Le prime trasmissioni radiofoniche in Europa risalgono al 1923-24, ma è solo dieci anni più tardi, nell’ultima declinante stagione del futurismo italiano, che Marinetti e compagni sembrarono finalmente accorgersi di quest’invenzione recente, dedicandogli un tardo manifesto pubblicato su «La Gazzetta del popolo» nel 1933, recante la firma di Pino Masnata accanto a quella, immancabile, di Filippo Tommaso Marinetti.
Ma ancor prima del Manifesto della radio (o meglio della “radia”, brutto termine esemplato sui femminili tragedia e commedia), alcuni futuristi, insieme allo stesso Masnata, si erano già cimentati nella creazione di opere futur-radiofoniche, manifestando un interesse crescente nei confronti del nuovo medio, del quale bisognava approfondire i molteplici aspetti (specie quelli tecnici).
Nel 1924 Luciano Folgore aveva lanciato una rubrica di successo (Il grammofono della verità) che durò più di dieci anni; Pino Masnata – già inventore del «teatro visionico» – si era proposto, nel ’31, come autore radiofonico, presentando la radiofantasia La bambina ammalata e l’opera futur-grottesca Tum tum, mentre l’anno successivo andava in onda il radiodramma Violetta e gli aeroplani di Marinetti, che, già nel ’29, aveva declamato con successo alla radio la celebre Battaglia di Adrianopoli.
Non mancarono inoltre (anche se non numerosi) gli interventi teorici sulle possibili utilizzazioni della radio nei diversi settori dell’operatività futurista: Arnaldo Ginna se ne occupò in una serie di articoli apparsi nel 1928 sulla rivista «Futurismo» e pubblicò L’arte della radiofonia nel 1932, mentre Marinetti l’anno prima aveva illustrato le novità del teatro radiofonico futurista partecipando ad una Inchiesta sulla radio promossa dalla rivista milanese «Convegno» (inchiesta alla quale presero parte anche Massimo Bontempelli, Paolo Buzzi, Anton Giulio Bragaglia, Emilio Cecchi).
In quel breve intervento (che, per certi versi, anticipava i contenuti del successivo manifesto), leggiamo che «il teatro radiofonico deve forzatamente essere un teatro futurista, cioè sintetico, veloce, simultaneo, a sorpresa, senza nessuna introspezione, lungaggine, né analisi di psicologia», che «le parole in libertà sono il suo linguaggio congenito», e che «se non vuol ricorrere alle parole in libertà l’autore di teatro radiofonico deve per lo meno esprimersi in quello stile parolibero (derivato dalle nostre parole in libertà), che già circola in molti romanzi di scrittori avanguardisti».
In definitiva, Marinetti non riusciva a pensare ad un uso diverso del mezzo radiofonico, che non fosse quello (affatto scontato) della trasmissione di un evento teatrale o poetico; egli vedeva nella declamazione parolibera con eventuale accompagnamento musicale e, soprattutto, nel radiodramma – «veloce, sintetico, simultaneo» – le uniche strade percorribili da parte di quei futuristi (in verità pochi) interessati a cimentarsi in produzioni artistiche legate al nuovo mezzo. La radio, insomma, si presentava agli occhi del quasi sessantenne Marinetti, unicamente quale strumento idoneo alla diffusione di quella che egli riteneva – a vent’anni dalla fondazione del movimento – la più celebre e duratura invenzione del futurismo italiano: lo stile parolibero.
In realtà, la radio poteva rappresentare molto di più per i nostri futuristi, specie per coloro che da anni avevano avviato ricerche e sperimentazioni nel campo della musica. La radiofonia avrebbe potuto se non altro garantire a Marinetti e soci la realizzazione del più ambizioso dei loro obiettivi: ottenere, cioè, un’assoluta presentificazione del prodotto artistico che, in radio, acquista forma e vita unicamente nell’atto della sua diffusione/ricezione. Nell’opera radiofonica i due momenti della trasmissione e dell’ascolto si sovrappongono e si completano a vicenda realizzandosi in una condizione di perfetta simultaneità, in modo diretto, senza ulteriori mediazioni.
Questa, dunque, era la strada da battere per giungere ad un uso realmente innovativo della radio e Pino Masnata, estensore del manifesto del ’33, ne ebbe una chiara intuizione. La radio sarebbe stata in grado di spazzare via ogni forma di intermediazione tra l’autore e il pubblico e di suscitare una partecipazione nuova dell’ascoltatore, protagonista di un’esperienza unica, insieme personale e collettiva, individuale e globale. Per Brecht e Benjamin la radio ha il potere di trasformare l’ascoltatore in autore per Rudolf Arnheim o Dziga Vertov essa mette addirittura il mondo a disposizione dell’orecchio ed effettivamente ripensare radicalmente la funzione del pubblico e puntare sull’ascolto, quale modo simultaneo, creativo e interattivo di fruire l’opera d’arte, sarebbe stato il punto di partenza di una vera e propria rivoluzione mass-mediatica.
La radio – scriveva Masnata nel ’33 – prevedendo l’abolizione dello spazio scenico, del tempo, dell’unità d’azione, del personaggio – si sottraeva al prevedibile apparentamento col teatro o col cinema, e reclamava invece un fortissimo legame con la musica intesa in senso lato quale universo di suoni, rumori, silenzi. Gli accordi musicali o rumoristici «con le loro infinite gradazioni» – leggiamo nel manifesto – «diventeranno degli strani pennelli per dipingere, delimitare e colorare l’infinito buio della radia dando cubicità rotondità sferica in fondo geometria», in quanto la radia sarà anche «delimitazione e costruzione geometrica del silenzio», «un’arte umana universale e cosmica come voce con una vera psicologia-spiritualità dei rumori delle voci e del silenzio».
Masnata, dunque, – in anticipo di quasi vent’anni sulle sperimentazioni radiofoniche di John Cage, il compositore statunitense inventore della «musica del silenzio» –, ipotizzava già nel ’33 la realizzazione di speciali partiture musicali, da trasmettere per radio, basate su rumori, dissonanze, silenzi, «vibrazioni emesse da esseri viventi» e «vibrazioni emesse dalla materia». Egli, in definitiva, – attingendo alle teorie di Luigi Russolo che, già nel 1913, aveva sostenuto la necessità di sostituire al suono puro il suono rumore – riprendeva e approfondiva, a distanza di vent’anni, i toni e i contenuti del manifesto L’Arte dei rumori. Il suono puro, aveva dichiarato Russolo in quel famoso testo, «nella sua esiguità e monotonia, non suscita più emozione», fiacca la sensibilità dell’ascoltatore-spettatore che passa dalla noia «del già udito» alla «noia della battuta che seguirà … aspettando sempre la sensazione straordinaria che non viene mai»; il suono rumore, viceversa, è in grado di garantire «più ampie emozioni acustiche» in tutte le sue manifestazioni, gradevoli o moleste – dal «rombo del tuono, ai sibili del vento, allo scrosciare di una cascata, al gorgogliare d’un ruscello, ai fruscii delle foglie, al trotto d’un cavallo che s’allontana» – può spezzare l’incantesimo narcotizzante della musica tradizionale e riportare il pubblico alla vita:
Ogni manifestazione della nostra vita è accompagnata dal rumore. Il rumore è quindi famigliare al nostro orecchio, ed ha il potere di richiamarci immediatamente alla vita stessa… [esso] giungendoci confuso e irregolare dalla confusione irregolare della vita, non si rivela mai interamente a noi e ci serba innumerevoli sorprese.
Ancora una volta viene naturale il riferimento a John Cage e, in particolare, alla sua geniale partitura 4.33 – 4 minuti e trentatrè secondi di silenzio – eseguita per la prima volta nel 1952 davanti ad un pubblico a dir poco attonito e nervosamente teso nell’ascolto di una melodia che non sarebbe mai giunta alle loro orecchie: al posto della musica, infatti, solo un lungo interminabile silenzio fatto eseguire – si fa per dire – da un impeccabile maestro d’orchestra. Ma ciò che Cage intendeva a suo modo dimostrare con la sua “non-musica” dall’effetto spiazzante è che «il silenzio assoluto non esiste», neppure all’interno di una stanza anecoica (totalmente insonorizzata) perché anche lì ascolteremmo un rumore di fondo che è il nostro battito cardiaco.
Il silenzio, infatti, è pieno di suoni accidentali e per riconoscerli è sufficiente essere disponibili all’ascolto. Cage ricorda che alla prima esecuzione di 4.33 si potevano sentire, durante i primi due movimenti, «il vento che soffiava dall’esterno» e «gocce di pioggia [che] cominciavano a picchiettare sul tetto», e «durante il terzo [movimento] la gente stessa produsse ogni genere di suono interessante parlando o uscendo dalla sala».
Bisbigli, colpi di tosse, fruscii di vestiti, scricchiolii di poltrone, brusii, mormorii, borbottii in un crescendo di rumori e malumori: la reazione del pubblico americano presente nella sala-concerti la sera di quella famosa Prima, era naturalmente voluta, provocata, in quanto – nelle intenzioni di Cage – era proprio quel rumore prodotto dall’ambiente e dal pubblico presente in sala il contenuto della rappresentazione:
Sentivo e speravo – dichiarò il compositore americano – di poter condurre altre persone alla consapevolezza che i suoni dell’ambiente in cui vivono rappresentano una musica molto più interessante rispetto a quella che potrebbero ascoltare ad un concerto.
Ma puntare sulla reazione del pubblico, provocarlo, scuoterlo dal suo torpore ottuso, era stato anche un obiettivo importante della nostra avanguardia, sin dagli anni Dieci, quando folle di spettatori eccitati assistevano alle clamorose serate futuriste organizzate da Marinetti, armati di ortaggi di ogni genere e pronti alla rissa.
Masnata, occupandosi nel ’33 del nuovo mezzo radiofonico, non potè fare a meno di ritornare sulla questione pubblico e lo fece nelle ultime righe del suo manifesto dichiarando che l’assoluta novità della radio consisteva proprio nella possibilità di sottrarre l’opera trasmessa all’«influenza deformante e peggiorante» del pubblico massa – «giudice autoeletto sistematicamente ostile e servile sempre misoneista sempre retrogrado» – e di consegnarla invece all’ascoltatore individuo, protagonista di un’avventura intima, unica, sia pure all’interno di un’esperienza collettiva.
Non mancarono tuttavia contraddizioni e valutazioni affrettate da parte di Marinetti e di Masnata, proprio in relazione agli effetti della radio sulla funzione e il ruolo del pubblico in ascolto. Da un lato, quest’ultimo veniva chiamato in causa nella veste di coautore dell’opera trasmessa della quale andava recepito e integrato il messaggio con uno sforzo di intelligenza: è quanto sostenuto nella teoria del «medium freddo» (a bassa definizione e quindi ad alta partecipazione dell’utente) elaborata negli anni sessanta da Mac Luhan; dall’altro lato, però, la radio – leggiamo nel manifesto di Masnata – sottraendo al pubblico quella funzione giudicante pienamente riconosciutagli, invece, in teatro o al cinema, finiva per abolire il «prestigio del pubblico» riducendolo ad una fruizione meramente passiva: è quanto accade con i «media caldi», ad alta definizione, che secondo la teoria di Mac Luhan, saturano di dati l’utente, lanciandogli messaggi totalmente strutturati che non necessitano di alcuna integrazione ulteriore.
Ahimè, è proprio in tale direzione che proseguirono gli studi e le ricerche sulla radio e sulle sue possibili utilizzazioni. Una volta passato l’iniziale entusiasmo, la curiosità dei futuristi attorno al nuovo medium sfumò progressivamente, mentre aumentò l’interesse per i suoi effetti politici da parte dei regimi totalitari che, nel corso degli anni Trenta, se ne servirono quale insostituibile strumento di propaganda e di indottrinamento ai danni di un pubblico largamente influenzabile e ridotto al silenzio.
(Estratto del saggio Ancora sul Futurismo. Tra folgoranti intuizioni e occasioni mancate, in Speciale futurismo, a cura di A. Ottieri, «Sinestesie», a. VIII, 2010, pp. 7-14)
http://www.rivistasinestesie.it
http://www.progettoblio.com/files/381.pdf
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