentazione del reale,[21] è il fondamento su cui poggia la costruzione del “metodo”; ma cosa intenda precisamente Valéry per “metodo” è il poeta stesso a suggerirne l’esatta definizione nella celebre Immagine di Descartes:

Un metodo non è una teoria: è un sistema di operazioni suscettibile di fare il lavoro dell’intelletto meglio di quanto lo faccia l’intelletto abbandonato a se stesso. […] Se una teoria può presumere di insegnarci qualcosa di cui non sapevamo assolutamente nulla, un metodo invece mira soltanto a operare determinate trasformazioni su qualcosa di cui conosciamo già qualche parte, al fine di estrarne o comporne tutto ciò che se ne può sapere[22]

Compiendo “un passo enorme sulla strada della rappresentazione dell’Universo misurabile”, Cartesio riuscì nello scopo di “trattare sistematicamente tutti i problemi della geometria riconducendoli a problemi d’algebra”,[23] ottenendo, attraverso la “mirabile invenzione” della croce di assi di coordinate, la “traduzione delle cifre in figure di linee curve suscettibili di far percepire a colpo d’occhio lo sviluppo d’una trasformazione”:[24] la sostituzione della figura al numero e viceversa. Le infinite possibilità di rappresentazione e di variazione delle immagini offerte dalla croce cartesiana, attraverso la quale diviene possibile seguire qualunque processo trasformazionale, costituirono una scoperta fondamentale per Valéry che, a partire dal 1892, tentò di estenderne le innegabili potenzialità euristiche anche in altri campi:

Allora mi si mostrò (‘92) che era impossibile che il lavoro mentale fosse completamente diverso nelle diverse menti o nei diversi usi della mente; e quello del geometra o geometrizzante, da quello del poetico o del politico. E cercai ingenuamente e ostinatamente il tipo di trattamento che assimilasse o differenziasse questi modi di trasformazione dagli effetti così diversi – (modi di variazione delle immagini). [25]

È l’epoca del Léonard e Valéry – che ha da poco intrapreso la sua metodica e ininterrotta analisi del “funzionamento cerebrale” – può dichiarare con convinzione che scienza e arte, ciascuna con “i propri linguaggi e i propri simboli” non sono altro che “variazioni di una materia comune”.[26] Entrambe nascono da operazioni spirituali affini che, finché sono “in moto”, “irresolute”, ovvero prima di compiersi in un risultato preciso – teorema, poesia, oggetto d’arte – appaiono affatto simili (la diversità, il contrasto, si genera unicamente nei risultati). Partendo da tali presupposti teorici appare allora garantita per Valéry la possibilità di una circolazione continua da un campo all’altro del sapere e lo strumento linguistico-concettuale che consente di volta in volta la transizione è senza dubbio il salto analogico:

…giacché l’analogia è precisamente la facoltà di variare le immagini, di combinarle, di far coesistere la parte dell’una con la parte dell’altra e di scoprire, volontariamente o meno, le relazioni delle loro strutture.[27]

Da ciò scaturisce la straordinaria “mobilità” della pagina di Valéry: questa non è mai totalmente “strutturata”, ma piuttosto è “il supporto di un’operazione o il ‘campo’ di un percorso”[28] nel quale il pensiero, in continuo divenire, inseguendo “oggetti” (Leonardo, Poe, Cartesio, Baudelaire…) che divengono subito pretesti, può esercitarsi liberamente con improvvisi cambiamenti di direzione, ritorni, intuizioni e ardite analogie.

[1] L. de Libero, Valéry, parente illustre, «Mercurio», a. II, n. 12, agosto 1945, p. 107.

[2] de Libero – che ottenne il suo primo riconoscimento poetico grazie ad Ungaretti che nel 1934 pubblicò nei «Quaderni di Novissima» la sua prima raccolta poetica Soltizio – così descrive il forte impatto suscitato dall’opera di Valéry sui poeti della propria generazione: «temi, analisi figurazioni, idee proposti da Valéry con lucidità cartesiana che escludeva qualunque concessione al sentimentalismo, furono trattati come elementi d’indagine e di conoscenza, non certo per farne un decalogo o un prontuario, sibbene per comporli e scomporli secondo un’esigenza particolare della nostra generazione che ha voluto leggere ‘tous le livres’, andare sino alle estreme conseguenze d’una lettura e d’una prova, pur di non rinunciare a un’occasione» (L. de Libero, Borrador. Diario 1933-1955, pref. M. Petrucciani, a cura di L. Cantatore, Torino, Nuova Eri, 1994, p. 158).

[3] P. Valéry, Quaderni I, a c. di J. Robinson Valéry, Milano, Adelphi, 1985, p. 382.

[4] L. de Libero, Borrador. Diario 1935-1955, cit., p. 259.

[5] G. Ungaretti, Discorso per Valéry (1961), in Id., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a c. di M. Diacono e L. Rebay, Milano, Mondadori, 1974, pp. 629-630.

[6] Ivi, p. 630.

[7] G. Ungaretti, L’umo buio (1930), in Id., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, cit., p. 237.

[8] G. Ungaretti, Va citato Leopardi per Valéry? (1926), in Id., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, cit., p. 105.

[9] G. Ungaretti, Testimonianza su Valéry, in Id., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, cit., p. 105.

[10] P. Valéry, Quaderni I, cit., p. 309

[11] Sulle potenzialità “costruttive” del linguaggio ecco quanto afferma Valéry nell’Eupalino: «- FEDRO: Ecco che il linguaggio è costruttore!…Già lo conoscevo sorgente delle favole; e per taluni è anche il genitore dei… – SOCRATE: Fedro, Fedro, l’empietà è senza grazia in questi luoghi, ché non essendoci folgori la bestemmia perde ogni merito…e in questi vaghi prati la cicuta non alligna. Veramente, la parola può costruire come può creare e può corrompere…(…) Certi popoli si smarriscono nei loro pensieri, ma, per noi Greci, tutto è forma. Noi non consideriamo che rapporti e, come immersi in una luce limpida, simili ad Orfeo, col mezzo della parola costruiamo templi di saggezza e di scienza che possono bastare a tutti gli esseri ragionevoli.” (P. Valéry, Eupalino o dell’Architettura, trad. di Raffaele Contu con una lettera dello stesso, una nota dell’autore e un saggio di Giuseppe Ungaretti, Roma, «Quaderni di Novissima», 1933, pp. 95-97).

[12] P. Valéry, Quaderni I, cit. pp. 309-310.

[13] Ivi, p. 21.

[14] Ivi, p. 164.

[15] Ivi, p. 109.

[16] Ivi, p. 257.

[17] Ivi, p. 285.

[18] Ivi, p. 287.

[19] Ivi, p. 133.

[20] Ivi, p. 120.

[21] Cfr. S. Agosti, Pensiero e linguaggio in Paul Valéry, introduzione a P. Valéry, Varietà, Milano, Rizzoli, 1971, p. 12.

[22] P. Valéry, Immagine di Descartes, in Id., Varietà, cit., p. 76.

[23] Ivi, p. 74.

[24] Ivi, p. 75.

[25] P. Valéry, Quaderni I, cit., p. 161.

[26] P. Valéry, Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci (1894), in Id. Varietà, cit., p. 34.

[27] Ivi, p. 35.

[28] Cfr. S. Agosti, Pensiero e linguaggio in Paul Valéry, introduzione a P. Valery, Varietà, cit., p. 23.

 

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