LA FONDAZIONE (E RIFONDAZIONE) DEL ROMANZO ITALIANO. Parte prima. Manzoni, Verga, D’Annunzio

 

Il recente dibattito sulla crisi della narrativa italiana contemporanea – a quanto pare, vittima di un progressivo impoverimento linguistico e di un’estrema semplificazione dei contenuti, per inseguire un pubblico sempre più frettoloso e pigro – mi ha fatto tornare in mente un bel saggio di Carlo Alberto Madrignani (incluso in un Manuale di letteratura italiana di più di venti anni fa), nel quale la nascita della forma-romanzo in Italia è descritta come una vicenda piuttosto complessa e travagliata. Le opere di Manzoni, Verga, D’Annunzio, rappresentano il momento fondativo della nostra “tradizione del romanzo”, una tradizione fatta di imitazione e sperimentazione, fratture e sussulti, fondazione e rifondazione di un genere che per lungo tempo è mancato in Italia, ostacolato da diffidenza e pregiudizi, e che ha stentato a trovare una propria specificità contenutistica e formale rispetto ai modelli stranieri.

“Per lungo tempo l’Italia è stata la terra-senza-romanzo”[1] – scrive infatti Madrignani – e “neppure Manzoni” con il suo romanzo storico fu in grado di ribaltare la situazione, essendo troppo forte nella nostra penisola il peso della tradizione classicista che per molto tempo continuò a considerare la narrativa un genere “minore”, rispetto alla letteratura “alta” rappresentata dalla poesia o dalla prosa latineggiante.

I Promessi sposi non rompono con questa tradizione. Riescono a farsi accettare, quasi si trattasse di una miracolosa e irripetibile commistione di classico e moderno, di opera rispettabile benché scritta in prosa narrativa. Il romanzo storico non avvia la letteratura italiana a esiti moderni…

Sorte ancora più triste toccò, poi, alle Confessioni di un italiano, il grande romanzo risorgimentale dello scrittore garibaldino Ippolito Nievo che, scritto nel 1857-58 e pubblicato postumo nel 1867, ebbe “scarsa fortuna e mercato”, in quanto né la critica, né il pubblico colsero la novità e l’importanza di questo monumentale romanzo – laico e anti-manzoniano – che patì anche “il rifiuto estetico dell’autobiografia come genere”.

Nella seconda metà dell’Ottocento, quindi, la “questione romanzo” in Italia restava ancora clamorosamente irrisolta. Mentre i nostri giovani Scapigliati tentavano coraggiosamente la ribellione nei confronti della tradizione borghese-cattolica-manzoniana e sperimentavano nuovi temi e nuove forme espressive (va menzionata almeno la sperimentazione linguistica di Carlo Dossi in senso espressionistico), in Francia si affermava la corrente naturalista dei Goncourt e di Zola e nasceva una nuova tipologia di romanzo – anticlassicista, spregiudicato, in presa diretta sulla realtà – che costringeva i nostri scrittori ad adeguarsi (e quindi a rinnovarsi), abbandonando il filone, già esaurito, del romanzo storico.

La discussione del romanzo aveva suscitato un nuovo tipo di sensibilità, aperto la strada a un approccio critico moderno, anticlassicistico, che interpretava il romanzo come organismo dotato di proprie leggi estetiche. In questa atmosfera di rinnovamento e di attesa esce il capolavoro del verismo italiano, uno dei più grandi romanzi del naturalismo europeo. Nel 1888 Giovanni Verga pubblica I Malavoglia e inizia così anche per l’Italia la grande narrativa moderna.

Verga, dunque – a pochi anni di distanza dall’edizione definitiva dei Promessi sposi – “rifonda” la tradizione del romanzo italiano e lo fa dalla Sicilia, ovvero dalla periferia più lontana e degradata del neo-nato Regno d’Italia. Lo scrittore catanese, superata la fase del romanzo storico-patriottico e quella del romanzo erotico-mondano, fa propri i principi del Naturalismo francese (in primis il canone dell’impersonalità) e li piega alla rappresentazione di una Sicilia primitiva, dura, assolutamente antiromantica e anti-folklorica, in cui i personaggi conducono una vita grama, fatta di fatica e stenti, senza intravedere alcuna possibilità di riscatto. Gli “umili” manzoniani diventano i “vinti”, gli emarginati, i reietti, ai quali Verga dà voce attraverso una narrazione corale e policentrica.

Mai era successo che un artista “abbassasse” la prosa italiana ad argomenti tanto prosaici e “vili”. Lo stile umile del Manzoni risulta al confronto una forma di intelligente condiscendenza, una sorta di abile mimetismo a cui l’autore aderisce dall’esterno, se non dall’alto. Verga attua invece quanto si proponeva: si mette nella pelle dei suoi personaggi, ricrea il loro linguaggio, riproduce la dinamica dei loro valori antropologici con piena adesione oggettiva, senza darsi il tono di chi giudica o commisera.

Inutile insistere sulle differenze tra il realismo manzoniano e il naturalismo verghiano o sottolineare ulteriormente il passaggio dal narratore onnisciente al narratore impersonale (con annessa “regressione” del punto di vista); più interessante, invece, notare come né Manzoni, né Verga riuscirono a risolvere in via definitiva il problema linguistico che affliggeva la nostra narrativa (“troppo giovane” rispetto alla secolare tradizione del romanzo inglese o francese). Le soluzioni espressive adottate dai due maggiori narratori del nostro Ottocento – il fiorentino vivo dell’uno e l’italiano dialettizzato dell’altro – erano soluzioni contingenti e legate alla tipologia delle loro opere maggiori, mentre la forma-romanzo in Italia (pur supportata da grandi case editrici come Treves e Sommaruga) continuava a non avere una sua lingua codificata e a patire (in quanto genere popolare e di largo consumo) la diffidenza o l’incomprensione della critica.

Con D’Annunzio, che pure parte da premesse verghiane, la tradizione del romanzo italiano cambia nuovamente direzione. Il Piacere, uscito nel 1889 e immediatamente acclamato dal pubblico, segna un’ennesima svolta nella storia del genere, proiettando la narrativa italiana nell’orizzonte del Decadentismo europeo. Manzoni e Verga avevano concepito romanzi “antiletterari”, attingendo alla storiografia (il primo) o alla scienza (il secondo) e puntando l’attenzione sui contenuti piuttosto che sull’arte. D’Annunzio ribalta questa prospettiva e pone l’arte e la letteratura alla base della sua narrativa, introducendo in Italia il romanzo simbolista. Superomismo e autocelebrazione, dilettantismo e mitologismo moderno, sensualità morbosa e narcisismo verbale caratterizzano i romanzi dannunziani facendone delle formidabili “macchine ad effetto estetico” (Guglielmi). Straordinari congegni letterari – usciti dalla penna di uno scrittore onnivoro, avido di esperienze letterarie e di vita, abilissimo manipolatore di parole – che tradiscono però un sentimento di caducità e il presentimento della crisi definitiva di un’epoca:

La grande stagione della narrativa è finita in un fallimento significativo. Il romanzo come propaganda e come autoesaltazione, caduto sotto l’eccesso di ambizioni artistiche e ideologiche, si offre come l’ultimo frutto dell’ottocento, troppo maturo e corroso al suo interno.

(continua)

[1] Questa e le successive citazioni sono tratte dall’affascinante saggio di Carlo Alberto Madrignani, Il romanzo da Nievo a D’Annunzio, incluso nel Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, IV, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 501-555.

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4 pensieri riguardo “LA FONDAZIONE (E RIFONDAZIONE) DEL ROMANZO ITALIANO. Parte prima. Manzoni, Verga, D’Annunzio

    1. Grazie Ivana…lo scopo di questi appunti di letteratura è proprio quello di mettere ordine, di riorganizzare in modo semplice concetti che semplici non sono… Se ci sono riuscita, sono proprio contenta! Un caro saluto

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