IL TEMA DEL CONGEDO NELLA POESIA DI GIORGIO CAPRONI

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Giovanni Raboni che, forse meglio di chiunque altro, è riuscito a penetrare con esemplare lucidità e finezza interpretativa nell’universo concettuale e formale del poeta livornese, definisce l’intera opera poetica di Giorgio Caproni «un grande, struggente e severo canzoniere d’esilio o, in altro senso, un ininterrotto diario di viaggio»:

[…] viaggio nel tempo e nello spazio, viaggio nel nulla (nella nebbia, nell’Ade) ricordando la madre e la terra, viaggio nel tunnel dell’assenza di Dio assaporando l’amaro trionfo della sua scomparsa, viaggio nell’antimateria – nel non-spazio, non-tempo, non-luogo – capovolgendo (e al tempo stesso celebrando con raggelata e affettuosa ironia) gli appuntamenti, i riti, le «cerimonie» dell’ovvietà quotidiana.

Caproni, dunque, si propone alternativamente, nel suo lungo percorso poetico e intellettuale, nella veste di poeta-viaggiatore o in quella di poeta dell’esilio: esilio dallo spazio (ovvero dalle città dell’infanzia e della giovinezza), dal tempo passato (e quindi dalla madre, dagli amici di gioco, dagli amori giovanili), da Dio (che si è congedato per sempre dal mondo degli uomini) e infine esilio dalla vita (che non ci rende immuni dall’horror vacui, non offre appigli sicuri dinanzi alla costante minaccia dell’abisso). Ecco allora il poeta mettere in scena se stesso – direttamente o attraverso personaggi emblematici – nell’atto di prepararsi alla partenza, di salutare gli amici, di congedarsi dai luoghi cari alla memoria (Genova, Livorno) e dalle persone amate (la madre, i figli, la moglie Rina). Chi è in procinto di partire – ogni viaggiatore lo sa – non può fare a meno di compiere una serie di operazioni rituali, di piccole cerimonie maniacali (alcune davvero utili, altre semplicemente dettate dall’abitudine) tutte ugualmente indispensabili per far calare la fatale tensione della partenza, quell’ansia indefinibile mista ad eccitazione, quella sottile paura dell’ignoto o dell’imprevisto, che assalgono chiunque, anche il viaggiatore più esperto, nell’atto di mettersi in cammino. Se è vero, quindi, che dalla raccolta del ’65 in poi, ovvero a partire dal Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee fino a Res amissa (la raccolta uscita postuma nel ’91), «Caproni non ha fatto altro che “congedarsi”» – torno a citare il saggio di Raboni –, potrà essere, allora, di qualche utilità inventariare tutte quelle manifestazioni (cerimoniali di saluto, addii, raccomandazioni rituali e frasi di circostanza) mediante le quali si compie il rito “infinito” del congedo. Un rito che viene ripetuto continuamente quasi ossessivamente, nel corso della cosiddetta seconda stagione poetica di Caproni, assumendo formulazioni e figurazioni sempre nuove e poeticissime. Il congedo del viaggiatore cerimonioso – il celebre componimento datato 1960 che dà il nome alla raccolta del ’65 e inaugura la seconda lunga stagione della poesia caproniana – costituisce naturalmente la prima e più famosa delle variazioni narrative sul tema del congedo. Il logorroico viaggiatore protagonista della lunga poesia (parente stretto di certi patetici personaggi pirandelliani), dilata oltre ogni ragionevole misura il cerimoniale dei saluti, delle scuse, degli addii, dei ringraziamenti:

Amici, credo che sia / meglio per me cominciare /a tirar giù la valigia. […] / Vogliatemi perdonare / quel po’ di disturbo che reco. […] / Ancora vorrei conversare / a lungo con voi. Ma sia. […] / Chiedo congedo a voi / senza potervi nascondere, / lieve, una costernazione. […] / Dicevo, ch’era bello stare / insieme. Chiacchierare. […] / Ma, cos’importa. Sia / come sia, torno / a dirvi, e di cuore, grazie / per l’ottima compagnia.

L’atteggiamento ossequioso, affettato, leggermente impacciato del viaggiatore, colto nell’atto di accomiatarsi dai compagni di viaggio conosciuti occasionalmente in treno, potrebbe generare insofferenza e quasi un moto di stizza nel lettore, se non ci fosse la drammaticissima ultima strofa a mutare quel sottile fastidio iniziale in autentica commozione:

Ora che più forte sento / stridere il freno, vi lascio / davvero, amici. Addio. / Di questo, sono certo: io / son giunto alla disperazione / calma, senza sgomento. / Scendo. Buon proseguimento.

Ecco emergere, dunque, il primo dato di cui tener conto nella nostra indagine. Il rito del congedo, qui come negli altri componimenti incentrati sullo stesso tema, si compie sempre in un’atmosfera di assoluta compostezza: i gesti sono calmi e misurati, i toni sono smorzati, il contegno del viaggiatore, o di chi è nell’atto di congedarsi, suo malgrado, da luoghi e persone care, è sempre dignitoso e spesso anche improntato ad un’ironia affabile e bonaria; nel caso del «viaggiatore cerimonioso» solo la sua eccessiva loquacità tradisce la presenza nell’animo di quella «lieve» costernazione, di quella «disperazione calma, senza sgomento» che deriva da una accettazione lucida e rassegnata dell’ineluttabilità del destino. Ma da chi e da quali luoghi si congeda il poeta-viaggiatore e verso quali mete, quali nuove destinazioni, reali o simboliche, si dirige? Per Caproni congedarsi significa innanzitutto dire addio ai luoghi dell’infanzia e della prima giovinezza, vale a dire all’amatissima Genova, città fisica e ideale al tempo stesso, amata più di Livorno città-natale:

A dieci anni, Caproni va a vivere a Genova, che diventa la sua città e, si può dire, l’oggetto del suo primo innamoramento. […] In fondo, è difficile «innamorarsi» della propria città per chi, essendoci nato, non ha avuto modo di scoprirla all’improvviso, così come si scopre in una persona un oggetto d’amore. Caproni, invece, non essendoci nato, ha potuto, appunto, scoprire Genova – che era un’altra «persona» rispetto alla Livorno della sua infanzia – e se ne è innamorato.

Sempre presente nel cuore del poeta come una «chimerica città dell’anima», un «altrove» misterioso e affascinante perduto nei ricordi dell’infanzia, Genova è essenzialmente un nodo di emozioni, di nostalgie, di rimpianti. È «una città / cui nulla, nemmeno la morte / – mai, – mi ricondurrà» – scrive il poeta ne Il gibbone – sottolineando con vigore, quasi con rabbia, la sua condizione di poeta sradicato, esiliato per sempre dalla sua terra e dalla sua gente, costretto a vivere «fra tanta gente che viene, / tanta gente che va» in una città non sua, dove si sente «lontano e solo / (straniero) come l’angelo in chiesa dove / non c’è Dio. Come, / allo zoo, il gibbone»:

No, non è questo il mio / Paese. […] / Nell’ossa ho un’altra città / Che mi strugge. È là. /L’ho perduta.

Il medesimo motivo dell’amore-rimpianto per Genova – luogo denso di ricordi (a volte dolorosamente precisi) dove si è consumato «l’infantile inferno» del poeta e insieme «città dell’anima» dalla quale quest’ultimo si è forzatamente e definitivamente congedato – è presente con uguale intensità nella poesia Toba del 1964:

Sono stato là / dove non si può tornare. / Tutto è come fu. C’è il mare / ancora, che par penetrare / l’asfalto (par trasparire / – nel nero – dalle rose / delle facciate), e ancora / verde c’è l’Orologio, fermo / – con Giano – sulla stessa ora. / C’è ancora Toba, il mio / nemico, ora fiaschettiere. […] / C’è ancora tutto l’inverno ( (il brivido: il caldo) / del mio infantile inferno.

Nella lunga poesia I ricordi (pure inclusa nella raccolta del ’65) Caproni dichiara perentoriamente di non amare i ricordi: all’amico e compagno di gioco che lo invita a bere e a ricordare alcuni luoghi di Livorno – il Corallo, Via Palestro – e alcune donne – la Gina, la Ottorina (figlia del fiaschettiere), Italia – legate all’infanzia del poeta, quest’ultimo si schermisce e risponde quasi infastidito: «Ma io i ricordi / non li amo». Eppure i ricordi di strade, piazze e quartieri di Genova (Porta dei Vacca, Vico del Pelo, Portoria, San Martino) e di Livorno (Scalo dei fiorentini, il Voltone, il Corallo, Via Palestro) affiorano di continuo alla memoria, alcuni con contorni piuttosto nitidi altri più sbiaditi, e tutti rendono più penoso e struggente il congedo del poeta dallo spazio e dal tempo passato. Se nei versi la precisione, la puntualità del ricordo a volte vacilla e il poeta commette degli errori di memoria, questi errori vengono prontamente emendati nelle preziose note ai testi che accompagnano le ultime opere del poeta dal Seme del piangere del ’59 al Conte di Kevenühller dell’’86. Anche nella Nota al Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee Caproni, con meticolosa precisione, spiega il titolo della poesia Toba, corregge un errore di memoria sfuggitogli in quella stessa poesia e soprattutto spiega che tutti i luoghi citati sono reali come reali sono «tutti i personaggi nominati» nelle poesie. Alla precisione, quasi maniacale, con cui il poeta-viaggiatore evoca le persone dalle quali si è congedato (indicandone i nomi e i ruoli) e cita le coordinate topografiche dei luoghi più cari e frequentati nella giovinezza, fa da contraltare l’indefinitezza, l’incertezza dei luoghi che incontrerà nel corso del suo viaggio. Alle spalle il poeta-viaggiatore si lascia un passato affollato di ricordi, popolato di persone e di luoghi fermati per sempre in una serie di immagini, di “istantanee” che costituiscono il suo bagaglio irrinunciabile, davanti invece non si vede nulla, c’è nebbia, oscurità e soprattutto solitudine, assenza di uomini e di Dio. Più volte il poeta-viaggiatore dichiara di non conoscere la destinazione finale del suo viaggio, di procedere con esitazione e con prudenza per timore di perdersi nell’oscurità o nel fitto della nebbia; ma quando il viaggio sembra finalmente volgere al termine, e ci si ritrova esausti «quasi al limite della salita», solo allora salta fuori l’imprevedibile verità:

   – Signore, deve tornare a valle. / Lei cerca davanti a sé ciò che ha lasciato alle spalle.

«Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai», leggiamo in un altro breve componimento quasi coevo, e lentamente scopriamo che in realtà il poeta non si è mai mosso dal luogo di partenza, poiché viaggiare altro non è che descrivere un cerchio perfetto nel quale non v’è inizio né fine e in cui non è possibile distinguere «l’inseguito» dall’«inseguitore», «il perseguitato» dal «persecutore»; viaggiare significa congedarsi da tutto e da tutti, prepararsi al cammino da affrontare… per poi immancabilmente «voltarsi indietro», scoprire che ciò che si cercava c’era già e che conoscere significa essenzialmente “riconoscersi” e prendere coscienza, con coraggio, che i nemici veri, i «persecutori», non sono fuori ma dentro noi stessi:

Mi sono risolto. / Mi sono voltato indietro. / Ho scorto / Uno per uno negli occhi / I miei assassini. / Hanno / – tutti quanti – il mio volto.

«L’uomo che di notte, solo» si mette in cammino, «che se ne va / e non si volta», «non porterà nemmeno / la lanterna. Là / il buio è così buio / che non c’è oscurità» egli «spinge il cancello e rientra / – solo – nei suoi sospiri…». I versi che ho appena citato appartengono a tre brevissime poesie – In una notte di un gelido 17 dicembre, Senza titolo, La lanterna – anch’esse incluse nel Congedo del ’65, che, lette insieme, una di seguito all’altra, costituiscono le tre strofe di un unico struggente componimento sulla solitudine irrimediabile del poeta-viaggiatore, per il quale congedarsi dagli altri, dal passato, non significa approdare ad una nuova dimensione esistenziale, ma rientrare (dopo molti giri a vuoto) nel proprio buio isolamento che non conosce la luce della speranza. Il viaggiatore cerimonioso e il guardiacaccia, personaggi emblematici, protagonisti delle due più celebri e lunghe poesie della raccolta del ’65, ignorano entrambi il luogo dove sono diretti: il viaggiatore cerimonioso, che ignora il «luogo del trasferimento», non sa bene l’ora d’arrivo e neppure conosce quali stazioni precedono la sua, ha la vista offuscata dal «fumo umido del nebbione» che avvolge tutti i vagoni del treno; si tratta della stessa fitta nebbia che nella poesia Il fischio aumenta l’inquietudine del guardiacaccia costretto a congedarsi dai compagni di gioco per inoltrarsi nel bosco fitto a causa di un misterioso fischio udito nella notte:

Non credo che questo sia / il fischio del bracconiere. / C’è troppa nebbia. Comunque / (qui son le carte) finite / voi la partita. Io / (potete continuare a bere / anche per me) conosco, / né posso esimermi, quello / ch’è il mio preciso dovere.

Il bosco, reso ancor più scuro e minaccioso dalla presenza della nebbia, genera trepidazione tra gli amici del guardiacaccia, ma quest’ultimo avverte:

Per quanto siano bui / gli alberi, non corre un rischio / più grande di chi resta, colui / che va a rispondere a un fischio.

Nebbia è anche il titolo di una poesia del ’52, inclusa nei Versi spersi, dove ancora una volta il poeta racconta le sue frequenti partenze in treno, «con vaporose / e lunghe locomotive nere», avvenute sempre in «mattine nebbiose» e «nell’ora albina / e umida» quando «la brina bagna i treni e copre «i binari a lutto»:

Partivo senza capire / dove mai andassi a finire. / Avevo nel capo nebbia; / nel cuore – verde – una Trebbia.

La nebbia è fuori – nasconde i luoghi, avvolge le persone, occulta gli oggetti – ma è anche nella testa del poeta-viaggiatore che, ripetiamolo, non conosce mai la meta, la destinazione finale del suo viaggio. «Che ne sappiamo, / noi tutti, di quel che ci aspetta / di là» (p. 261), si chiede l’assennato protagonista della poesia Prudenza alla guida del ’62, che invita anche i compagni di viaggio a non forzare la marcia, a sostare, ad accontentarsi, «tranquilli», delle tappe già percorse e a godere, prima di ripartire, dell’«insolita sicurezza» dei luoghi. Lontano nell’oscurità, non c’è silenzio, «ci sono mormorii / diversi. Voci. Brusii. Non altro». Le voci chiare e squillanti degli amici di giovinezza, i nomi chiamati a voce alta dei barcaioli di Scalo dei fiorentini (Otello, il Decio, il Rosso, l’Olandese), i nomi di donna e i motti affettuosi gridati dai compagni di gioco, appartengono oramai al tempo passato, nel futuro ci sono solo bisbigli e brusii, rumori confusi e suoni indistinti, così come indistinti, perché avvolti dall’oscurità, sono i colori: non più il giallo e il verde delle maglie multicolori dei barcaioli di Livorno, il verde della Trebbia, il petto bianco e i capelli rossi della Gina al Corallo, ma il grigio della nebbia e il nero della notte che rendono ancora più amara la solitudine del poeta «che nel buio è solo / a bere: che non ha / nessuno, nell’oscurità, / cui accostare il bicchiere…». «I nomi / li ha con sé il vento» scrive il poeta in Scalo dei fiorentini e poco dopo leggiamo che «anche i colori / li prende il vento»: il tempo macina i ricordi, ne assorbe i rumori e trasforma le immagini, prima limpide e distinte, in una melma incolore. Ma se nella melma indifferenziata dei ricordi è impossibile attingere le forme e le parole del tempo passato, dal quale il poeta si è definitivamente congedato, allo stesso modo è negata – nella «ateologia» di Caproni – una proiezione ottimistica nel tempo futuro: la solitudine dell’uomo è, infatti, una «solitudine senza Dio», come scrive Caproni nel breve Inserto contenuto nella raccolta Il franco cacciatore del 1982:

Vi sono casi in cui accettare la solitudine può significare attingere Dio. Ma v’è una stoica accettazione più nobile ancora: la solitudine senza Dio. Irrespirabile per i più. Dura e incolore come un quarzo. Nera e trasparente (e tagliente) come l’ossidiana. L’allegria ch’essa può dare è indicibile. É l’adito – troncata netta ogni speranza – a tutte le libertà possibili. Compresa quella (la serpe che si morde la coda) di credere in Dio, pur sapendo – definitivamente – che Dio non c’è e non esiste.

Si tratta di quel definitivo «esilio dell’uomo da Dio», di cui parla Raboni e che Agamben ha chiamato «estrema disappropriazione fra l’uomo e il Dio», dinanzi alla quale non resta altra soluzione per il poeta-viaggiatore che quella indicata in Cortesia, uno degli ultimi Versicoli del controcaproni: prendere congedo anche da se stesso e, con la consueta discrezione e compostezza, «sparire», togliere per sempre il disturbo:

Siete impazienti. Capisco. / Vi lascio il posto. Vo via. / Dove, non lo so. Sparisco.

(Estratto del saggio apparso nel volume miscellaneo La poesia italiana del secondo Novecento (Atti del 5° Convegno della MOD – Arcavacata di Rende, 27-29 maggio 2004), a cura di Nicola Merola, Cosenza, Rubbettino, 2006)

http://www.store.rubbettinoeditore.it/la-poesia-italiana-del-secondo-novecento.html

http://www.torrossa.com/resources/an/2288017

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